Habeas Corpus di Pasquale Vitagliano: personale e universale
di Anna Bertini
Ci vorrebbe una notte
che rendesse sontuose le rovine
e ragionevoli le disperazioni
(da La brutta notte)
In questi ultimi anni
sono stato trattenuto alla deriva,
deviato dal mio tragitto e preda del passato,
finché non mi è stato restituito l’habeas corpus.
(da In questi ultimi anni)
HABEAS CORPUS
hà·beas còr·pus,ˈa-/
Nel diritto anglosassone, il principio che tutela l'inviolabilità personale, e il conseguente diritto dell'arrestato di conoscere la causa del suo arresto e di vederla convalidata da una decisione del magistrato. In estensione è il complesso delle norme che garantiscono, nelle Costituzioni dei vari paesi, la libertà personale del cittadino; nel 1679 divenne legge dello Stato inglese (“Habeas corpus act”), sancendo il principio della inviolabilità personale che ancora oggi tutela.
L’Origine è in “abbi il tuo corpo (libero)”, dalle parole iniziali di un rescritto del sec. XII, con cui si ingiunge a chi detenga un prigioniero di dichiarare in quale giorno e per quale causa egli sia stato tratto in arresto.
Come già con altre opere di autori, mi piace dire sin dall’inizio del mio discorso su Habeas Corpus di Pasquale Vitagliano che non mi accosto a questo testo con lo sguardo e il linguaggio del critico o del recensore, ma con quello stupito e grato del lettore che trova nell’opera - in questo caso quindi nella parola di un poeta - motivi profondi di vicinanza, stimoli di crescita. Sempre quando il vedere e il sentire risultano ampliati da una lettura sento gratitudine per chi mi ha dato occasione di tale cambiamento. Lo spazio su La Stanza sembra adatto per il tipo di approccio che scelgo a questa opera. In primo luogo perché la poesia di Vitagliano è completamente scevra da connotazioni di genere. L’autore si pone davanti al lettore senza retoriche e senza maschere, parte da una profonda introspezione che apre alla più inerme umanità e la pone a fondamento di un richiamo all’agire. Così l’”habeas corpus” diventa presa di coscienza che restituisce dignità interiore e la traspone nel tessuto sociale e relazionale. I panni sporchi di casa si portano in piazza, perché dalla mancanza di responsabilità del singolo nella propria sfera affettiva si ingenera il vizio che mina la società. Vitagliano punta il dito contro l’individuo che sporge critica all’establishment e alle istituzioni senza aver consapevolezza dei comportamenti che lo rendono corresponsabile e complice del degrado etico e morale di questo tempo. Da uomo di legge riesce a permeare la sua poetica di una ricerca della giustizia e nello stesso tempo si fa cronista, attraverso una scrittura essenziale e sincera dell’impossibilità che ci è data in questo momento storico di pur solo nominare ciò che è giusto senza cadere in un equivoco.
Il bagno lo facciamo lo stesso
In ogni casa c’è un angolo
di inferno, l’inferno che accettiamo
l’inferno quotidiano, l’inferno che vogliamo.
Ascolto alla radio mia madre
che prepara la cena
cantando Sanremo
carezza la testa a mio padre
gli dice
mi hai rovinato la vita,
lo sai che mi hai rovinato la vita.
Anche il mare non è più lo stesso
da quando le mareggiate sono
sempre più frequenti, la schiuma,
le schiume, le bolle, i piccoli rifiuti alla deriva,
persino i mozziconi galleggiano in acqua,
eppure il bagno lo facciamo lo stesso.
L’autore nomina le sezioni della sua opera secondo colori primari; ci sono il bianco e il nero ovviamente, necessari al discorso, il rosso della passione civile, l’azzurro dei cieli che rivendica presenze spirituali e creazioni che non siano solo dell’uomo, il giallo della paura.
Manca il verde. Il verde libertà e il verde naturalistico.
Il discorso di Vitagliano è civile e si organizza all’interno di un tessuto sociale complesso, dove l’uomo è rimasto invischiato nella propria sovrastruttura.
Ho visto le menti migliori della mia generazione
distrutte dalla noia, affamate, brillanti autistiche,
trascinarsi per corridoi di portaborse all’alba in cerca di
un lavoro, un posto. Vedremo.Faremo. Le faremo sapere.
Bei giovani dal volto d’angelo brucianti ancora per le antiche
libidine fuori dei cortili ad aspettare le studentesse sfatte.
Troppo piccoloborghesi per le allucinazioni, troppo poveri
per le ribellioni.
Aspetta, aspetta. Quelli che sono venuti dopo
non hanno atteso più. Lavorare meno, lavorare tutti, Li hanno presi alla lettera
con ii numeri verdi.
Verdi, rossi, bianchi, neri, senza più colore
(da Una parodia)
È un uomo in crisi, inaridito, che si scopre solo che si confessa colpevole, ma oramai disarmato. È un individuo universale e privato, che cerca di abbandonare il proprio manicheismo ma non riesce a trovare un equilibrio, un’indulgenza, un’oasi di mezzo tra bene e male.
Fine della malattia
Non c’è più la malattia
a far galleggiare sul pantano
il nostro amore senza amore.
E’ più molesto
questo nostro stalking quotidiano
della violenza di un estraneo.
Siamo stati messi all'angolo
dal rumore dei ragazzi,
zittiti dalle nostre paure,
impotenti per le nostre querule verità.
Non si chiamerà genealogia
questa sequenza di ingenue causalità.
Vorrei andare al cinema
a rivedere la mia storia
Siamo forse tutti noi, vogliosi di cambiare, ma in dubbio su come attuare il cambiamento, ignari di come dare a questo efficacia, come conferire portata più ampia a raggiunte consapevolezze. Arresi - per comodo in parte e per delusione dall’altra - al non avere potere sul rinnovamento, spesso nemmeno quello delle nostre proprie vite, per non parlare di quello civile. Pure, la risposta che Pasquale Vitagliano non offre come certa ma pone al centro dell’osservazione perché tutti la possano ponderare è in quell’habeas corpus - il corpo libero non reo - dove non rea sia l’anima.
“Non lo dimenticherò, che Dio ti benedica"
L’ho ascoltata in un vecchio film
l’hai mai ascoltata questa frase?
Chi altri l’ha più ascoltata?
Chi l’ascolterà più
Vorrei ascoltarla ancora.
“Non lo dimenticherò, che Dio ti benedica"
Non è retrò ringraziare.
Non è archeologico
invocare la benedizione del proprio Dio
Non è disumano.
No, non è disumano
attaccarsi a qualcuno.
Non sono disumano se mi ostino
a non dimenticare il bene nel mio inferno.
Non sono disumano se mi ostino
a chiamare un Dio che non ha ancora parlato.
In mezzo ai troppi - e a parere di chi scrive inutili - dibattiti su cosa sia poesia, quella di Vitagliano si afferma con necessità e potenza rendendo inutile ogni catalogazione.
Solo al buio è concessa la pietà che il sole disdegna
per dover redigere il sinistro inventario del riflusso,
oltre le cateratte di catrame i relitti possono tornare reliquie,
ti può anche venire di pregare nella notte traforata,
finché un faro non illumina l’incubo farsi avanti,
farsi avanti una talpa che adesso vede bene ed ha fame.
(da A guardare bene le foto)
Pasquale Vitagliano è nato a Lecce e vive a Terlizzi, provincia di Bari.
Lavora nella Giustizia, è giornalista e critico letterario per riviste locali e nazionali.
Ha pubblicato le sillogi Amnesie Amniotiche, 2009 per Lietocolle e sempre per questi tipi Il cibo senza nome nel 2011 e Come i corpi le cose nel 2013. Ha scritto il romanzo Volevamo essere statue (2012 per Sottovoce). Suoi scritti sono presenti in diverse antologie.
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