Giochi di luce
di Ester Maria Schmitt
«Chiude gli occhi … e fa centro»
(Julio Cortázar, Il gioco del mondo).
Guardo la realtà senza occhiali. La visione sfocata mi mette a disagio, eppure è quella mia più vera. Poso le lenti e tutto diventa incerto, i contorni si perdono; il mondo mi appare lontano, strizzo gli occhi per mettere a fuoco e penso che invece li dovrei spalancare, avvinghiare con lo sguardo quello scenario sfuggente.
Mia madre la ricordo elegante, sebbene non lo fosse per nulla. Non vestiva bene e non curava granché la propria femminilità, almeno non da quando c’eravamo io e mia sorella. Ma se chiudo gli occhi – « … mi accorsi subito che per vederti come volevo io era necessario cominciare col chiudere gli occhi … » (ivi) – la vedo in piedi, bellissima, con indosso un abito lungo, di lana, e al collo un filo di perle. Conserviamo quello che vogliamo, i ricordi sono nostri e dunque siamo liberi di modificarli, abbellirli, costruirli da zero. Illuminiamo qualcosa, mettiamo in ombra qualcos’altro. Giochi di luce: avete mai perso tempo a osservare? A giocare con gli occhi? Chiuderne uno, poi riaprirlo e chiudere l’altro, piegare la testa di lato, sbirciare attraverso le dita. Da bambina trascorrevo pomeriggi interi così, volevo decidere io quanto mondo far entrare dentro di me, come quando respiriamo, che possiamo farlo più o meno profondamente.
Possiamo ignorare una parte di realtà, possiamo filtrare, alleggerire, lasciar fuori qualcosa. Si potrebbe pensare che è il contrario che non ci è permesso fare, prendere più di quel che di fatto c’è: ma è possibile fare anche questo, con un po’ di maestria: ingannare la nostra memoria. «Quando si tratta della propria realtà, è l’artista ad avere l’ultima parola» (Tom Robbins, Coscine di pollo). Qualcosa può non essere mai accaduto, tuttavia sembrarci più vero di tanti ricordi reali. È falso, ma lo sentiamo sinceramente nostro. Come certe bugie, ripetute nella mente così tante volte che hanno finito col confonderci, e noi col convincerci che si tratta di verità.
Guardo la realtà con gli occhiali, ritrovo sicurezza e familiarità, abbasso la guardia. Ho sempre detestato dover indossare gli occhiali, così pesanti, così ingombranti e di impaccio, così evidenti, proprio lì in mezzo al viso. Da adolescente aspettavo con ansia la maggiore età per poter fare l’operazione e correggere la miopia, essere libera dalla montatura e dalle insicurezze. Ora sono quasi adulta, potrei realizzare questo desiderio, ma non lo faccio: forse non ancora, forse non lo farò mai. La sensazione sgradevole, quasi angosciante data da una visione annebbiata è ormai parte di me, e non sono più sicura di volerci rinunciare. Un disorientamento che il più delle volte evito, ma di cui ogni tanto, consapevolmente, vado in cerca.
Dalle mie parti la nebbia è un fenomeno comune, fa capolino col finire dell’estate e ci accompagna per tutto l’inverno, fino a primavera. E io la adoro: la nebbia ha una consistenza e un odore ben precisi, la nebbia si tocca, la nebbia è latte, un latte in cui si perdono riferimenti, si smarrisce la via e ci si sorprende soli. Ma è quando si è soli che ci si ritrova, ci si conosce davvero, si prende coscienza delle proprie forze.
Amo camminare nella nebbia, e amo guardare senza occhiali. Mi piace sentire la consistenza e la presenza del mio corpo quando tutto attorno sembra invece diventare evanescente. Non vedo quel che mi circonda, non sono più sicura di dove mi trovi: il mondo sembra fermarsi per qualche secondo, mi fermo anche io, respiro. Provo smarrimento, agitazione, allora aspetto. Conto fino a otto – io conto sempre fino a otto. È tutto confuso, ma io ci sono, il mio fiato è caldo, sono carne sono viva. Chiudo e apro gli occhi, alterno il nero delle ombre al fumo bianco, mi mescolo all’oscurità, divento foschia.
Penso agli animali, a quando, illudendosi di nascondersi, chiudono gli occhi: loro non ci vedono più, e credono che sia lo stesso per noi. Sorrido, e mi torna in mente quando, da piccola, facevo qualcosa di simile: iniziava la conta del nascondino e io correvo dietro una tenda, coprivo testa e busto ma, trattandosi di tende corte, lasciavo completamente scoperti le gambe e i piedi. Non ci pensavo proprio a nascondermi tutta, per intero: è con gli occhi che si vede, e se quelli erano coperti, lo sarei stata anche io. Un pensiero ingenuo e infantile, eppure così straordinariamente vero: noi siamo i nostri occhi.
Non c’è una sola realtà, ce ne sono tante quanti sono gli occhi della gente: tutto dipende, sempre, da come guardiamo.
«Sulla piccola tela … Ellen Cherry … aveva l’ultima parola: capovolgeva montagne, trasformava i macigni in salici, e i salici in torte meringate al limone. … Il prodotto finito? Be’, non era né una cruda fetta di realtà né un innocuo batuffolo di fantasia … Sotto la poco promettente superficie della nuda roccia, aveva scoperto una capricciosa girandola di emozioni … » (ibidem).
Giochi di luce.
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