Italia, un paese in declino. E la sua lingua?
di Francesca Pacini
Mssimo Arcangeli è un linguista, critico letterario e scrittore. Collabora con l'Istituto dell'Enciclopedia italiana Treccani e con numerose testate giornalistiche e radiotelevisive. Un uomo sempre impegnato, in prima linea per quanto riguarda lo studio del linguaggio e dei suoi mutamenti. Qui condivide con noi alcune riflessioni sul rapporto che il nostro paese ha con le sue parole, che si riflettono anche nella società...
Il rapporto tra linguaggio e identità nazionale. Com’è mutato, oggi?
De triviali eloquentia. Così ho intitolato un capitolo del mio Cercasi Dante disperatamente. L’italiano alla deriva (Roma, Carocci, 2011). Il motivo? Viviamo in un periodo di progressiva trivializzazione del linguaggio, che è anche una trivializzazione della nostra identità collettiva (ma dubito che ne abbiamo mai avuta davvero una). Sul banco degli imputati non c’è solo l’imbarbarimento prodotto da una volgarità generalizzata, ormai dominante un po’ ovunque, ma anche l’appannamento e la liofilizzazione di parole importanti come libertà, democrazia o giustizia, impugnate come clave dai politici contro i loro avversari. Quest’ultimo fattore, che è una forma subdola di involgarimento, contribuisce, con evidenti altri sintomi di un inarrestabile declino culturale, ad annebbiare ogni giorno di più le nostre coscienze critiche e a ottundere le nostre capacità di discernimento. Potremmo dire, con Thomas Bernhard: “La volgarità è da ogni parte intorno a noi, e ogni giorno, inevitabilmente, soffochiamo nell’imbecillità”.
Cosa pensi di questo paese? Vizi e virtù del popolo italiano...
Una delle parole più interessanti dell’Italia postunitaria, fra quelle costitutive del carattere italiano, c’è fesso. È un napoletanismo che al tempo della Prima Guerra Mondiale, grazie all’acuta penna di Giuseppe Prezzolini, si sarebbe via via propagato in tutta la penisola. I furbi, che in quell’esperienza bellica vennero segnati a dito dai più (s’imboscavano, sottraendosi all’obbligo di servire il paese), furono però anche soggetti da emulare per molti di quei soldati che, impegnati al fronte, volevano affrancarsi dalla loro condizione di fessi. Siamo, secondo me, ancora lì: ai “fessi” della resistenza sul Piave e sul Grappa e ai “furbi” della vittoria di Vittorio Veneto. La forbice tra chi fa il proprio dovere e chi si sottrae a ogni responsabilità, in una delle tante riproposizioni del mito negativo delle “due Italie”, mi pare si sia anzi addirittura allargata.
Quali sono le frasi, le espressioni gergali, che più ci rappresentano?
Più che espressioni gergali (o stereotipiche) mi verrebbe di indicare tante frasi fatte di cui non si comprende più nemmeno il reale significato, tante sono le volte in cui le si ripete meccanicamente. Oppure qualche affermazione che abbia avuto un grande impatto mediatico e venga riutilizzata proditoriamente in modo incongruo, per un gioco alla rincorsa di forme-involucro che, anche in questo caso, pare infischiarsene del senso. Il 12 novembre mi è arrivata via mail un’offerta promozionale sul risparmio energetico, e chi me l’ha mandata si è firmato “Stai sereno 24mesi!!”. Mi sono naturalmente ben guardato dall’accoglierla. Sappiamo tutti cos’è accaduto a chi, non molto tempo fa, ha ricevuto l’invito a star sereno.
E quelle che dovremmo evitare?
Proprio quelle che più ci rappresentano.
La coscienza di un popolo si fonda sulla cultura. Non a caso le dittature hanno sempre cominciato con il prendere di mira gli intellettuali... Che dire di un’Italia ignorante che continua a non leggere?
Qui siamo di fronte a un problema ben più grave di un’emorragia di lettori. La cultura è alla canna del gas, ha dichiarato l’anno scorso, da ministro per i Beni e le Attività Culturali, Massimo Bray. Nel 2013 il bilancio del MIBAC (1.546.779.172 euro), aveva informato Bray, si era infatti ridotto di oltre 100 milioni rispetto al 2012 e di quasi 500 milioni rispetto al 2008. Nel 2001 superava abbondantemente i due miliardi di euro; al tempo del ministero Bondi era stato portato dallo 0,28% allo 0,19% del totale della spesa pubblica (un misero 0,11% del prodotto interno lordo). Un paese che falcidia la cultura, trascinandola in fondo a tutte le classifiche europee, è un paese che, sull’ignoranza, strapiomba (col rischio di precipitare giù una volta per tutte, perché il deficit culturale è generatore di un deficit politico ed economico). L’Italia ignorante è anche quella toccata in sorte ai maestosi bronzi di Riace, che sono giaciuti a lungo, malinconicamente adagiati, nel palazzo del Consiglio regionale di Reggio Calabria. Quanto agli intellettuali, magari ne avessimo: potrebbero far sentire la loro voce, riuscire a farsi ascoltare almeno da una certa fetta della popolazione. Di intellettuali, invece, non ne abbiamo, e a parte rare eccezioni (da Gramsci a Pasolini) non ne abbiamo mai avuti.
Come vivi il tuo rapporto con la scrittura? Hai pubblicato diversi libri.
Il mio rapporto con la scrittura, attualmente, è una continua sfida portata alla teoria e alla pratica anticonsolatoria della contaminazione. Sono uscito qualche mese fa con un volume ibrido (Orizzonti inVersi. Poesia di tutti, poesia per tutti, Roma, Aracne), arricchito da un intervento critico di Giancarlo Liviano D’Arcangelo, composto da un mio saggio e da un’amplissima selezione – quasi l’opera omnia – di una giovane poetessa: Stefania Rabuffetti. L’ho fatto per dare maggior forza al risarcimento simbolico nei confronti dei tanti poeti che, avendo poco o nulla da invidiare ai pochi più fortunati, soccombono impotenti a un mercato strangolato dalla ricerca del profitto. Un altro mio libro ibrido (Biografi@ di un@ chiocciol@. Una storia confidenziale) è di imminente uscita presso Castelvecchi. È un libro di storie, a mezzo tra “saggio personale” (personal essay) e “racconto accademico”, che narrano di telegrafi e di computer, di telescriventi e di macchine da scrivere. Su tutto svetta però lei, la chiocciola informatica: con i suoi corsi e i suoi trascorsi; le parole che la identificano in tante lingue del mondo; il simbolo universale che è diventata; i tanti altri simboli con cui, lungo i secoli, ha familiarizzato di più. I vari filoni narrativi si ricompongono in quell’unico segno, timbrato a fuoco sulla nostra seconda pelle: una posta elettronica ben più intrusiva della posta ordinaria alloggiata nella cassetta per le lettere; ci possiede totalmente, fa ormai di noi quel che vuole. Tutto, è proprio il caso di dirlo, ruota attorno ad @.
Intervista di Francesca Pacini a Massimo Arcangeli
(La Stanza di Virginia novembre 2014)
1) Il rapporto tra linguaggio e identità nazionale. Com’è mutato, oggi?
De triviali eloquentia. Così ho intitolato un capitolo del mio Cercasi Dante disperatamente. L’italiano alla deriva (Roma, Carocci, 2011). Il motivo? Viviamo in un periodo di progressiva trivializzazione del linguaggio, che è anche una trivializzazione della nostra identità collettiva (ma dubito che ne abbiamo mai avuta davvero una). Sul banco degli imputati non c’è solo l’imbarbarimento prodotto da una volgarità generalizzata, ormai dominante un po’ ovunque, ma anche l’appannamento e la liofilizzazione di parole importanti come libertà, democrazia o giustizia, impugnate come clave dai politici contro i loro avversari. Quest’ultimo fattore, che è una forma subdola di involgarimento, contribuisce, con evidenti altri sintomi di un inarrestabile declino culturale, ad annebbiare ogni giorno di più le nostre coscienze critiche e a ottundere le nostre capacità di discernimento. Potremmo dire, con Thomas Bernhard: “La volgarità è da ogni parte intorno a noi, e ogni giorno, inevitabilmente, soffochiamo nell’imbecillità”.
2) Cosa pensi di questo paese? Vizi e virtù del popolo italiano...
Una delle parole più interessanti dell’Italia postunitaria, fra quelle costitutive del carattere italiano, c’è fesso. È un napoletanismo che al tempo della Prima Guerra Mondiale, grazie all’acuta penna di Giuseppe Prezzolini, si sarebbe via via propagato in tutta la penisola. I furbi, che in quell’esperienza bellica vennero segnati a dito dai più (s’imboscavano, sottraendosi all’obbligo di servire il paese), furono però anche soggetti da emulare per molti di quei soldati che, impegnati al fronte, volevano affrancarsi dalla loro condizione di fessi. Siamo, secondo me, ancora lì: ai “fessi” della resistenza sul Piave e sul Grappa e ai “furbi” della vittoria di Vittorio Veneto. La forbice tra chi fa il proprio dovere e chi si sottrae a ogni responsabilità, in una delle tante riproposizioni del mito negativo delle “due Italie”, mi pare si sia anzi addirittura allargata.
3) Quali sono le frasi, le espressioni gergali, che più ci rappresentano?
Più che espressioni gergali (o stereotipiche) mi verrebbe di indicare tante frasi fatte di cui non si comprende più nemmeno il reale significato, tante sono le volte in cui le si ripete meccanicamente. Oppure qualche affermazione che abbia avuto un grande impatto mediatico e venga riutilizzata proditoriamente in modo incongruo, per un gioco alla rincorsa di forme-involucro che, anche in questo caso, pare infischiarsene del senso. Il 12 novembre mi è arrivata via mail un’offerta promozionale sul risparmio energetico, e chi me l’ha mandata si è firmato “Stai sereno 24mesi!!”. Mi sono naturalmente ben guardato dall’accoglierla. Sappiamo tutti cos’è accaduto a chi, non molto tempo fa, ha ricevuto l’invito a star sereno.
4) E quelle che dovremmo evitare?
Proprio quelle che più ci rappresentano.
5) La coscienza di un popolo si fonda sulla cultura. Non a caso le dittature hanno sempre cominciato con il prendere di mira gli intellettuali... Che dire di un’Italia ignorante che continua a non leggere?
Qui siamo di fronte a un problema ben più grave di un’emorragia di lettori. La cultura è alla canna del gas, ha dichiarato l’anno scorso, da ministro per i Beni e le Attività Culturali, Massimo Bray. Nel 2013 il bilancio del MIBAC (1.546.779.172 euro), aveva informato Bray, si era infatti ridotto di oltre 100 milioni rispetto al 2012 e di quasi 500 milioni rispetto al 2008. Nel 2001 superava abbondantemente i due miliardi di euro; al tempo del ministero Bondi era stato portato dallo 0,28% allo 0,19% del totale della spesa pubblica (un misero 0,11% del prodotto interno lordo). Un paese che falcidia la cultura, trascinandola in fondo a tutte le classifiche europee, è un paese che, sull’ignoranza, strapiomba (col rischio di precipitare giù una volta per tutte, perché il deficit culturale è generatore di un deficit politico ed economico). L’Italia ignorante è anche quella toccata in sorte ai maestosi bronzi di Riace, che sono giaciuti a lungo, malinconicamente adagiati, nel palazzo del Consiglio regionale di Reggio Calabria. Quanto agli intellettuali, magari ne avessimo: potrebbero far sentire la loro voce, riuscire a farsi ascoltare almeno da una certa fetta della popolazione. Di intellettuali, invece, non ne abbiamo, e a parte rare eccezioni (da Gramsci a Pasolini) non ne abbiamo mai avuti.
6) Come vivi il tuo rapporto con la scrittura? Hai pubblicato diversi libri.
Il mio rapporto con la scrittura, attualmente, è una continua sfida portata alla teoria e alla pratica anticonsolatoria della contaminazione. Sono uscito qualche mese fa con un volume ibrido (Orizzonti inVersi. Poesia di tutti, poesia per tutti, Roma, Aracne), arricchito da un intervento critico di Giancarlo Liviano D’Arcangelo, composto da un mio saggio e da un’amplissima selezione – quasi l’opera omnia – di una giovane poetessa: Stefania Rabuffetti. L’ho fatto per dare maggior forza al risarcimento simbolico nei confronti dei tanti poeti che, avendo poco o nulla da invidiare ai pochi più fortunati, soccombono impotenti a un mercato strangolato dalla ricerca del profitto. Un altro mio libro ibrido (Biografi@ di un@ chiocciol@. Una storia confidenziale) è di imminente uscita presso Castelvecchi. È un libro di storie, a mezzo tra “saggio personale” (personal essay) e “racconto accademico”, che narrano di telegrafi e di computer, di telescriventi e di macchine da scrivere. Su tutto svetta però lei, la chiocciola informatica: con i suoi corsi e i suoi trascorsi; le parole che la identificano in tante lingue del mondo; il simbolo universale che è diventata; i tanti altri simboli con cui, lungo i secoli, ha familiarizzato di più. I vari filoni narrativi si ricompongono in quell’unico segno, timbrato a fuoco sulla nostra seconda pelle: una posta elettronica ben più intrusiva della posta ordinaria alloggiata nella cassetta per le lettere; ci possiede totalmente, fa ormai di noi quel che vuole. Tutto, è proprio il caso di dirlo, ruota attorno ad @.
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