L’ingorgo. Una storia (im)possibile
di Alberto Piccini
L'Italia di oggi è in crisi, decisamente. Ma com'era l'Italia negli anni Settanta? Terrorismo,violenza, disorientamento sociale... Ecco un ritratto appassionato, firmato da Comencini.
L’Italia degli anni di piombo si sveglia spesso male, al mattino. Terrorismo di varie tendenza e malavita scatenata nelle città del nord come del sud, la droga che intossica le periferie e le scuole, una crisi che parte dal petrolio e che chiude le fabbriche e spopola le strade e i cinema, una violenza che pervade anche angoli della vita sociale dov’era assente da sempre. L’autunno del 1975 sarà ricordato come una stagione di brutali delitti: i ragazzi bene del Circeo che stuprano e uccidono, il delitto Pasolini, la studentessa Doretta Graneris di Vercelli e la strage di via Caravaggio a Napoli. Una pista di sangue che attraversa tutta la penisola e che esplode in scenari ambigui come in ville sfitte o appartamenti borghesi, con tanti giovani per protagonisti, mostri da sbattere in prima pagina, come raccomandava un altro sulfureo film di alcuni anni prima.
L’Italia dei tardi anni ’70 si era incanaglita e il cinema non faceva finta di non accorgersi. Opere che solo per l’identificazione dei registi o degli attori si possono avvicinare alla cosiddetta commedia all’italiana, fanno da pietre miliari in un percorso che idealmente può segnare il doloroso guado tra il decennio dell’impegno e quello detto (allora) del riflusso. La feroce tribù di baraccati di Scola in “Brutti, sporchi e cattivi” o il modesto impiegato assassino senza rimorsi del “Borghese piccolo piccolo”, il suo omologo più irresoluto ma altrettanto tragico de “Il giocattolo” di Giuliano Montaldo, i coniugi borghesi e solo apparentemente trasgressivi di “Cattivi pensieri”, i grotteschi fratello e sorella de “Il gatto” di Comencini e la moltitudine laida che brulica in “I nuovi mostri”, sono altrettanti testimoni tratti realmente dalla vita di questo periodo.
L’opera più ingiustamente misconosciuta, forse perché anche la più imbarazzante e difficile di questo periodo è “L’ingorgo”. Incerto e mutevole anche nei titoli che, da un iniziale “L’ingorgo. Una storia impossibile” dovette passare a un forse più rassicurante “Blackout sull’autostrada” e che circolazione nelle sale e apparizioni TV penalizzarono fortemente. Il cast è eccezionale e internazionale, così come la produzione che oltre al nostro paese vede impegnate case spagnole, francesi e tedesche. L’aura di pessimismo e una certa violenza presente ed insita in ognuna delle scene, la mancanza di inserti farseschi o maliziosi, certo contribuirono alle esitazioni di tanto pubblico e ad una non dichiarata censura. I titoli di testa hanno lo sfondo di un cimitero d’auto, nella luce del tramonto. E forse già è questa l’inquadratura che ci dice tutto. Il boom è da tempo finito, i sogni di lamierino FIAT sono finiti tra i rottami, come l’ottimismo di un decennio.
Nel “Sorpasso” di Dino Risi sfilava in rassegna l’Italia fiammante del miracolo economico e dei soldi facili, svincolata dalle miserie del dopoguerra; l’Italia dell’“Ingorgo” è bloccata e congestionata su una strada di scorrimento che diventa trappola, incerta persino nel senso di marcia e nella direzione degli eterogenei veicoli male incolonnati. Il film è aperto dal trionfale atterraggio dell’executive che riporta un Alberto Sordi più cinico e spietato che mai, senza nemmeno la residua innocenza della pavidità e della usuale bonomia popolana. Un innominato “avvocato”, che è atteso da una Jaguar con frigo bar e radiotelefono e da un fidato segretario, vittima designata del plutocrate senza umorismo. Da questa inaugurale storia, il panorama si apre su altri microcosmi di vita domestico – automobilistica ritratte in questo paesaggio che, temporalmente una fine estate spazialmente una periferia romana, fatta di campagne degradate e cantieri lasciati a mezzo. Si potrebbe dire, citando il Pasolini on the road di “Uccellacci uccellini”, che “il cammino comincia e il viaggio è già finito”. Questo censire le vicende dei gruppi coinvolti nella apocalisse stradale, avvicina questo film alle tante pellicole, catastrofiche degli anni ’70, dalla serie di “Airport” a “L’inferno di cristallo” e testimonia un’attenzione per nulla provinciale del regista e degli sceneggiatori. La circolazione, già congestionata nel principio, ben presto si paralizza anche per le manovre selvagge di molti automobilisti e si incaglia nelle secche di un curvone posto tra uno sfasciacarrozze (luogo emblematico) e i piloni di uno svincolo autostradale forse mai ultimato.
L’occhio, quasi documentaristico, accorre sui personaggi qui ritratti, in primis su una numerosa famiglia napoletana, quasi gettata da una risacca virtuale, su una decrepita 1300 FIAT, da una commedia a canovaccio. Una figlia donna–bambina che non accetta l’imposizione paterna ad abortire (malgrado vi sia ormai “la legge”) è il fulcro del dramma familiare, le bandiere tricolori avviluppate nel bagagliaio, la merce da vendere in occasione di una partita della Nazionale, il perché del loro viaggio. Patria e famiglia sono sgualcite e malridotte, si razziano bottiglie d’acqua minerale dall’auto di un losco viaggiatore e si possono anche regalare per mostrarsi “poveri ed onorati”. Su di una Mercedes quattro attempati bulli cui sarebbe difficile dare un mestiere, sghignazzano per barzellette sceme e si mostrano l’uno con l’altro le armi nascoste sotto giacche sgargianti e camicie sbottonate, anticipando alcune grevi macchiette che apparterranno al mondo di Carlo Verdone. Un fotografo di moda, fin dalle prime battute, sfrutta la situazione per ritrarre due modelle tra il disordine della interminabile fila. L’astio è il primo elemento, persino nella coppia di coniugi di mezza età, che sognano di raggiungere il luogo della loro luna di miele e che decadono in litigi meschini, sotto l’occhio dell’improvvisato vicinato di automobilisti. Dalle prime ore, si registra il collasso delle “materie prime”: acqua potabile in primis, prima ottenuta dall’esaurimento delle scorte di un chiosco che frettolosamente e prudenzialmente chiude, poi attorno ad una fontana dove scoppiano liti e alterchi. L’indispensabile telefono, introvabile ed impensabile nell’era precedente il cellulare, con i gettoni e gli apparecchi che sono pura utopia. Le necessità fisiologiche, espletate in un clima grottesco e rabbioso come ogni altro atto, nel dedalo dello sfasciacarrozze.
Le incursioni dal surreale non sono poche: e si va dal taxista che, imbottigliato, estorce ugualmente l’esorbitante prezzo ad una passeggera che deve ad un certo punto scendere a forza e all’autostoppista che regge imperterrito il suo cartello, come il podista che svicola tra le auto, incurante di tutto. Elementi alternativi e rappresentativi di questi anni sono le viaggiatrici stipati su di un pulmino, mai inquadrate al punto d’essere rese riconoscibili e che segnalano la propria cantando in coro canzoni popolari o di protesta, ma i plumbei ’70 della violenza e del terrorismo sono in agguato in uno dei segmenti più congestionati della colonna. Da una Range Rover–status symbol di un certo giovanilismo abbiente – le attenzioni dei tre occupanti (che somigliano anche fisicamente ai giovanotti romani stupratori del Circeo) si fissano su una ragazza sola, fiera della sua 2 CV e della chitarra che pare l’unico bagaglio sul sedile posteriore. L’epilogo di questa vicenda tra giovani, che somiglia alla sceneggiatura di un fatto di cronaca, avrà come osceno protagonista non soltanto la violenza prevaricatrice dei tre, che indisturbati violentano la giovane, ma soprattutto l’indifferenza e la giustificazione dei presenti, che rintanati nelle vetture fingono di dormire, quando non si compiacciono di saziarsi gli occhi.
Un’Italia dove l’omertà può essere una comoda scelta, non disgiunta dal disprezzo per la vittima che ha il torto di essere donna e viaggiare sola. Non solo l’amore e il sesso si estorcono, in questa carovana di “homines hominibus lupi”, ma c’è l’operaio, disceso da una fatiscente baracca sopra lo stradone, che ha tempo di mercanteggiare la propria moglie, casalinga disfatta e incinta ma con l’avvenenza di Stefania Sandrelli, all’attore già sul viale del tramonto ma riconosciuto e acclamato dalla gente. Altri amari triangoli si disegnano nell’auto dove un professore logorroico (Tognazzi invecchiato e con un molesto accento toscano in bocca) pontifica tra una giovane coppia di amici, annunciando di essere presto “portato” senatore da un partito di sinistra. La realtà che il marito, qui Depardieu credibilissimo come goffo giovanotto italiano, scopre con fatica è la squallida relazione della donna con il professore ed anch’egli raccatta indifferenza gridando la propria disgrazia nel bivacco di automobili. Altre ombre inquietanti si stagliano sul panorama sempre più inquietante dell’ammasso di lamiere: la storia arcaica e disperata dei genitori che accompagnano un bambino malato, già portato a Lourdes, da un sedicente mago di Napoli, il moribondo su una traballante ambulanza, che cerca di calcolare con i cinici infermieri l’ammontare del risarcimento spettante per l’incidente. Proprio costui, Ciccio Ingrassia in uno dei suoi eccezionali ruoli non comici, innescherà la catarsi (provvisoria) del film. La sua morte, segnalata per la benedizione ad uno strano prete lì presente, sarà la causa per una predica rivoluzionaria e caustica di quest’ultimo, in cui il “libera nos domine” sarà indirizzato anche per “la plastica, le scorie radioattive, le multinazionali, le fanfare e le parate militari”. Tanta corrosiva omelia fa il paio con quella finale e pessimista dello sgradevole officiante che nel ”Borghese piccolo piccolo” celebra il funerale della moglie del protagonista, dove richiama le miserie fisiche e scatologiche dell’uomo e la sua distanza dalla salvezza.
Un miracolo vi sarà, ma dalla patina nera, come tutto è nel film. La giovanissima napoletana incinta, riceverà un assegno dal pescecane imprenditore Sordi (socialista dichiarato fra l’altro, che interpreta “ad ognuno secondo i suoi bisogni” come i soli bisogni suoi) perché udita cantare con una voce aspra e intonata, un motivo ispirato proprio all’ingorgo e alla modernità frustrata. Il miraggio del canto, della carriera artistica e delle scritture milionarie, le darà una ragione definitiva per decidere frettolosamente l’interruzione di gravidanza. L’ingorgo, dopo l’annuncio dato da un elicottero, si scioglierà, mentre una volta di più cala la notte; i veicoli si rimettono in marcia, forse fino alla fine del viaggio o solo al prossimo insidioso curvone.
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