La provincia e i suoi peccatori
di Alberto Piccini
Tre storie di corna in una cattolicissima cittadina veneta, Treviso, dove ognuno pensa ai fatti degli altri e dove i tradimenti sono la regola sottintesa, anche se il divorzio non c'è ancora e probabilmente non servirebbe a niente.
Una vittoria a Cannes per l’Italia dal primo giorno c’è stata: il restauro di un film che ha 50 anni sulle spalle ed una Palma d’Oro ex aequo con “Un uomo una donna”, film che ebbe molto più grande eco, e che forse apre più dibattiti oggi che al tempo della sua presentazione. “Signore e signori” di Pietro Germi, ha negli anni ricevuto gli stessi onori della rivalutazione dovuti al suo regista. Un film inusuale per la sua scansione basata su tre episodi che vedono agire i medesimi personaggi, visti come un insieme provinciale e borghese, cui parentele, studi in comune e frequentazioni (in primis quella della chiesa) fanno da collante. Tre episodi che non hanno titolo e dei quali il primo risulta essere quello di maggiore importanza, per l’opera di presentazione e di designazione dell’ambiente e delle figure. L’allegria che traspare dai personaggi – meno falsa di quello che una commedia borghese potrebbe far supporre – viene dalla consapevolezza di vivere un’epoca decisamente più doviziosa e in certo modo più spregiudicata delle precedenti.
Ride e accenna un’aria d’opera infatti, il medico di fama che si prepara ad una serata di sabato, compiaciuto della molto più giovane moglie e dei simboli del suo successo. A confermare la sua gioia serotina, l’arrivo di un amico già noto come instancabile seduttore che, a testa bassa, ne richiede i servigi di medico, per un’incresciosa situazione di impotenza. Le promesse di visite, analisi, ispezioni, sono recitate tra risate e pacche sulle spalle del depresso amico, ma rimandate ad altri giorni, la serata e la notte devono essere onorate. Via via che le autovetture degli invitati si approssimano al luogo dell’invito, la buona società di questa cittadina veneta (la riconoscibilissima Treviso) si delinea nei suoi vizi, virtù e legami segreti. Toni, il playboy colpito dall’improvvisa sciagura virile, ha per moglie una patronessa che detta legge tra chiese e istituti caritativi; due signore maritate si disputano i favori di un indolente scapolo, contando sull’ignavia dei consorti, un tardo impiegato di banca vive una vita coniugale da succube. Tali schermaglie, ben sostenute da montagne di pettegolezzi e maldicenze nemmeno travisati, divengono il vero piatto forte della cena in piedi dove tutti sono riuniti, compreso Scarabello, uno strano celibe logorroico e importuno che si è autoinvitato per la disperazione dei presenti. Il calderone della polenta, cibo tradizionale da secoli per le genti euganee, fa quasi “tendenza” nel salone signorile della villa, dove esiste anche un juke box a disposizione e svariati divani, oltre i quali le coppie clandestine si coricano, immediatamente avvistate. Durante il ballo si verificano tentativi piuttosto scoperti di seduzione, sventati dalla vigilanza di mariti accorti o semplicemente dalle moleste chiacchiere di Scarabello.
Il tono di Germi, pure registrando tante note grossolane, non si getta nella satira corrosiva né si fa sprezzante: l’andamento che mantiene è quello dell’opera buffa, della risata appena repressa. E neppure degenera la festa, malgrado qualche intrusione di amanti in cerca di una minima intimità nelle camere degli anziani padroni di casa. Sul tardi, quando la compagnia si spezza e solo i più audaci decidono di organizzare una scorribanda verso il mare (imitazione di una scena della “Dolce Vita”, che già Germi aveva utilizzato per termine di paragone per i sognanti spettatori paesani), altri ripiegano verso casa. Tra loro la moglie dell’illustre professor Castellan, il clinico, che volentieri l’affida all’ormai notoriamente innocuo Toni.
La chiusura di serata è molto sottotono: un nightclub vuoto di clienti, una scenata incresciosa fra le due contendenti della serata e le infinite concioni dell’ottuso Scarabello, che diviene suo malgrado il deus ex machina della vicenda. Dal suo torrente infinito di chiacchiere, emerge una storiella che in altro contesto sarebbe solo banale: un’avventura in un alberghetto equivoco, con due squillo e Toni come compagno di bagordi, dieci giorni prima. La corsa disperata verso la città, verso il talamo forse violato è drammatica, con ciclisti ubriachi sulla sede stradale e rischi di schianto a non finire. Infine, Toni sta facendo compagnia alla bella signora Castellan, ma il suo muso depresso e disfatto la dice lunga sulla malattia che lo affligge. Ancora di più dice però il disordine della sua persona, con un paio di bretelle ancora sganciate e si rischia di assistere, lontano dalle abituali locations di Germi, ad un delitto d’onore. Poiché l’opinione pubblica è tutto e lo scandalo è dietro l’angolo, non resterà al furente professore che fingere, accompagnando a casa il noioso Scarabello, cantando lo stesso pezzo d’opera accennato in apertura di serata.
Il secondo episodio – che presenta numerosi riscontri con “Atti impuri” di Goffredo Parise, riguardo a vicenda ed ambienti – ha invece esordio in una cornice diurna, in un consesso di professionisti e commercianti che possono perdere qualche mezzora della mattinata ai tavolini di un caffè, al solito ammirando le belle donne di passaggio e deridendo amici e nemici. E si parte dall’oggetto di alcune loro risate, il ragioniere Visigato, già incontrato insieme alla torva moglie nel precedente episodio. Il ragioniere, un Gastone Moschin goffo e balbettante, lo si vede fare la spola tra la filiale bancaria e un caffè, dove si perde nel suo amore muto per la bellissima cassiera, interpretata da Virna Lisi. Al di fuori del microcosmo della banca e del caffè (entrambi gli ambienti li si vede frequentare da monsignori ossequiati), per il mite impiegato c’è il suo inferno domestico, di un deprimente interno piccolo borghese, popolato dalla moglie sciatta e astiosa e da due figli che transitano veloci senza neppure salutare. Le schermaglie con la giovane cassiera sono più dolenti che buffe e quasi è deluso il patetico corteggiatore del suo successo, che viene presto. E presto viene l’occasione di vivere una giornata di intimità, con la scusa di un raduno alpino, per il quale il buon ragioniere si agghinda calzando il cappello con la penna, in un rigurgito di virilità. Gli alberghetti compiacenti sembrano far parte della topografia provinciale e vi si serve la chiave del paradiso di una stanza discreta con l’ultimo bicchiere: senonché è proprio la licenza per gli alcolici che provoca la sosta di un camion di ex alpini che, riconosciuto il vecio, lo trascinano in una kermesse di bevute, al canto funereo della Vojussa e proprio pare che “la meglio gioventù” del già deluso fedifrago vada “sottoterra” come nell’inno. La domenica è però destinata a cambiare il corso di più vite: al ritorno la ringhiosa moglie sbandiera una lettera anonima, addirittura in rima, che denuncia l’amore proibito. Tanto basta perché il mite e represso Visigato, ancora ebbro dei tanti brindisi, scateni la collera dei timidi, devastando casa e malmenando la donna.
Fatto ciò, irrompe sulla piazza principale e agli amici riuniti ai tavolini, bene edotti della vicenda, confessa la propria decisione di mettersi con la bella Milena. La virata di bordo del ragioniere sconvolge l’intera città: i soliti bene informati formano il coro greco della tragicommedia e commentano la Spider acquistata tempestivamente a suon di cambiali, l’improvvisa protervia verso concittadini e colleghi, le reazioni isteriche e masochistiche della moglie che giunge a regalare abiti e biancheria del fedifrago (in primis il cappello alpino simbolo del tradimento).
Mentre i due amanti vivono le varie tappe della clandestinità, residenza in squallide camere ammobiliate, colazioni e pranzi di cappuccini, richiami delle autorità, progetti di fuga all'estero, la città fa il vuoto attorno. Gli amici si defilano senza neppure troppe scuse, la famiglia, ben supportata da tonache di alto livello, ha agio di interrompere i canali vitali dei due irregolari, intervenendo sulla direzione della banca e mettendo in piazza il passato della giovane. Quando viene convinta a lasciare la città per destinazione ignota, al disgraziato ragioniere non resta che tentare un gesto estremo, gettandosi dal Palazzo che domina la piazza dei Signori, ma dando anche il tempo ai vigili del fuoco di approntare un provvidenziale telone. E un altrettanto provvidenziale ricovero in una clinica per malattie nervose penserà a restituirgli dignità e salute, cassando il suo innamoramento come la conseguenza di un vizio mentale passeggero.
La terza storia è nuovamente corale ed ha un filo conduttore che è donna, anche se in una parte pressoché muta. In un affollato giorno di mercato, la giovanissima campagnola transita armata di un tubo di gomma arrotolato “a spallarm”, come notano gli attenti signori dai negozi o dai bar e che forse il regista ha voluto assumere a simbolo fallico di una vitalità vischiosa e come si vedrà pronta a propalarsi per ogni dove. Ammira golosa le vetrine, si fa notare appunto da un commerciante che le impone quasi di provare un paio di scarpe, naturalmente nel retro bottega, dal quale riemergono reciprocamente soddisfatti. Un giro di telefonate partito appunto dal negozio avverte l’intero “giro” della presenza di una ragazza tanto bella e disponibile. Durante la giornata intera, visiterà ben ripagata una mezza dozzina di letti borghesi e ripartirà sull’ultima corriera serale. Tuttavia, nei giorni seguenti, il grosso contadino che le si indovina padre, batte il centro alla ricerca di qualcosa che gli sfugge e che deve sapere. Neutralizzato dall’ultimo “cliente” della sfacciata figlia (il professor Castellan, interpretato da Gigi Ballista), si ubriaca e dà spettacolo di se, finendo per essere bloccato dai carabinieri, ai quali racconta confusamente i fatti, sottolineando come la ragazza non abbia che 15 anni.
L’indagine non è facile quanto scontata e la linea di difesa omertosa dei responsabili crolla in un attimo. Rinviati a giudizio i “probi cittadini” devono cercare una via d’uscita possibile e quanto più dignitosa. Entra in scena, come nel precedente episodio, la stimata patronessa a sua volta moglie di uno dei colpevoli, che mette in chiaro come solo sborsando “schei” si possa chiudere l'increscioso incidente. La trattativa, condotta tra l’intransigente signora e il violento padre della “vittima”, ha luogo in una stalla, in un giorno di estiva calura, tra cumuli di paglia e oche che schiamazzano. Tanto l’uno che l’altra “tirano” sul prezzo, il primo ghiotto di “milion” e la seconda pronta a ritirare la borsa. Ma il vero accordo lo si raggiunge (per una cifra più mite di quella stanziata in partenza) grazie all’improvvisa infatuazione del greve contadino che consuma nella polvere e nel chiasso del luogo un rapporto sessuale con la rigida signora, in fondo contenta di risparmiare denaro. Degno finale di pochade, si potrebbe dire, anche se il vero epilogo ha luogo nella bellissima piazza trevigiana, dove i riti di aperitivi domenicali e cabaret di dolci all’uscita della Messa, si incrociano tra le occhiate furbesche degli aspiranti fedifraghi. Unica anima candida, il ragionier Visigato si premunirà di tappi di cera per le orecchie, sognando il suo perduto amore.
Prima di chiedersi quale senso abbia rivedere oggi, dopo un mezzo secolo, questo gradevole e pungente film, ci si dovrebbe porre la domanda sulla ragione che ha spinto Germi a girare la pellicola al tempo. Il regista veniva da due altri film apparentemente dissimili in tutto da questo, ovvero “Divorzio all’italiana” e “Sedotta e abbandonata”. Lontani geograficamente e culturalmente si potrebbe dire, dai personaggi dissimili per le stesse ragioni e destinati ad agire in maniere molto differenti. In realtà il motivo di fondo è il medesimo: c’è un’Italia che vorrebbe cambiare, ma rimanda l’operazione in quanto resta ancora cementata ai suoi riti, alle sue gerarchie e soprattutto a una serie di tabù che si è quasi felici nel rispettare. I personaggi siculi dei due precedenti film, ponevano l’onore in ogni discorso, cadendo invariabilmente nel ridicolo e spesso perdendo di vista l’autentico significato della parola; il dileggio per chi perdesse tale virtù era degradante e definitivo; non escludevano ricorsi alla violenza, dal paio di schiaffi alla figlia disobbediente fino al caricatore svuotato in faccia al rivale. Nel Veneto di quest’altra opera, la rispettabilità è ugualmente sacra, non disgiunta dalla posizione sociale e dalla disponibilità economica, nonché dalla necessità di praticare una vita almeno un poco brillante e rispettare i precetti religiosi. Il desiderio di evasione sessuale, di realizzare fantasie soprattutto maschili (Germi è regista che non scarta dal suo genere e in alcuni punti della carriera mostrerà anche ombre di misoginia) cozza contro la morale scolpita dalla società e come si palesa un focolaio di devianza, a scattare sono anticorpi a migliaia, che agiscono tanto nelle famigerate lettere anonime quanto nella messa in moto di poteri supremi.
Nella Sicilia dei due film sopra citati, la catarsi si misura con la prematura morte della baronessa Cefalù vittima sacrificale dei calcoli del marito o di don Ascalone, martire per la propria famiglia, la pietra tombale che chiude “Signori e signore” è fatta di denaro malvolentieri pagato e di un’altra domenica piena di donne eleganti, di chiacchiere e di ipocrisie. L’Italia cambierà domani, ma forse non in meglio e rivedere le opere di Germi può ancora darci qualcosa.
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