La valigia fuori moda


Claudia

Storia dell'amore impossibile tra Aida, ballerinetta alla deriva, e Lorenzo, giovinetto di buona famiglia, tra Parma e Riccione. Opera di Zurlini, uno dei rari poeti d'amore del cinema italiano, in cui si fa evidente la verità sociologica della narrazione da cui nasce l'amarezza di fondo, quella delle differenze di classe.

 

Di certe opere ci è caro l’incipit e questa di Zurlini introduce oltre se stessa gli anni Sessanta cinematografici, quasi in paradigma, come avrebbe fatto affermare ai suoi personaggi, nel pieno del riflusso anni Ottanta, il Nanni Moretti di “Bianca”. “La Ragazza con la valigia” è appunto del 1961, in tutto gli esordi del decennio. Ci si trova nella campagna emiliana assolata, tra il suono di “Fever” e il chiasso delle cicale, con la Lancia Aurelia versione spider (il futuro terzo protagonista del “Sorpasso”). La bellezza che emerge da una siepe è quella di Claudia Cardinale, raramente così sgargiante e popolana mentre affiora il malumore del suo cupo accompagnatore. E la tappa seguente è un ulteriore angolo fiammante di boom, un garage ampio e affollato di vetture, dove la ragazza, con un inganno prosaico e facile, viene “scaricata”. I titoli di testa e il clavicembalo di Mario Nascimbene hanno il primo piano della vecchia valigia, rigonfia ed esausta, che segue da questo istante il destino della protagonista Aida. Bastano poche inquadrature al regista per svelare l’arcano della seduzione interrotta: il figlio di famiglia che ripara nella villa parmigiana, un ambiente che spesso ritroveremo in Bertolucci, dove nascondere se stesso e la troppo riconoscibile spider. Malinconica famiglia, dal recente lutto per la madre, con un padre assente anche fisicamente e una zia rigida in giro per cascine a sfrattare mezzadri, un fratello minore che va male a scuola si indovina ammiratore del più grande. Ed è proprio il giovane Lorenzo – interpretato da Jacques Perrin che per Zurlini sarà negli anni una sorta di alter ego - ad affrontare la ragazza che in una goffa recita si presenta alla villa, simulando senza speranza un rapporto di lavoro. Il seduttore cupo e scostante – Corrado Pani con il suo grande avvenire non ancora dietro le spalle e lontano dal divenire principe consorte di Mina Mazzini da Cremona – ha dato falso nome e non si mostra. La vera avventura, il romanzo doloroso di iniziazione comincia però a questo punto. Aida che appare come una dea nel paesaggio notturno, malgrado le lacrime e l’accento ferrarese saporoso del doppiaggio di Adriana Asti, è l’incanto, certo il primo di un’adolescenza solitaria. Visitarla nella camera ammobiliata che si è presa in città un dovere cui non si sottrae e i modi da sorella maggiore non lo scoraggiano. La storia che tra la piccola stanza e il tragitto per la città gli racconta è quasi patetica: ballerina di varietà, ha lasciato il compagno d’arte e di vita (cui poco teneva) per rincorrere il provinciale playboy che prometteva ingaggi in grandi compagnie e vita brillante. Il sogno, certo non il primo, è svanito e quanto chiede al nuovo amico è l’uso di un telefono per tentare di riallacciare i contatti con l’ex compagno. La disarmante telefonata ha il solo risultato di qualche insulto e di un ricevitore sbattuto: ma ci si può consolare prendendo il bagno nella lussuosa stanza della casa di Lorenzo, che si delizia nel rimirarla scendere le scale in accappatoio e turbante con la romanza di Radames in sottofondo, quasi uno spot del regista che rende omaggio alla bellezza e alla terra del melodramma. E l’avventura prosegue quando decide di giocare le sue carte più forti; appoggiandosi al grande credito della famiglia in città, la fa alloggiare in un grande albergo e le fa recapitare come ad una diva fiori e vestiti nuovi. La serata dovrebbe rappresentare l’iniziazione di Lorenzo – sfuggito alla sorveglianza della zia e dei professori privati – che vive la sua serata in hotel con Aida, la quale accetta i grevi complimenti di tre attempati vitelloni in trasferta che l’hanno subito adocchiata e arrembata. Struggente delusione del ragazzo cui non resta che tracannare un whisky dopo l’altro, ascoltando il Deguello in sottofondo. Nella sua amara serata vede disfarsi le fragili sicurezze e se si può appoggiare al seno di Aida, è un cocente ceffone che riceve dalla zia, al rientro a casa, semi ubriaco. Sebbene rientrato nel mondo dell’adolescenza, non ancora si da vinto nel sogno di conquistare la donna. Gioca l’ultima carta dichiarando di avere individuato il fantomatico possessore della spider e ciò basta perché Aida rifiuti di tornare con il suo ex compagno che era giunto a Parma per ritrovarla. E’ il preludio all’ultima e forse definitiva sconfitta di lei, che in una volta sola scopre il baratro in cui si è calata e ad aprirle gli occhi provvederà il professore di Lorenzo, una figura di prete dinamico che da appuntamenti non in canonica ma la museo “dove non va mai nessuno e si può parlare in pace”, tratteggiata dal grande Romolo Valli. L’impossibilità di ritrovare l’uomo che l’ha condotta a Parma, la sua vera identità, l’inadeguatezza di Lorenzo, sono immagini chiare e razionali che il buon insegnante le mostra, in tutta umanità. Lei, si scopre, ha anche un figlio, “posteggiato” in una colonia estiva, di cui si cura quando può. L’ultimo consiglio è di tornare a ciò che conosce e che ancora possiede. Il ritorno di Aida verso Rimini è quello di un esercito in rotta e l’accoglienza che la attende pessima. Nello squallore del locale vuoto dove l’orchestrina sta provando, riceve gli insulti dell’ex compagno (Gian Maria Volonté qui ancora sconosciuto) e le attenzioni manifestamente losche di un altro musicista del gruppo che quasi a forza la ubriaca di Pernod e la trascina sulla spiaggia, per una tutto sommato improbabile seduzione. E sulla spiaggia appare, come sorto dal nulla, Lorenzo che, nella sequenza più romanzesca della narrazione affronta a pugni e mette in difficoltà il più prestante rivale, sopraffatto poi da due animosi passanti, che ne annullano e cancellano dalla scena la figura. Resta sulla sabbia, più implicito che dichiarato, l’abbraccio non tanto dei due corpi di Lorenzo ed Aida, ma delle due loro solitudini. Nel vuoto della stazione di Rimini, dove in una notte deserta e densa risuonano i campanelli della circolazione ferroviaria, è il loro addio e ad una busta il ragazzo ha appena affidato quelle parole che dice di non avere il coraggio di pronunciare. Quando il suo treno sarà distaccato dai marciapiedi, ad Aida comparirà dal chiuso della busta un mazzo di banconote, forse l’unico discorso che in una tale situazione sia possibile. La piazza e la notte inghiottono gli ultimi brani della storia.

Per datazione e anche per ambientazione geografiche, il film potrebbe suggerire analogie con altre complesse e dolenti figure femminili, quasi coeve, che apparterranno al cinema di Antonio Pietrangeli, come la Dora de “La Parmigiana” e la più importante e drammatica Adriana di “Io la conoscevo bene”, che in qualche modo si erano strappate indipendenza e autonomia nell’Italia arricchita e risvegliata dal miracolo, sia pure destinate a fare i conti con la propria fragilità. La affascinante finta scaltra e vera ingenua Aida, sconfitta dall’inizio alla fine, è reduce di un’altra epoca. La valigia consunta, gli abiti sfioriti e fuori moda, così come l’eloquio dialettale e soprattutto l’appartenenza all’universo rappezzato e patetico dell’avanspettacolo, sono stimmate già nostalgiche. Un sapore felliniano incombe su questa umanissima caratterizzazione di Claudia Cardinale, è non certo alla Mater Matuta impersonata dalla Ekberg discesa in Roma, che si pensa, ma piuttosto a una Cabiria più avvenente, alle comparse dei night polverosi della “Dolce vita” e ai fantasmi di sciantose dimenticate rinchiusi nei ricordi e nei sogni peccaminosi di “8 1/2”. Nostalgia emana da questa figura, nostalgia sua di una giovinezza cha va sfiorendo, nostalgia del regista per un mondo che è al tramonto e che tutti vogliono velocemente dimenticare, come le amare baldorie dello stesso Fellini dai “Vitelloni” in poi. Aida, che pare a proprio agio solo tra gli improvvisati e volgarotti ammiratori, è la vera carta fuori dal mazzo, in una società che è cambiata e rivoluzionata, con la famiglia che tra lutti, benessere e crescita dei figli si rilassa e si allarga, con il denaro che fa contemporaneamente da motore e da lubrificante, dove anche un prete insegnante sa superare in modernità e disinvoltura la ballerina spaesata. E se da una parte è romanzo di un’anima femminile vessata e defraudata, dall’altra è storia di forse provvisoria ma indimenticabile iniziazione di un ragazzo, solo, coraggioso, sincero e in aperta guerra col mondo, come i personaggi dei libri d’avventura dovrebbero essere. Se si soffre per Aida, si parteggia per Lorenzo. Che in un’altra Italia ricorderà, come tanti altri ex giovani, il primo tenero e impossibile amore per una ragazza che alloggia in camera ammobiliata, con un ferro da stiro da viaggio al seguito.

Alberto Piccini -

Alberto Piccini, laureato in Scienze Politiche è stato professore

a contratto di Storia dei Totalitarismi presso l’università di Genova.

Dagli anni Novanta si è occupato del recupero e dello

studio delle fonti inerenti la Seconda Guerra Mondiale ed in

particolare delle testimonianze orali dei protagonisti dell’ultimo

conflitto.

Coautore del testo multimediale “La Resistenza, 1943-1945”

(1996) e dell’Atlante Storico della Resistenza Italiana (2000),

ha pubblicato con Mursia “I confini del lager” (2004) e “L’ultima

guerra” (2007).

In seguito ha pubblicato con Adele Maiello, il testo “Il Rotary

in Italia: da club ad associazione” (2008) e, con Mario Paternostro,

“Genova e i volti della guerra 1940-1945” (2011) e "Genova, gli anni della rinascita 1945- 1960" (2014)

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