I (don’t) like. Why?, ovvero del pulsante assente
di Francesca Pacini
Nell’era dei like stiamo perdendo il senso della riflessione. La parola non è solo parola, appunto, ma è segno e sintomo del contenuto che esprime, collegato a sua volta a noi stessi, agli altri, alla società. E questa società, questa cultura, se da un lato con l’uso dei social ha amplificato la diffusione della parola scritta, dall’altro lato ha amputato ciò di cui la parola è estensione: la capacità di riflettere, di esercitare una critica costruttiva meditata (e non mediata). L’impatto globale dei social aumenta “il consumo”della scrittura, però allo stesso tempo esige una fruizione veloce, simbolicamente rappresentata dai famosi “like”. È la scrittura stessa a diventare rapida in modo da poter essere letta con altrettanta rapidità. Siamo dunque ben lontani dalla rapidità auspicata nelle Lezioni americane del mai abbastanza rimpianto Calvino, ci troviamo invece nel territorio ostile del qualunquismo, della fretta che sacrifica il necessario tempo della lentezza in cambio di una faustiana popolarità di pronto uso e consumo (il fast writing al tempo del fast food, diremmo). Scrivere, scrivere, scrivere. A volte non importa cosa, importa esserci. Scrivere pubblicando foto, condividendo video, diffondendo citazioni (peraltro spesso di dubbia attribuzione), scrivere per ottenere i tanto agognati “like”, quelli che, dimostrano alcune ricerche scientifiche, attivano in determinate aree del cervello meccanismi di soddisfazione e piacere simili a quelli generati da una droga (non a caso le dipendenze da internet provocano crisi di astinenza che sono curate nei Sert). Tutti a caccia di un like. Quasi come se da un contenitore digitale dipendesse il nostro essere, e piacere, al mondo. Piaccio, dunque sono. Eccolo, il nuovo narcisismo del web. Se Cartesio sembra finito in cantina, insieme a lui sono stati “seppelliti” nel sottosuolo i processi di riflessione sui perché della vita necessari a comprendere ciò che ci circonda, e di cui facciamo parte.
Già, perché se è vero che i “mi piace” e “non mi piace” sono indicativi di un certo modo di (non) pensare, allora dobbiamo riflettere sull’assenza di un terzo pulsante, di un click determinante nell’invocare la riflessione.
I like. I don’t like. Why?
Mi piace. Non mi piace. Perché?
Eccolo, il famoso “perché”. Che manca, infatti, nei pulsanti di facebook.
Ed è in quel perché che si concentra l’urgente, e determinante, riflessione sui fatti della vita.
Tanto tempo fa un insegnante a me molto caro (uno di quei rari insegnanti che ti cambiano per sempre la vita) mi disse di non smettere mai di cercarlo, quel perché. Dovevo cercarlo sempre, a ogni costo, e inseguirlo, ovunque si nascondesse. E così ho fatto, ogni giorno. “Domandati sempre il perché”. Quel consiglio è diventato un imperativo categorico che, invisibile ma persistente, mi ha accompagnata sollecitandomi nel sollevare quesiti e trovare risposte. Quel perché è stato un alleato nel cammino, un alleato prezioso e importante.
Sembra quasi che nel punto interrogativo con cui si presenta si condensi tutta la sapiente architettura della sua consistenza: quella curva che termina con un punto sottintende il procedere circolare, e mai rettilineo, della vita. Perché (perché, appunto) la vita è una duna, una spirale, non è un rettilineo, un righello ragionieristico con cui pretendiamo di far tornare i conti nell’esistenza. La vita è mistero, sbaffo, refuso.
Ed è domanda. La vita è una eterna, infaticabile, inestinguibile domanda. Senza quei perché saremmo mummificati, senza più possibilità di evoluzione.
Domandarci sempre tutto, su tutto.
Quando usciamo dal cinema, non basta affermare con tono compunto “quel film mi è piaciuto”. Non basta, no. Dobbiamo saperne raccontare le motivazioni. Lì si concentra lo sforzo, l’attitudine a indagare, a penetrare al di là di una semplice affermazione monosillabica. Lì si devia dalla superficie in cui si distende la linea orizzontale per scendere in verticale, verso la profondità.
Facebook non prevede la funzione educativa del “perché”. E così passiamo il tempo scrollando pagine. Mi piace non mi piace mi piace non mi piace mi piace non mi piace. No, non mi piace. Perché?
La narrazione di noi stessi diffusa sui social denuncia l’assenza di un metaforico pulsante mancante, parallelo a quella stessa mancanza di approfondimento che cogliamo negli atti del nostro vivere quotidiano. Non dobbiamo rassegnarci. Il perché, lo dicevamo, esige un punto interrogativo perché possa generare la sua risposta. E quella risposta a sua volta richiede uno scavo. Una società che afferma senza domandare, e argomentare, è una società morta.
Quello che, con espressione infelice quanto terrificante, viene definito “popolo del web”, è esattamente lo stesso di quello che vive fuori dal web. Se non ci sono i perché sul web, non esistono neanche fuori da lì.
La scrittura sui social può essere chiamata a una certa economia del pensiero, ma non alla sua assenza.
Storditi di like, ci piacciamo, crogiolandoci nell’effimera svagatezza della vanagloria, per nutrirci con un ego sterile, ipertrofico, poco abituato ai meravigliosi abissi dell’esistenza. Perché?
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