I luoghi delle parole
di Francesca Pacini
Sono le parole le vere colpevoli. Sono fra le cose più indisciplinate, più libere, più irresponsabili e più riluttanti a lasciarsi insegnare. Certo, possiamo sempre prenderle, suddividerle e metterle in ordine alfabetico nei dizionari. Ma le parole non vivono nei dizionari, vivono nella mente. Se ne volete una prova, pensate a quante volte, nei momenti di maggiore emozione, vi capita di non trovarne nessuna quando più ne avreste bisogno. Eppure il dizionario esiste; e lì, a vostra disposizione, ci sono mezzo milione di parole tutte in ordine alfabetico. Ma potete davvero usarle? No, perché le parole non vivono nei dizionari, vivono nella mente. (…) La questione è solo quella di trovare le parole giuste e di metterle nell’ordine giusto. Ma non possiamo farlo perché esse non viono nei dizionari, vivono nella mente. E come vivono nella mente? Nei modi più strani, non molto diversamente dagli esseri umani; vagando qua e là, innamorandosi e accoppiandosi. E’ indubbio che siano molto meno limitate di noi dalle convenzioni e dai cerimoniali. Parole regali possono permettersi di accoppiarsi con le più comuni. Parole inglesi sposano parole francesi, tedesche, indiane, e di colore se gli salta in mente di farlo. (…) Per questo, imporre regole a tali impenitenti vagabonde è del tutto inutile. Le poche regole di grammatica e di ortografia esistenti sono le uniche restrizioni che potremmo imporre loro. Al massimo possiamo dire di loro – man mano che le spiamo dal profondo limite della caverna scura e male illuminata in cui vivono – che sembrano preferire la gente che sente e che pensa prima di usarle, ma non deve essere gente che sente e pensa a loro, ma a qualcosa di diverso. Perché sono molto sensibili, e si sentono facilmente a disagio. Non amano che si discuta della loro purezza o della loro impurità. (…) E non amano essere sollevate in punta di penna ed esaminate una per una. Restano sempre unite in frasi, in paragrafi, e a volte per intere pagine di fila. Odiano essere utili; odiano dover far soldi; odiano andare in giro a tenere conferenze. In breve, odiano qualsiasi cosa imponga loro un unico significato, o che le immobilizzi in un’unica posa, perché cambiare fa parte della loro natura.
E forse è proprio questa la loro caratteristica più sorprendente: il bisogno di cambiare. Perché la verità che cercano di affermare ha tante facce. (…) E quando le parole vengono inchiodate a un unico significato, ripiegano le loro ali e muoiono. Senza dubbio a loro fa piacere che noi sentiamo e pensiamo prima di usarle; ma vogliono anche che noi ci concediamo una pausa, vogliono che diventiamo incoscienti, Il nostro inconscio è la loro privacy; la nostra ombra è la loro luce.
(Virginia Woolf, Il mestiere delle parole – da Ore in Biblioteca e altri saggi)
Questo brano mi ha accompagnato per anni, e continua a farlo. Ci torno in modo misterioso, come quei richiami di cui non sai l’origine ma conosci la destinazione. Trovo che ci sia tanta "verità" in questa esposizione così palpitante, vigorosa, precisa. Virginia Woolf riesce a penetrare nella sua grotta per avvicinarle, trovarle, lasciarsi avvolgere. Ma ci vuole coraggio.
Immagino le parole come tanti pipistrelli che abitano, a testa in giù (sì, perchè quelle parole di cui parla lei sono rovesciate rispetto alla norma che governa la superficie su cui batte il sole) i nostri sottosuoli. Possono essere trovate solo al buio, e solo se ci lasciamo prendere e non tentiamo di catturarle. Sono queste le parole che fanno la differenza tra i capolavori immortali e il ciarpame di una stagione.
Il genio che le anima esce fuori solo se sfreghiamo il nostro luogo interiore, facendoci così piccoli da scomparire, anche se solo per un istante. Loro, in quel momento, abbandonano la convessità oscura, così cara e familiare, uscendo fuori, sopra la carta, per scavalcare i nostri pensieri.
Il problema è che oggi l’uomo ha costruito un sacco di inutili scuole per insegnare l'uso e l'abuso della parola (alludo alla pestilenziale profusione di corsi per imparare a scrivere romanzi e racconti) che, arenata sotto un sole cocente – il sole delle regolette facili facili e delle tecniche di pronto uso – preferisce morire e tacere piuttosto che servire padroni improbabili.
Le parole, in fondo, somigliano ai gatti. Non hanno padroni. Non tollerano regimi e costrizioni. Si può solo convivere con loro, mai dominarle. Siamo noi, gli ospiti di questo salotto interiore.
Chissà, forse è per questo che molti scrittori hanno sempre un gatto vicino (un po’ come i maghi e le streghe).
Purtroppo la scuola le uccide, le parole. Nel migliore dei casi, attenta alla loro salute.
L'impostazione scolastica, se non viene abbandonata, è infatti il sepolcro di ogni narrazione, ne succhia la linfa vitale, ne rinchiude il moto libero costringendola a un allevamento "in batteria".
La scrittura vera, quella che diventa capolavoro, tensione narrativa, spirito stesso di ogni letteratura di ieri e di oggi, è sempre scaturita da un’insubordinazione.
Qualcuno, ieri come oggi, ha chiuso le regole nel loro recinto, poi è andato nella sua caverna e ha spento la torcia, liberando il volo umbratile, notturno, caotico e allo stesso tempo preciso di quelle creature.
Il nostro inconscio è la loro privacy; la nostra ombra è la loro luce.
Da quel volo nasce lo stupore, fiorisce la meraviglia dei matrimoni perfetti fra le parole.
Virgina Woolf ha celebrato questo matrimonio più e più volte nella sua vita.
La "pazza", come si faceva chiamare, penetrava là dove le nozze si compiono.
Le parole non vivono nei dizionari, vivono nella nostra mente.
Ecco perché sono più difficili da avvicinare. Bisogna accettarne l’ambiguità. E la mobilità.
Impossibile fermare la lingua, che evolve, cresce, muta.
Sarebbe un po' come voler arrestare quel mondo che il demiurgo un giorno ha fatto ruotare. Mi fa pensare, questa immagine, a quelle farfalle meravigliose trafitte da uno spillo e infilate in rassegna in una scatola, a far mostra di sé e della bellezza che fu loro e solo loro, miseramente paralizzata (l’imbalsamazione è paralisi) dall’uomo che di tutto si appropria tranne dell’anima, sua e della vita che lo circonda.
Odiano qualsiasi cosa imponga loro un unico significato, o che le immobilizzi in un’unica posa, perché cambiare fa parte della loro natura.
Chi scrive conosce benissimo il tormento della ricerca infruttuosa, lo sconforto dei momenti "da dizionario", quelli in cui la pietra della ragione copre l’ingresso nella caverna.
In questi momenti si possono certamente scrivere cose belle, intelligenti perfino, e interessanti. Ma saranno come quelle farfalle morte.
Di ben altro tenore è il momento in cui la caverna lascia volare via i suoi tesori. Se ne riconoscono il sapore, il suono, il colore. Sono momenti magari semplici, come quando Borges scrive: "Camminavo a Buenos Aires in una vacanza serenissima della mente" o certamente più evocativi, come quando il colonnello Buendìa "ricorda quel pomeriggio remoto in cui suo padre lo aveva portato a conoscere il ghiaccio".
Ma sono fatti della stessa natura. Provengono dalla stessa scintilla.
Il cacciatore di parole non deve cacciare nulla. Deve solo tacere e ascoltare.
ma non deve essere gente che sente e pensa a loro, ma a qualcosa di diverso
L’ispirazione dalla quale provengono nasce dal caso, dall’incontro fortuito. È fiamma improvvisa che guizza e scompare, lasciando una traccia bella.
Meno si cercano, le parole, più occasioni abbiamo di lasciarci avvicinare.
Solo così saremo in grado di svegliare il cuore e la mente dal suo consueto torpore.
Dietro le parole, poi, inizia un’altra grande avventura.
Ma è già tanto annusarne il profumo, camminando come funamboli sull'orlo del visibile mondo.
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