Uscite dalla fossa – un incubo di Amelia Rosselli
di Anna Bertini
Foto: Dino Ignani |
Amelia Rosselli muore suicida a Roma l’11 febbraio del 1996. La poetessa e traduttrice è figlia di Carlo Rosselli, fondatore di Giustizia e Libertà, ucciso per volontà dei fascisti a Bagnoles-de-l’Orne nel 1937 insieme al fratello Nello, quando Amelia ha sette anni. La Rosselli, che già da tempo esterna alle persone a lei vicine intenzioni suicide e manie di persecuzione, si fa spontaneamente ricoverare presso la Casa di Cura Villa Giuseppina nei giorni precedenti alla sua morte, che avviene nello stesso giorno in cui, nel 1963, si tolse la vita la poetessa statunitense Sylvia Plath, di cui Amelia tradusse l'opera in italiano. Nel racconto che segue i fatti relativi alla biografia della Rosselli e i cenni storici sono da considerarsi veritieri, mentre sono mera fantasia dell’autore l’incontro della Rosselli con il personaggio di Bruno Giambruni e tutto ciò che a lui è riferito.
Ecco father, sai perché mi dava sui nervi? Scambiava voi, tu e lo zio, per i morti di Reggio Emilia. Si chiamava Bruno Giambruni. Questo scambio mi era insopportabile. Un fatto degli anni sessanta, quattro giovani operai. Morti in una manifestazione, comunisti, caricati dalle forze dell’ordine del governo Tambroni, un governo fascista. Erano ancora al potere sai, in quegli anni. Uno ci ha fatto una canzone, un certo Amodei. Era suo cugino. Bruno la cantava quando mi incontrava.
- Morti di Reggio Emilia, uscite dalla fossa. C’era tuo padre vero?
E tu Carlo Rosselli… Diceva così la canzone.
- No - lo smentivo io - era Afro Tondelli, non c’entra niente mio padre, mica era comunista. Mio padre è morto nel trentasette in Francia, era un laburista, social-liberale come si diceva un tempo.
Gliel’ho ripetuto non sai quante volte.
- A casa dei Rosselli è morto il Mazzini. È morto perseguitato e ricercato, ma di malattia. Mio padre invece lo hanno ammazzato! È tutta la vita che ci spiano, che ci braccano. E anche me sai, i fascisti sono sempre stati al potere. Ci hanno sempre braccato a noi Rosselli.
Mi dava sui nervi, stava nella prima camera del reparto maschile, in cima al corridoio dopo l’androne, a pochi metri dalla mia. Sono andata dalla direttrice.
- Non lo posso sentire, lo fa per perseguitarmi. Canta quella canzone, magari gliel’ha detto qualcuno di farlo. Me lo cambi di camera il Giambruni. E’ bello e musicale, ha una voce così ricca di armonici ma quando attacca "Morti di Reggio Emilia" non so, mi viene voglia di strangolarlo.
Lei mi dava la colpa, diceva che sono un artista, sono insofferente. Che sono teatrale, faccio di tutto teatro.
- Ma lo lasci perdere, è un uomo solo, gli son capitati un mucchio di mali, la sorella l’ha accompagnato qui a Villa Giuseppina perché da ultimo era confuso.
Mi ricordava Rocco Scotellaro nel volto: la forma triangolare, un’onda di capelli sulla fronte. Aveva circa la mia età - qualche anno meno forse - ma aveva capelli di pece.
Ora mi hanno rimandato a casa. Leggo traduco scrivo leggo. Sai cosa diceva?
- A forza di amare ti si è fatta roca la voce, troppa passione fa male alle corde vocali. Tutta quella poesia, quella erre rolla, da straniera. Hai troppa passione Amelia, finirai male.
Una notte nel mezzo di un sogno si svegliò di soprassalto il Giambruni. Uscì nell’androne e cominciò a chiamare il mio nome. Rimbalzava tra le mura del corridoio il nome.
- Amelia, Amelia, è morta. È morta Silvia.
Accorsi. Era sudato, spettinato.
- Amelia! È morta mia figlia Silvia, è morta davvero.
L’ho riaccompagnato a letto, aveva la camicia del pigiama aperta. Ho cercato di calmarlo.
- Si chiamava Silvia tua figlia?
- Sì, mia figlia. Silvia Giambruni. Era infermiera nel reparto lungo-degenti. Ha contratto un’infezione del sangue, una setticemia mortale. Era giovane, era… Vorrei mostrarti la fotografia, prendila nel cassetto.
Feci finta di prenderla, non mi alzai neppure.
- Proprio bella, altera. Come la mia Sylvia. Anche lei è morta giovane, la mia Sylvia Plath. Ma vive nei versi. Io li ho tradotti, le resto legata così, me la porto dentro nella lingua dei padri, sono un po’ lei. L’hai letta tu Sylvia Plath, la conosci? Anche tu sei un po’ Silvia, tua figlia. La porti nel sangue, e io la Plath la porto nei versi. Ce le portiamo dentro e siamo morti un po’con loro noi due, Giambruni.
Sembrava si fosse calmato.
- Ah, sei tu Amelia, Amelia dei Morti di Reggio Emilia.
Per fortuna sono venuta fuori da Villa Giuseppina, father. Ora sono qui. Leggo traduco scrivo leggo, mi incazzo coi piccioni che mi cacano il terrazzo. Mi incazzo con la porta che cigola. Esco poco. Non chiama nessuno, non mi leggono più. Mi braccano, dicono che sono un’esibizionista. Che i fascisti non ci son più. Certo che ci sono, ci sono sempre stati. Tra poco viene febbraio. Ma perché ti parlavo dell’uomo? Alla fine mi è rimasto nei timpani il suo nome, Bruno Giambruni. Mi è rimasta nei timpani la voce. Da giovane forse me ne sarei invaghita.
- Uscite dalla fossa! Amelia, tu con la tua erre rolla finisci male.
Febbraio è un mese difficile. È breve ma per attraversarlo ci vuole scorza. Ci vuole decisione. Mi sono sognata il Giambruni che cantava “Morti di Reggio Emilia”. Mi sono sognata i morti usciti dalla fossa. Anche tu e zio Nello. Anche Afro Tondelli, il Mazzini. Mi venivate a prendere. C’erano anche Sylvia, la mia Sylvia Plath, e anche l’altra Silvia, la figlia del Giambruni, e c’era lui, il Bruno – morto pure lui. Potrei telefonare a Villa Giuseppina, magari è successo davvero, ma no, non lo voglio sapere. Ad averlo vicino mi dava ai nervi ma poi a casa mi mancava. Ho scritto una litania, father. Per tutti quelli che sono mancati e presto non più sentirò mancarmi. Non più a dolermi, mai più.
Uscite dalla fossa
Giorni grevi e asciutti, come fianchi di selce, mancano pochi scatti, pochi forse venti, e verranno undici. Venite pure a prendermi, non servirà la falce, venite in corteo, senza aspergere, né celebrare. Io il cerimoniere – colui che capovolge – forma e riforma il tempo, col cero acceso legge; poi brucia le carte. Smettete, di parlare così forte, uscite dalla fossa in silenzio, io non vi sento, non più vi sento. Non più io a dolermi, non più voi a mancarmi, non il mondo a celebrare, celebrare per me, io il cerimoniere
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