Pulp Fiction tra Tevere e Aniene
di Alberto Piccini
A scoprire il delitto, lo spettatore è guidato da un turbine di cartacce sparse lungo il Tevere, che come farfalle infette si posano su un corpo di donna, rovesciato a faccia in giù. Non ci vuole molto per indovinare che appartiene ad una di quelle creature che, una volta e trucidate e portate all'attenzione della cronaca, venivano definite invariabilmente “mondane”. E se la narrazione cinematografica si fonderà sulle indagini intorno all'omicidio, ella resterà senza nome e senza storia. Subito la scena si sposta in un angolo di commissariato, del quale non scopriamo altro che una sola sedia dove sta appollaiato il primo sospetto e la voce severa ma impersonale del funzionario di polizia. Il giovanissimo indiziato, dovrà sottoporsi ad un'acrobazia non semplice, inventando una storia improbabile e parallela alla sua reale vicenda vissuta nella giornata del delitto, rievocata in un lungo flashback. Racconta di avere cercato lavoro, fin dalle prime luci dell'alba, quando nei fatti, uscito dalla baracca quasi surreale dove vive con una madre vedova, ha seguito due strani ladri specializzati nello scippare le coppie che cercano intimità in un parco. L'occhio cinematografico ci rende i tre come autentici animali da preda, che si coordinano a fischi e procedono nel sottobosco sudicio carponi o addirittura a quattro zampe, commentati da una musica tribale, come nei documentari sulla fauna africana. Il bottino è miserabile e lo “sgrullone” di pioggia che giunge a metà della giornata di fine estate manda definitivamente a monte la spedizione. Il giovane incorre in altre disavventure: prima schiaffeggiato da un derubato e quindi aggredito da un'altra banda che pare uscita non tanto dal soggetto firmato da Pasolini, ma da altre situazioni di violenza urbana che, almeno in Italia, hanno ancora da venire. L'attenzione della polizia non si ferma alle strane storie che inventa, ma all'epilogo della sfortunata impresa, che lo vede transitare, sfatto e stracciato, verso il ponte Marconi, luogo del delitto. Qualche faccia, già nota, qualche figura solitaria e ambigua, il povero ladruncolo, che svanisce dal film, ha notato.
Il secondo personaggio è prettamente pasoliniano, un pluripregiudicato dai capelli imbionditi e l'abito blu, di cui la voce burocratica riassume sommariamente il curriculum criminale. Ma ora ha chiuso, s'è messo calmo, puntualizza, ha la “donna”. Il repellente individuo, interpretato da Alfredo Leggi, una delle facce rabbiose e corrotte che già Pasolini aveva utilizzato in Accattone, non è un semplice magnaccia, ma addirittura vive sulle spese di madre e figlia, che esercitano l'attività di usura, prestando soprattutto a “battone” che terrorizzano con le loro richieste. Ma la giornata del mantenuto non è stata piatta o noiosa: cominciata con un appuntamento clandestino nella squallida cornice del Cinodromo. Qui ha incontrato una ragazza dalle troppe ingenuità, ma se n'è dovuto staccare per accompagnare la laida sua donna a recuperare crediti. Scampato ad una lite fra madre e figlia, effettua il sequestro di un cagnolino, unica proprietà di una debitrice e nel vano tentativo di ritornare alla più giovane e graziosa ragazza che lo aspetta poco lontano, rischia le coltellate dalla possessiva usuraia, urlante e disperata per la possibile perdita della sua proprietà più cara, un maschio asservito. Si indovina la riconciliazione e per il turpe parassita non è stata che “una passeggiata di salute”, come confessa al funzionario di polizia.
Scandisce l'apparizione dei diversi testimoni la scena reiterata della vittima che, alzatasi nel primo pomeriggio, sotto l'effimera raffica di pioggia, fissa di malavoglia la strada inzuppata e ricompone con fatica la propria immagine di nessuna seduzione. Compare un nuovo elemento da interrogare, un soldato calabrese che ha avuto in quel disgraziato giorno un permesso, che ha consumato girando senza meta una Roma che non comprende, dove si è perso dentro il Colosseo e ha pedinato e importunato tutte le “femmine” che ha incrociato, per finire incantato davanti ad un gruppo di stracciate prostitute sotto un cavalcavia. Unico ausilio che darà alle indagini, verrà dall'indicazione di confusi uomini poco raccomandabili, che lo hanno turbato ed hanno costituito l'ultima emozione del suo pomeriggio randagio, prima di crollare addormentato su una panchina.
Altro a sfilare tra questi disgraziati soliti sospetti è un girovago dall'accento friulano, più solitario che emarginato, dai piedi calzati in zoccoli, che trascina la vita come inserviente in un luna park e che inganna le ore vuote girando senza meta e senza pensieri per i quartieri della periferia. Ha gesti di animalesca paura e sguardo fisso, ma qualcosa ha visto, anzi molto e le strane comparse che brulicavano nella notte del parco le conosce almeno per soprannome, non ha difficoltà a indicarle, sebbene fra tremori e spaventi e qui si dirama l'episodio più schiettamente pasoliniano, sebbene velato di suggestioni oniriche che il regista spiega solo a metà. I due adolescenti che compaiono, quasi ilari e sperduti nella terra mista che sta al di fuori del loro mondo di case abusive e terreni disastrati, corteggiano due coetanee un po' sciocche, ma più integrate e fortunate tanto da avere un lavoro e poter offrire una “ciriola” con la marmellata agli affamati amici. Simboli viventi di una fame borgatara e atavica, condividono il sogno elementare e godereccio di un pranzo casalingo. La pronuba del doppio e improbabile fidanzamento, nonché della lauta mangiata, è l'inquietante personaggio di una giovane donna dall'aria torbida e trasandata, che vive in una villa patrizia fatiscente, dal mobilio in disfacimento, ma proprietaria di un grammofono e di qualche disco di moda; vuole essere lei a mettere a disposizione il luogo per il festino, forse solo per usufruire di un pranzo insperato. Ormai forti di due innamorate e di una cornice per il loro gran giorno, i due ragazzi devono solo procacciarsi le “piotte” sufficienti a realizzare il progetto e proprio a questo scopo si intrufolano nella notte del parco. Con una facilità quasi connaturata, individuano tra le losche e spaiate figure che vi gravitano la loro vittima ideale: un adescatore omosessuale sicuramente innocuo e piuttosto ridicolo, cui sfilano senza bisogno di violenze né minacce portafogli e accendino. E sotto gli occhi dello spaurito e confuso ometto, avverrà il brutale delitto e da preda atterrita si farà testimone decisivo. L'omicida, lo sbandato dalla parlata del nord, ha prima strappato con una rabbia sorda e confusa la borsa forse vuota della mondana e infine l'ha percossa fino alla morte, che ha accolto aprendo le braccia, come in un sacrificio, con un gesto di rassegnata accettazione. Né sarà la sua l'unica vita immolata in questa storia di miserabili e di sofferenti, perché anche uno dei due ragazzi, alla notizia della convocazione al commissariato, si getterà nel fiume verso una fuga impensabile, travolto da quelle correnti prossime agli scarichi fognari, che in altre giornate di disperazione marginale avevano risparmiato la patetica Cabiria di Fellini.
Ultimo atto sta nella cattura del colpevole, tra i muri di cannucce di una balera della periferia, cui fa da unico commento la voce nostalgica di Modugno che canta “Addio” e lo squallido sbattere degli zoccoli del ballerino, quasi una confessione onomatopeica. Dietro il muro dei poliziotti, decisi e maneschi, gli occhi fissi dell'accusatore, già vittima e già trasgressore, forse prossimo ad abbandonare le sue avventure miserande e mercenarie. Diligenza di cinefilo impone di notare che, la ragazza che si strofina all'assassino nel suo ultimo ballo, è già comparsa nella narrazione, una delle prostitute sfruttate e sottomesse dalla schiavitù del debito dall'usuraia: un'altra anima sconfitta in questa ecatombe romana.
Il film appartiene a Pasolini per certi aspetti, ma ne è distante in molti altri. La storia viene quasi per intero estrapolata dal panorama pietroso e affranto delle baracche e viene trasferita in una Roma ai margini ma già abitata e frequentata da “civili”, che secondo le occasioni possono essere predati o ammirati, dove ponti e fiumi, muraglie e parchi, fanno da confini non solo fisici. Se pure restano i termini di un gergo lascivo e rancoroso, non si ritrova il recitativo reiterato e desolato che fa dei marginali di “Accattone” quasi dei personaggi da Sacra Rappresentazione né le situazioni didascaliche che sottolineano le incursioni dell'Ineluttabile e i segni profetici elementari, sogni in primis. Quasi a voler riesumare una polemica vecchia di qualche mese intorno alla poetica del cinema di Pier Paolo Pasolini, non mi esimo dal dichiarare che lo stile di Bertolucci è più maturo e mirato, con una scansione dei tempi che rende possibile leggere l'andamento ciclico della storia più ricostruita che vissuta. Bertolucci, ripetiamo, è uscito dalla dimensione precristiana e legge in una profondità diversa i personaggi e quanto di essi Pasolini aveva voluto ritrarre senza giudicare, il regista parmigiano vuole spiegare ed acclarare. Le aggressioni al parco, le esazioni dell'usuraia, la giornata di libertà del soldato, le passeggiate dei giovani aspiranti innamorati, sono narrate con sequenza da documentarista, con una puntualità di operatore deciso alla disamina e che molto si basa sull'attenzione ai particolari dei tratti somatici e della gestualità.
Qualche riflesso del cinema contemporaneo è lampante: il guardaroba dello sfruttatore sciorinato a dimostrazione della sua vita di parassita deriva dalla già citata Cabiria, di cui Pasolini era stato consulente e ancora più l'omicidio della prostituta somiglia nelle modalità e nell'accettazione a quello di Nadia in “Rocco e i suoi fratelli”, quasi la società esigesse sacrifici riparatori in nome di una moralità degradata al modo dei suoi sobborghi, lapidazioni rituali di donne perdute.
Una rarità sta nella chiusura della pellicola, con la riproduzione della Morte sita in via Giulia, con il terribile Hodie Mihi Cras Tibi e gli sconsolati versi del Belli. Roma come Moloch o come il Saturno che diede anticamente nome alla penisola, tutto divora.
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