Fiori secchi


«Sei l’unico a potermi dare una risposta, e in effetti, ora che tutto è finito, la risposta l’hai data con la tua vita. Alle domande più importanti si finisce sempre per rispondere con l’intera esistenza» (Sándor Márai, Le braci).

 

fiori secchiGuardo dei fiori appassire, manca acqua nel vaso ma non ne aggiungo, lascio che la natura faccia il proprio corso.

Penso alla morte, da qualche tempo è un’immagine ricorrente. Stanze di ospedale affollate di malati sofferenti, incidenti stradali che coinvolgono i miei familiari, malattie di cui non sono a conoscenza che mi stanno indebolendo poco a poco. Rimugino su cose del genere ogni giorno, spontaneamente. Chissà se da morta penserò con altrettanta frequenza alla vita.

Morte, vita. Te le insegnano come opposti incompatibili, in necessaria antinomia, ma è da molto che per me non lo sono più: sono una di fianco all’altra, spesso si compenetrano a vicenda, possono anche convivere all’interno dello stesso corpo come fossero un tutt’uno – io tante volte ero viva eppure ero morta, morta eppure viva. Io l’ho visto, che può non esserci alcuna differenza, ma so anche che da un momento all’altro tutto può cambiare, che il confine si fa improvvisamente netto e devi decidere: o di là, o di qua.

Ora sono di qua, e ci sto bene. Sono di qua e lo sono per intero, ma qualcosa, da di là, mi ha seguito. Deve aver sentito in me un terreno facile, forse per la simpatia che ho sempre provato per le cose tristi e cupe, la carta da parati che si scolla, una tazza sbeccata, l’autunno. I fiori secchi. Mi affeziono alle persone che hanno negli occhi la malinconia, vedo il dolore dentro di loro e le sento amiche; forse la morte ha fatto con me lo stesso ragionamento, e ha deciso di starmi vicino.

***

Sei morto in maniera continuativa da settecentoquarantadue giorni, ma anche tu eri già morto e rinato in diverse occasioni. Morivi ogni volta che la tua mano colpiva il suo viso, quando maledicevi il giorno della nostra nascita e scaraventavi cornici e cristalli contro le pareti, riducendoli in frantumi. Rinascevi dopo qualche ora, quando ti dimenticavi di quello che avevi fatto. Era facile, per te. Prima di qua, poi di là, poi di nuovo di qua. Ogni volta che tornavi era un pezzo di noi ad andare dall’altra parte, e ogni volta un pezzo più grosso, in un viaggio senza ritorno.

Sulla tua tomba qualcuno ha messo dei fiori finti, di plastica fucsia, sono di così cattivo gusto che la cosa mi entusiasma, mi diverto ad innaffiarli regolarmente. Mi sembra di sentire le imprecazioni uscire dalla tua bocca e risuonare dentro la bara, le mani fremono ma non le puoi muovere – hai esaurito i colpi, la rabbia rimbalza intrappolata nella tua carcassa, accelerandone la decomposizione.

È il tuo contrappasso, poteva andarti peggio.

***

E il nostro, qual è? Cosa spetta a noi sopravvissuti, ai brandelli di noi che ce l’hanno fatta, ai cocci raccolti e malamente incollati? Cosa mi merito io, che di te racconto il peggio ora che non puoi difenderti? Che prezzo pagherò per questa amara, triste, stupida ed inutile vendetta?

Pago tanto e lo pago ogni giorno, perché quel che esce sono briciole rispetto a quel che resta dentro, il passato non è mai alle spalle, il passato è nello stomaco.

***

Raccolgo dei fiori di campo e compongo un mazzetto, abbellisco la tavola il giorno del tuo compleanno. Sono gialli, profumano di fresco, di pace, di futuro, so che ti stai commovendo e mi ringrazi, non sai che non lo sto facendo per te.

Lo faccio per me perché devo darmi una speranza, dimostrare di non essere marcia del tutto, di non essere diventata te. Non mi fai più paura ora che sei sottoterra ma mi spaventa la tua presenza dentro di me, l’eredità con cui prima o poi so di dover fare i conti. Salviamo i morti dall’oblio tenendone vivo il ricordo dentro di noi: ma che conforto è per me questo?

***

Torno in cimitero e aggiungo fiori veri ai fiori finti, il contrasto che creo è fastidioso alla vista eppure sono convinta che non ci sia niente di più giusto. Contrapposti gli uni agli altri acquistano autenticità e la loro natura, portata agli estremi, è ora sfacciatamente manifesta: i finti divengono posticci in maniera inconfutabile, quelli veri sono adesso di una verità stupefacente, come non riuscivano a esserlo da soli. C’è morte dove c’è ancora vita, c’è vita anche se c’è morte, e noi stiamo un po’ di qua, e un po’ di là.

 

 

«Le candele» dice distrattamente, mentre i suoi occhi si fermano sui mozziconi di cera che fumano nei candelabri sopra la mensola del camino. «Guarda, le candele si sono completamente consumate» (ivi).

Ciao papà, a presto.

Ester Maria Schmitt -

Nasce, qualche anno fa, a Padova, ma le origini sono ungheresi, napoletane e tedesche. Non sapendo bene cosa fare della propria vita studia, cosa che le piace e le riesce piuttosto bene. Dopo due lauree è confusa quanto prima, si è innamorata della linguistica ma le mancano le scienze, ama tante cose, troppe, è curiosa di tutto, patologicamente irrequieta e insoddisfatta. Tutto sommato, però, questa esistenza un po’ campata in aria le piace, non ha grandi aspettative e quindi neanche grandi delusioni; unico vero desiderio è quello di avere un cane ma non lo prende perché vuole che il loro incontro sia voluto dal destino, possibilmente in una notte di pioggia, se c’è sofferenza meglio. Ama le storie tristi.

È una scrittrice, questo l’ha sempre saputo, fin da bambina e addirittura prima di imparare a scrivere. In attesa del Grande Giorno, quello in cui pubblicherà il suo libro di racconti (un romanzo non potrebbe mai portarlo a termine, si stanca facilmente e cambia più idee che calzini – quelli un giorno intero in genere le durano), vaga da una parte all’altra – a volte del mondo, più spesso della casa – , mangia tanto da creare sospetti di tenia e lavora come bibliotecaria.

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