Di libri, librai e altre faccende...


gattoOccuparsi di libri non è facile. Lo sappiamo tutti.

Chi ha scelto questo mestiere ne è consapevole, sempre. Lo sa quando si sveglia al mattino, e vede intorno a sé un mondo fagocitato dalla bulimia di informazioni sempre più superficiali, trangugiate in fretta insieme a una vita sempre più veloce, con il pedale  su un acceleratore che mentre  spinge all’azione rende inerte la capacità critica, la seda, la domina, la relega in un cantuccio dell’esistenza.

E tuttavia la crisi del libro nasce ben prima della crisi globale che ci strattona da quel 2008 in cui  il mondo si è reso conto che la finanza e il sistema in cui crede è una bolla, o rischia di diventarlo.

Chi ha scelto di vivere di libri sa bene che affronta una crisi che, a dire il vero, nel nostro paese esiste un po’ da sempre, almeno dagli anni Novanta.

La crisi prima della crisi, potremmo dunque scrivere.

Il libro è sempre in crisi, un po’ come un artista tormentato.

E le crisi dovrebbero generare anche forze creative, dovrebbero diventare forza e propulsione per nuove idee, nuovi sviluppi.

Non è facile, certo, in un mondo che contrae drasticamente i momenti di riflessione, cuciti intorno a quella preziosa solitudine necessaria al lettore. Il libro è intimità, è rapporto confidenziale con il piacere della narrazione.

Nell’era dei social network, delle condivisioni obbligate, portate all’estremo dell’umana sopportazione, il libro, nel momento della lettura, rimane un fatto privato. Meravigliosamente privato. Le comunicazioni con gli altri avverranno dopo, nel magico momento in cui in il lettore e l’autore si incrociano, si vive su un crinale, su una sospensione di mondi in cui di dilata il tempo della possibilità.

Non ci sono reti sociali, non c’è mondo intorno. Ci siamo noi e ci sono le parole che un autore ci ha regalato.

E in questo mondo sempre più urlato, faccendone, superficiale, il libro soffre la sua profondità, la sua richiesta di scavo, la sua necessaria volontà di interloquire con l’intelligenza.

Anni fa, a Praga, mi reso resa conto di come il consumismo abbia fatto a pezzi il  mondo lento di certe letture, sospese in uno spazio atemporale troppo astratto per la concretezza del produrre e del fare. Quindici anni fa, nella repubblica ceca, i lettori vivevano ancora nel magico mondo a metà fra due mondi, fra passato e futuro: i sintomi del capitalismo erano ancora bagliori, che presto avrebbero infuocato quei luoghi, come accade ormai nella maggior parte dei luoghi del globo.

In quelle librerie i sapori avevano davvero il gusto del tempo come essenza dell’essere, non come perdita di urgenze varie.

E ho ripensato, con nostalgia, alla libreria della mia infanzia, quando il tempo era ancora un “non tempo”.

Ci sono cresciuta, dentro una libreria. Quella di mio nonno. Ricordo la mia infanzia che galleggiava sul profumo della stampa (infilavo sempre il naso nelle pagine che sfogliavo aspirando con voluttà), sui colori delle copertine, sui libri impilati pronti per il viaggio negli scaffali.
Ne ho una memoria vivida, vivida come i caratteri stampati che man mano smettevano di essere geroglifici svelandomi i territori della letteratura.
Era una libreria accogliente, quella di mio nonno. E lui, lui un libraio “vero”, come quelli che popolano ancora le nostre idee su questo mestiere.
Quando qualcuno entrava, sapeva consigliare letture di ogni genere: filosofia, narrativa, poesia. Era onnivoro, come ogni lettore estremo che si rispetti.
Quando, negli anni del dopoguerra, la libreria radunava persone in cerca di autori, mio nonno, che era un comunista “vero”, organizzò nella libreria la biblioteca circolante. Chi non aveva i soldi per comprare i libri poteva portarsi a casa quelli destinati all’uso comunitario, per poi riconsegnarli una volta finiti.
C’era, nel sapere che guidava la vita di mio nonno (tanto che fu questo il nome della libreria, “Sapere”), una concezione ampia, dilatata, che si faceva carne e umanità.
Nel retro della libreria c’erano due poltrone e un tavolino per fare due chiacchiere intorno a un libro.
Ho passato interi pomeriggi a passare in rassegna con il dito il dorso dei libri che, come filari di alberi, accompagnavano i miei viaggi. Già, perché ogni libro è un viaggio. E io, lì dentro, attraversavo tutte le geografie.
L’atmosfera intima di quel posto mi regalava grandi entusiasmi. Mi sentivo un po’ come gli angeli di Wenders, giravo nel corridoio immaginando i pensieri delle persone che sostavano su un libri sfogliandoli, sbirciando un incipit promettente, affogando lo sguardo su una quarta di copertina. Chissà quali pensieri si affollavano su quelle teste di lettori.
Era piccola, la libreria. Ma era costruita su due piani gloriosi capaci di ospitare tantissimi volumi. Sì, era la prima libreria della città. E anche la più vecchia.
Io ero invece così “nuova”, all’inizio, davanti a quelle storie che chiedevano attenzione. Storie che cambiarono con me, che seguirono i miei incerti passi verso l’adolescenza e poi quelli più spediti, verso la maturità.
Oggi la libreria esiste ancora. Ma mio nonno non c’ è più. A un certo punto diventò cieco, come Borges. Ma, a differenza dello scrittore argentino, il buio intorno si fece anche interiore. Diventò brivido.
Non poteva leggere più, non poteva guardare i suoi libri adorati. Presto diventò impossibile gestire la libreria che fu venduta.
Fu allora che iniziò lentamente a morire. Ogni giorno.
Mi ricordo ancora le sue ultime giornate lì dentro: aveva perso la sicurezza della confidenza con la sua grande famiglia di carta e parole; si aggirava, spaesato, fra quegli oggetti improvvisamente muti, invisibili, silenziosi testimoni del suo tramonto.
L’ultimo periodo della sua vita fu accompagnato dalla radio. Ma non era la stessa cosa. Lui, senza i libri, aveva perduto la linfa vitale. Appassì come una piantina d’inverno.
Dentro di me conservo intatto il suo ricordo. E quello della libreria ai tempi del nonno.
Oggi ci vado ancora, quando torno nella mia città.
Ed è cambiata. Come sono cambiate tutte le librerie.
Non mi va di discutere sul peggioramento o sul miglioramento, né parlare delle grandi catene librarie che, come eserciti all’assalto, stanno decimando quelle piccole. Se ne parla tanto. Ci sono stati anche film come C’è post@ per te.
Il mondo cambia. Non si può fermare il tempo.
E malgrado la mia nostalgia, frequento tranquillamente Feltrinelli o Mel bookstore. Solo che è…diverso. Come diverso, di nuovo, è il resto del mondo.
Certo è che il librario di una volta era meno ossessionato dai lettori in fuga, meno assediato da quelli in cerca del libro di Vespa o Costa, meno teso verso il richiamo insistente di una cassa che batte al suono del marketing.
Però il libraio è anche un commerciante, e questo va detto.
Mio nonno passava notti intere a fare conti, a controllare il flusso di entrate, permanenze e uscite di quei volumi che racchiudevano la sua vita.
Una volta il commercio era forse più “rilassato” perché i costumi seguivano ritmi meno incalzanti, più liberi dal rapido ciclo di vita, per usare un termine caro al marketing, che scandisce l’alba e il tramonto di ogni cosa.
Oggi, come tanti replicanti, siamo costretti a vivere in un tempo programmato, organizzato da una scadenza in cui le cose nascono e scompaiono con la velocità di una mela che cade dall’albero. Se Newton scopriva la gravità, oggi noi sembriamo invece scoprirne – e pagarne- tutto il peso. Ogni giorno. Perché pesa, la leggerezza di una superficie che imbratta tutto, implacabile.
In questo pigia pigia che è il quotidiano, il tempo senza tempo del libro fatica a trovare i suoi spazi. E le librerie si sono adeguate, trovando nuove risorse, costruendo alleanze, piegandosi ai costumi che impongono alcune letture piuttosto banali.
Ma i classici – consoliamoci – non muoiono mai. E il mestiere del libraio può ancora essere qualcosa di diverso dalla pallida memoria di ciò che una volta rappresentava, può ancora pulsare di vita perché i libri sono perla dell’umanità. Per venti persone che compreranno L’amore e il potere ce ne sarà una che cercherà I Malavoglia. La qualità – anche se accerchiata – resiste. E se la maggioranza preferisce i comici e le starlette giornalistico-politiche della televisione, c’è sempre una minoranza silenziosa che allo spessore effimero della popolarità preferisce quello più autentico del pensiero.
Ecco che dunque le librerie – per quanto cambiate, moderne, percorse da commessi a volte ignoranti (“Eh? Chi? Nel computer non trovo Finzioni di Borgejoise, mi disse allarmato un tizio, una volta) – raccontano ancora del fascino antico di questo mestiere. Le librerie. Il porto dei libri, il luogo di attracco di queste navi che solcano i nostri mari interiori. Da lì salperanno per una fissa dimora, finiranno a casa di qualcuno che, con mani amorose, le conserverà. E continueranno a viaggiare negli oceani nascosti in quelle pagine di carta e inchiostro.
Mio nonno me lo immagino ancora lì, in piedi accanto ai suoi libri. Si gira, mi sorride. Prende un volume e lo rimette al suo posto.

Mi manca, oggi. Mi manca tanto.

Mi chiedo cosa direbbe di questo collasso nelle letture. Continuerebbe, lui, fino alla morte, a combattere per trasmettere la polvere magica della lettura.

L’editoria è in crisi, alla fine, perché noi siamo in crisi. Perché è uno specchio di quello che siamo (o non siamo) diventati.

Le collane indipendenti, che nascono con un progetto preciso, faticano a trovare spazio, devono sgomitare per tirare la giacca a un lettore che ha sempre meno tempo, e meno voglia.

Ma non possono, non devono morire. Dovranno rinnovarsi.

Diciamocelo in tutta franchezza: le nuove tecnologie ci hanno un po’ rimbambito. Passiamo ore a “informaci” con i nostri portatili e i nostri i pad, salvo poi dimenticare le tonnellate mostruose di informazioni che abbiamo collezionato.

Informarsi non è conoscere. Non a caso la velocità con la quale oggi maciniamo notizie è inversamente proporzionale alla capacità di conservare una buona memoria. L’arte del cazzeggio in rete ha sostituito l’abitudine serale di un buon libro prima di addormentarsi.

Ma non bisogna mollare. Bisogna ripartire, innanzitutto, dalla didattica della lettura, dalla trasmissione di quel fuoco che può accendere mille cerini, fino a infiammare un pezzo di mondo in più.

Quella didattica della lettura penosamente trascurata in famiglia, da genitori assenti che parcheggiano i figli in prima fila davanti al televisore, e così poco seguita da insegnanti veramente in gamba, a scuola, più preoccupati della ripetizione pappagallesca di un’antologia che di un ingresso nell’universo di una scrittura.

Ricominciamo da lì.

Senza libri non vogliamo vivere. E allora dobbiamo fare qualcosa. Perché lamentarsi, e stare a guardare, non serve a nulla. Ogni lettore conquistato è una piccola possibilità per rallentare la corsa folle di questo mondo. Che, sembra, non ha più voglia di pensare.

Francesca Pacini - giornalista, art director.

Francesca Pacini è giornalista, art director, docente. Sempre in moto, vive e lavora tra Roma e le Marche, dividendosi fra più contesti, tutti però legati alla parola e all'immagine che a volte la accompagna. Non trova mai pace: il suo motto è "lavori in corso".

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