L’educazione di Antoine
di Alberto Piccini
A Parigi corre l’anno 1968, ma Truffaut finge di non saperlo e sui titoli di testa non canta Jim Morrison, ma uno Charles Trenet datato 1942. Vero è che l’inquadratura investe la Cinématheque del Trocadero, chiusa a data da destinarsi, ma l’eco della politica e dei movimenti parigini si spegne qui. Antoine Doinel, che abbiamo lasciato precoce uomo innamorato in “L'amore a vent’anni”, si annoia in una squallida guardina militare, leggendo “Le lys dans la Vallée” di Balzac, tra gli anacronismi delle divise e dei suoi capelli lasciati lunghi. L’ufficiale che lo riceve per decretargli la riforma definitiva, ha i modi bonari e ruvidi di un maestro di provincia e appunto come ad un bambino gli si rivolge: neppure la caserma, dalla quale viene radiato, ha potuto farne un uomo. Come al tempo in cui era un tribolato scolaro, l’ex soldato Doinel corre trafelato verso casa, attraversando Place de Clichy in diagonale e rischiando di essere investito due volte dalla stessa auto. Il primo appuntamento non fissato è in un alberghetto equivoco, dove scegliere un’annoiata e infreddolita prostituta, per festeggiare a modo suo il ritorno alla vita borghese.
La seconda tappa a casa dei genitori di Christine, la ragazza che ha tormentato le sue notti nostalgiche di soldato senza vocazione. Nell’assenza della ragazza – che a differenza di Doline sa vivere nel suo tempo con studi regolari, amici, gite in montagna – viene proposto al ragazzo un provvisorio lavoro e di qui comincia la sua avventura nel mondo degli adulti. Portiere di notte in un compiacente alberghetto, si trova ben presto invischiato in un caso da echi di cronaca, con la scoperta di un adulterio. Emblematicamente, di fronte ai due fedifraghi scoperti, che nella loro semi nudità non esprimono né paura né rabbia, Antoine volta la faccia verso il muro, sogghignando come un chierichetto timido. Niente di grave accade nella camera del peccato, non a esternare, il marito tradito, maggiore violenza del lancio di fiori fradici da un vaso di vetro, sebbene istigato dall’anziano detective autore dell’agguato. E tanta mesta pantomima frutta ad Antoine la perdita del posto, cui il saggio investigatore offre un’ancora di salvezza.
Un nuovo segugio così percorre le strade di Parigi: tra bistrot e portinaie si muove goffo e volenteroso, al punto da essere scambiato da un’avvenente ragazza che pedina per un maniaco, o ritenendo che un berretto sia di per sé un ottimo mascheramento, ma felice di narrare ai genitori di Christine le sue gesta e gli strani casi che vengono trattati all’agenzia. Il lavoro, romanzesco e improbabile, gratifica Antoine che lo vive esattamente come un gioco e portare fuori la sua indecisa e attonita amica in una serata di indagine, è una gioia inattesa. Lo strano e, in fin dei conti, squallido caso del prestigiatore che viene ricercato dal suo ex-amante omosessuale, che alla scoperta del suo nuovo legame con una donna, non accetta la rivelazione e si ribella aggredendo il direttore dell’agenzia, è il ripetersi del boccaccesco caso del piccolo albergo ed anche qui Antoine si defila con gli occhi sgranati, mentre un vicino di casa dentista calma il forsennato tradito con sane e sonore sberle e i presenti sperano solo che la parcella sia stata già pagata.
I pedinamenti non si arrestano qui: un uomo, maturo e deciso, con un impermeabile ed una faccia che evocano il Quai des Orfevres, segue come un’ombra Christine, generando un mistero collaterale alla narrazione ed è la stessa ragazza che tallona, non sempre discretamente, il suo svogliato amico. L’Antoine che cerca di crescere tra indagini goffe e caotiche riunioni in ufficio, avrà la chance di un’avventura da lui riconosciuta subito come balzachiana e disperata ed avverrà per la volta di uno sconcertante cliente del suo principale. L’uomo, un Michel Lonsdale che, nella sua prolifica carriera ha saputo far vivere decine di antieroi, ordina un’indagine al fine di scoprire perché egli sia così impopolare e antipatico; personaggio limitato e malmostoso, ama avere l’ultima parola e mostra una malcelata ammirazione per Adolf Hitler. L’ambito dell’azione di Doinel, qui addirittura agente infiltrato, sarà il fiorente negozio dell’uomo, dove giornalmente si scontra con il malumore e la sfacciataggine delle commesse. Ma non ci sono solo padroni scorbutici e parigine di “bon bec”, nell’emporio di calzature: una sera, proprio come dice il protagonista subito rapito, vi appare la consorte del padrone che, quasi danzando più che camminare, ordina un paio di scarpe. Delphine Seyrig, volto molto caro a Luis Buñuel e già protagonista di “L’anno scorso a Marienbad”, dà le sue fattezze alla donna che sconvolge il giovane romantico. Seduta alla poltroncina, riproduce la postura della madre di Antoine, ne “I 400 colpi”, quando, al ritorno dall’ufficio, incolpava il figlio di essere venuto al mondo e l’impatto più che edipico soggioga il protagonista. Ad uno specchio confida il suo innamoramento, ripetendo, come in uno scioglilingua o in un infantile sortilegio, il nome suo, di Christine e dell’affascinante Madame Tabard. Gli accenti che usa in questa pantomima solitaria, ci fanno intuire come la graziosa semplicità della ragazza ceda di fronte allo charme di una donna che non ride ma sogghigna, che non vede ma accarezza con lo sguardo e che evapora nella notte dopo il primo incontro. E non le si potrà nascondere neppure per un breve tempo l’infatuazione, che banalmente consocerà ascoltando i discorsi del negozio e avrà l’agio di prendere l’iniziativa, ricevendo Antoine a fine pranzo, proprio come gli era avvenuto a casa di Christine. L’imbarazzo farà rovesciare la tazza di caffè e fuggire come un ladro scoperto il giovane. Con l’indagine ad un punto morto e i suoi amori sospesi, saprà colpire la signora Tabard con una lettera zeppa di citazione dal suo romanzo preferito e l’invio della missiva, seguita nel percorso della posta pneumatica, è forse un simbolo dell’ardua navigazione parigina che costruisce questa storia. Ottocentesca anche la resa armata di Madame, che di buon mattino si reca nell’appartamento da scapolo di Antoine (quinto piano senza portiere, molto Balzac), col presente di tre cravatte e con un’altra citazione galante tra le labbra, la chiave della camera nascosta e i due, al pari del regista, lasciano che lo spettatore immagini.
Inutilmente e ignara di ogni cosa Christine bussa alla porta, senza udire risposta e mentre il suo semplice cappotto si confonde nella folla parigina, sempre sotto l’occhio vigile del suo misterioso inseguitore, pensiamo che l’abito haute couture della signora Tabard sia già adagiato tra il disordine di casa Doinel. Non è un’avventura senza conseguenze, in quanto dall’agenzia ci si era premuniti di far seguire la moglie del curioso cliente, e la rivelazione di Antoine provoca l’ira del titolare e il suo licenziamento in tronco, né è l’unica scena da dramma che investe la terribile giornata: nello stesso istante Monsieur Henri, l’anziano e sagace detective che aveva fatto assumere il giovane, crolla ucciso da un infarto.
L’incontro proibito e l’irruzione della morte chiudono un grosso capitolo e i fotogrammi ci restituiscono un Antoine come scaltrito, alla guida di un camioncino e con le improbabili mansioni di radio riparatore. Naturalmente si scontra con un automobilista, niente altro che il padre di Christine e tale accadimento convincerà la ragazza a richiedere l’assistenza per la propria TV. Nessuna riparazione verrà effettuata, ma in un weekend di sole autunnale i due ragazzi si ritroveranno insieme, senza più patire le ubbie e i rancori di una relazione immatura. La passeggiata nella mattina di domenica, ha un terzo incomodo, l’uomo dall’aria di poliziotto che, sempre sottolineato da un’incalzante motivo, ha seguito Christine dall’inizio.
Scopre le carte e altro non è che un appassionato corteggiatore, ingenuo, illuso e forse disturbato mentalmente, un personaggio i cui piedi poggiano sulle nuvole più saldamente ancora di quelli di Antoine. Sul verde del viale parigino, si chiude il film ancora con la canzone di Trenet del principio. C’è l’inizio di un amore, ma c’è già anche qualche nostalgia.
Che senso ha, oggi, rivedere Truffaut, ritrovare Truffaut? Già al tempo, ne sono testimoni le musiche, le citazioni cinematografiche, il gusto per una certa letteratura, qualcosa di demodé pervadeva la sua opera, non ultimo l’obiettivo di far rivivere nella gioventù degli anni ‘60 le angustie e gli entusiasmi della generazione precedente, dei figli della guerra e dell’occupazione, dei ragazzi sbandati già esaminati da Cayatte e fotografati da Carnè nelle accezioni più drammatiche. Il mite Antoine Doinel, in casa propria, custodisce una foto delle sorelle Papin, le autrici di uno dei delitti più raccapriccianti nella storia di Francia, ispiratrici delle “Serve” di Genet. La prigione militare è una tappa non troppo infamante, la prostituzione una frequentazione normale. Si nota subito la forte distanza dai figli del benessere permissivo dell’epoca, degli studenti impegnati o degli aderenti alla cultura hippy. L'erudizione di Antoine è arruffona, autodidatta, Christine studia violino come una sua coetanea di una generazione antecedente. Alberghi, uffici, case private, paiono non avere un tempo e i personaggi che si rincorrono negli spazi mai troppo vasti della narrazione, paiono interpretare il mondo adulto e serioso come un ventenne può concepire.
In questo soprattutto sta la “gioventù” di questo film, nel focalizzare i problemi e le realizzazione proprio a misura di giovane, con l’amore che è sofferenza e azzardo e il lavoro che può arrivare o no, con un futuro che è ancora possibile rimandare e ripensare. Anche per questo ed esattamente in questi particolari giorni ha senso rivedere “Baci Rubati”: un film sulla gioventù e su Parigi, le due cose che a Truffaut sono state maggiormente care nella sua vita e che oggi sono state violentate e oltraggiate ad onta del mondo civile. E forse, noi che a Parigi siamo stati giovani, chi per molti anni e chi per alcuni giorni, domandarci con gli stessi accenti di Charles Trenet, “Que reste t-il?”.
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