La moda ai tempi della crisi
di Francesco Masci
La moda ai tempi della crisi
Recessione e vestiti, un connubio possibile? Breve incursione fra stoffe, merletti, degustazioni e sorprese...
La crisi – ogni crisi – porta con sé un inevitabile raffinamento dei gusti
Eravamo al termine di una degustazione, in piena fase digestiva (piatti vuoti e calici pieni), quando Giuseppe Carbone, grande maestro di ago e tweed, pronunciò questa lapidaria sentenza. Tirando lievemente dal proprio sigaro, disse che non era una boutade da indigestione: da mesi non faceva che osservare gli sguardi dei propri clienti, i sospiri lasciati da chiunque passasse di fronte alla vetrina del suo laboratorio. Non era semplice tristezza. Era la consapevolezza di aver sbagliato scelta, la malinconica ammissione di colpa dell’innamorato deluso.
Pochi giorni dopo mi cadde lo sguardo su un articolo del Gentiluomo Parigino, che narrava la caduta del suo mito d’infanzia. La sua penna sognante si era fatta gelida, mentre condannava al disprezzo un celebratissimo produttore di calzature: è criminale trattare la qualità come zavorra, come un peso inutile da gettar via per inseguire il guadagno, diceva Monsieur Jacomet.
Quando anche il signor Aglietti, bottier extraordinaire, mi confermò l’aumento della propria clientela, non potei fare altro che ammetterlo. Carbone aveva ragione.
Tuttavia, una simile idea si presta con grande facilità a orrendi fraintendimenti. La moderna critica di costume sembra essersi gettata a capofitto nell’onnipresente palude di melassa, tutta madeleine e ricordi genitoriali: e tra le immaginette oleografiche dei “dignitosi poveri” pre-boom, rialza la testa l’appiccicosa retorica classista. Con buona pace della 27 Ora, è perfettamente inutile tirare in ballo l’economia politica, ricordare (ancora) che la Cina è vicina e scagliare frecciate in difesa dell’ambiente. Non serve cercare un tempo che non è mai andato perduto.
È sufficiente procurarsi uno specchio, dopo aver raccolto abbastanza coraggio da guardarci dentro.
Ritengo che il benessere porti con sé una messe di problemi occulti, primo fra tutti una forma grave di cecità psicologica. La nostra estetica diventa confusa. I dettagli si perdono. Riusciamo a malapena a intuire l’insieme, sfruttando il riflesso negli occhi del prossimo. Solo leggendo i suoi sentimenti (sarà invidia o semplice disprezzo?), possiamo comprendere quale sia il nostro aspetto: ma il nostro pubblico deve essere costantemente sorpreso, non sia mai che lo spettacolo lo annoi. Nel gran circo del consumo ognuno si immagina domatore, ma si concia da clown.
Al sopraggiungere della crisi, l’incanto si spezza. Il pubblico svanisce, ritorna ai suoi mestieri, alla vita vera. Rimaniamo soli, con un bel mucchio di stracci “chiazzati di falso oro ormai rosso” (Gautier). È il momento del trauma, il ritorno della vista. Molti non fanno che concentrarsi a fondo, cercando di ritrovare l’illusione; qualcuno riesce invece a riscuotersi, getta via tutta la chincaglieria e inizia a ritrovare se stesso.
Non sta a me indicare se quest’ultima sia la scelta “corretta”. Può apparire ovvio: e in effetti non è altro che l’ennesimo riproporsi del dualismo, tra quanto è giusto e quanto è facile.
Starei aggirando il problema? Beh, posso dirvi che un gentiluomo non avrebbe dubbi: raggiungerebbe con facilità la più giusta delle posizioni.
Dopotutto, cos'è il savoir-faire, se non l'estetica della facilità?
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