Se una notte d'inverno
Note stonate di Piacenti
di Immacolata Iavazzo
Quando mi è capitato per le mani questo libro, devo essere sincera, ho iniziato a leggerlo con il distacco e l’occhio critico di chi sa che sta leggendo un romanzo di uno scrittore emergente, poco conosciuto, il cui contenuto sarebbe stato quasi sicuramente scontato e banale.
Il primo capitolo ti introduce nella storia di un uomo, un giovane uomo, con i problemi e la spensieratezza legati alla trentina.
Il protagonista di Note stonate ci prende per mano e ci porta in un viaggio nell’universo maschile, attraverso incontri fugaci, avventure, amici e musica.
La musica sempre presente, è legata ad ogni aspetto della vita del giovane, tutto quello che succede ha un ritmo ben definito, scandito dall’autore che sceglie mirabilmente la colonna sonora di tutta la sua vita…
A fare da cornice agli incontri veloci, senza cuore, di notti appassionate, ci sono gli amici della band, gli amici di sempre, quelli con cui si va in giro, quelli con cui si condivide.
Nestor Piacenti sceglie un linguaggio semplice, essenziale, che va dritto al punto, lascia parlare un uomo. Negli ultimi anni siamo stati invasi da una letteratura ‘maschilista’ o ‘femminista’, gli uomini da una parte, le donne dall’altra. Uomini che parlano di donne e donne furiose verso gli uomini. Questo libro è diverso, non si tratta di un uomo che cerca di capire le donne, è un uomo che parla degli uomini, delle loro difficoltà, di questo tempo senza interessi, della paura di lasciarsi andare, della facilità e dell’aridità del ‘tutto e subito’. Proprio quando iniziamo a sorridere del suo modo di condurre la vita, arriva l’eroina. Myrea, l’àncora, un mondo da conoscere, da esplorare, il punto di incontro di tutte le vicissitudini della vita, lo sguardo che guarda oltre, che guarda dentro, colei che viene per restare. Ovviamente, come la più scontata realtà, lui fugge, sbaglia e, solo per caso, la rincontra e a quel punto è pronto ad accoglierla nella sua vita.
Note stonate non parla di un eroe, non mette in luce il coraggio, non ci vuole mostrare una realtà apparente. Note stonate è bello perché è vero, è reale, è come il giorno che esci, con il sole, senza ombrello e ti ritrovi per strada a bagnarti sotto la pioggia, è come quando hai paura di telefonare a chi ti piace temendo un rifiuto e non telefoni, è come la paura che hai di sbagliare quando senti che ci stai investendo il cuore. Le note stonate appartengono alla vita di ognuno, nessuna vita è perfetta, le note stonate sono, come dice l’autore: ‘… i miei sbagli, le volte in cui avrei potuto fare qualcosa e non l’ho fatto, le volte in cui avrei potuto dire la cosa giusta e non l’ho detta o le volte in cui avrei potuto tacere e invece ho parlato a sproposito.
Le note stonate suonano quando non sei accordato con la vita, e allora tendi o allenti la corda per tornare al diapason con la felicità. Non è un’operazione facile e soprattutto non è un’operazione definitiva.
Puoi sempre tornare al di sotto della soglia che crea l’armonia, puoi anche essere la nota giusta nello spartito sbagliato, magari nello spartito di qualcun altro.
Le note stonate non si cancellano con una gomma e nemmeno con il tempo.’
Come si fa a non sentirle proprie queste parole? Chi non ci si riconoscerebbe? È un romanzo limpido e pulito, anche quando in un breve ma intenso momento di malinconia ritorna alla memoria il ricordo di chi non c’è più, di chi se n’è andato troppo presto, ma che continua a rivivere nella passione che ha trasmesso: la musica.
Note stonate è la vita che si alterna alla paura, ai compromessi, ai sogni, alla quotidianità, alla musica. Le note stonate sono quelle che ognuno di noi si porta dentro e le ha salvate, comunque, nell’iPod della memoria.
Immacolata Iavazzo.
La stagione del riscatto di Gozzini
di Francesca Pacini
La stagione del riscatto (1948-1958) racconta sei storie di donne, sei protagoniste che, nel ponente ligure, incarnano figure femminili forti, coraggiose, sempre un po’…più in là rispetto al prevedibile. Figure fiere, indipendenti: Maria, Viola, Tosca, Mirna, Caterina, Arlena hanno tutte qualcosa da raccontarci. E da insegnarci. Fanno parte di quella Italia di cui tutti siamo fieri, e che tutti, ultimamente, abbiamo rimpianto.
Sono storie comuni eppure è proprio lì, nell’ordinario, che si nasconde lo straordinario, è lì che la gemma dell’umanità sboccia, diventa fiore, si fa sentire attraverso le storie, i gesti, gli odori.
Sorprende, la maturità stilistica di Raffaella Gozzini: i racconti hanno un respiro narrativo di sapiente fattura. Seguono le storie ma non le invadono con virtuosismi e lezzi stilistici. Dunque una semplicità che non è affatto superficie ma, per dirla con Calvino, “gravità senza peso”.
Si sa, in Italia io racconti sono meno amati dei romanzi.
Ma questi, davvero, vale la pena di leggerli.
Le signore della notte di Scaraffia
di Fiammetta Mariani
Le Signore della Notte
Storie di prostitute, artisti e scrittori
(di Giuseppe Scaraffia)
Siete mai entrati in un postribolo? Ne avete mai respirato gli odori o colto gli arredi? Avete mai visto da vicino una prostituta?, scambiato una parola con lei, osservato le sue vesti o le rughe sul suo volto? Qualsiasi sia la vostra risposta, dovrete lasciarvi sedurre dal libro in questione: Le Signore della Notte di Giuseppe Scaraffia; più che un racconto di storie, un viaggio. Un viaggio meraviglioso. Storie di prostitute, artisti e scrittori (anche se più corretto sarebbe “storie di scrittori, artisti e prostitute” alla luce della narrazione) avverte l’autore, nonché docente di Letteratura Francese presso l’Università Sapienza di Roma da anni studioso ed esperto di figure femminili dei secoli Settecento e Ottocento, la cui prosa da tempo ci ha abituati alla bellezza di simili ritratti di donne. Una bellezza dimenticata, persasi nella storia quanto nelle vite di intellettuali ed artisti. Una bellezza straniera, una bellezza altra che solo le prostitute dei postriboli più lussureggianti sapevano abilmente maneggiare, di cui erano le depositarie; ma anche una bellezza greve eppur sublime delle puttane dei bassi fondi relegate in case luride, spesso squallide e che – come ci ricorda Mario Soldati – «si limitavano a prestazioni rozze e banali». Un viaggio nel mondo delle meretrici e dei loro clienti: da Parigi (capitale della prostituzione) a Marsiglia ricordata per la malfamata Rue Bouterie, dalle case d’appuntamento di Roma in via Laurina, via Fontanella e via Capo le Case al bordello filosofico nella famosa Calle d’Avinyò a Barcellona. Da Amburgo a Londra, passando per Anversa e approdando alle migliori case d’appuntamento di Cuba. Il lettore sarà travolto da una sequela d'immagini. Immagini di luoghi defunti, ormai scomparsi per sempre. Immagini di puttane d’altri tempi. Alcune delle quali considerate vere e proprie intellettuali «che facevano addirittura trasecolare, oltre che per la bellezza, per il garbo, per il magistero tecnico, la fantasia, l’intuito psicologico, la passione per il mestiere, perfino per la delicatezza d’animo», spiega ancora Soldati. È l’autore le cui citazioni Scaraffia sembra favorire; forse per la poetica trasudante dalle sue parole che rivelano quella vena nostalgica per i bei tempi andati. Quando agli uomini non era rinfacciato il piacere della ricerca di simili incontri. Sull’onda della nostalgia per ciò che rappresentarono le case chiuse nel Novecento, l’autore apre la narrazione col racconto della «selva di nastri neri oscillanti» sulle antenne delle auto: era il 2006, a Lione, per il sessantesimo anniversario della legge del 1946 che in Francia bandì le case di tolleranza, gettando in strada le prostitute. L’Italia arrivò seconda nel 1948 con la legge Merlin, la quale sanciva definitivamente la chiusura dei lupanari pubblici.
Nell’introduzione al testo, è già racchiuso tutto un mondo. Tutto il significato morale ed allegorico che i bordelli, o meglio le prostitute, rappresentarono e simboleggiarono e per la società borghese, e per i “nocivi sibariti” (come furono appellati i clienti all’epoca della rivoluzione francese, sottolinea Scaraffia). Una morale sacrificata sull’altare dei grandi ideali della Rivoluzione e del secolo XIX, che per favorire la produttività rinnegò le libertà sessuali. È sulla base di questo assunto che l’autore continua asserendo: «(…) le prostitute furono indispensabili come non mai. La loro stessa esistenza era però una contraddizione vivente delle virtù della borghesia che ovunque si stava impadronendo del potere. Per questo le case chiuse, con le loro persiane serrate e la loro discrezione forzata, erano lo spazio ideale, il buio non-luogo per confinare attività inconfessabili in un limbo di rimozione.» Già, perché il controllo sociale, il potere gerarchico del patriarcato incarnato dai “ministri della morale”, passa sempre per la cancellazione dei corpi; anzi no, del corpo per antonomasia. Il corpo della donna. A partire dalla negazione del piacere per l’uomo. La rimozione forzata di tutta una serie di bisogni intimi e personali (con questi s’intendono i bisogni sessuali, intellettuali, di interrelazione, di scambio fra i sessi, di educazione all’Altro e all’altrui corpo) all’interno della sfera pubblica e di cui la borghesia non si fece mai carico, venne realizzata; e simili bisogni ritenuti accessori ai fini dello sviluppo sociale. Uno sviluppo sociale teso al controllo di quei corpi, all’asservimento di quest’ultimi al lavoro – solo più tardi, nella seconda metà del Novecento, George Orwell parlerà dell’alienazione dei corpi. Il corpo era lo strumento dell’Uomo sociale per raggiungere emancipazione e potere: potere come dominio: dominio sulle passioni, sulle pulsioni, sull'essere. È il compimento della morale assoluta, quella kantiana del "dover essere". All’Animale-Uomo, invece, non veniva concesso spazio. Ai fini di questo progetto non era contemplato, né contemplabile il piacere sessuale. Tale piacere doveva categoricamente rimanere fuori dai circuiti sociali pubblici. Ed è in quel “fuori”, in quel “non-luogo”, come lo chiama Scaraffia, che si situano le meretrici. Nella zona franca del bisogno. L’altra faccia delle donne: le reiette, le indecenti. È lì che c’è spazio per l’educazione all’amore, all’erotismo e al sesso: che ha sempre un prezzo. Alla prostituta la delega di tutrice della sessualità, che di quelle arti né era la custode. Come un giardino custodisce le rose più belle, le specie più rare, i postriboli custodivano puttane che non erano solo puttane. Erano molto di più. Certo gli incontri non erano tutti idilliaci; le Signore della notte non erano tutte uguali. Ma si sa, per l’uomo necessità fa virtù.
Dei primi incontri, delle “iniziazioni” ci parla a lungo l’autore nella prima parte del libro. Da Flaubert a Zola, da Proust a Tolstoj, da D’Annunzio a Kafka la lista di nomi, più o meno celebri, è lunghissima: tutti uomini con le loro storie, le loro paturnie, le loro difficoltà con l’altra metà del cielo. Per loro le prostitute erano la soluzione. Ma le signore della notte erano molto più: erano «corpo e immaginazione» diceva Tolstoj, erano odore, calore umano, erano «l’appagamento del desiderio» scriveva Kafka, erano «la freschezza del rapporto mercenario» in cui l’amore diveniva qualcosa di «animalesco». Oltre alle puttane, Scaraffia ci racconta delle tenutarie. Del ruolo che svolgevano le maitresse in quel contesto: le sole capaci di «presentare il conto ai partigiani, abituati ad avere tutto in omaggio». Ricordate come protettive e rigorose, rassicuranti e severe, le maitresse venivano spesso identificate con la figura materna, specie da parte delle prostitute.
Della prima parte del testo – “donne di vita” - resta il racconto appassionato e la prosa scorrevole quanto piacevole capace di descrivere il vissuto di letterati e artisti grazie alle di cui citazioni, Scaraffia affresca la narrazione come una tela bianca. Sollazzato dalle esperienze di vita di uomini d’altri tempi, al lettore viene offerto l’ennesimo ritratto, l’ennesima metafora meravigliosa attraverso le parole di Walter Benjamin che descrive Parigi dicendo: «Parigi, è come una puttana. Da lontano sembra incantevole, non vedi l’ora di averla tra le braccia. E cinque minuti dopo ti senti vuoto, schifato di te stesso». Sull’onda dell’entusiasmo si fa spazio la seconda ed ultima parte del libro – “donne di carta”. Ma è presto fatto a rompersi quell’entusiasmo. Da qui il via ad una serie di racconti di donne, prostitute più o meno prezzolate e conosciute. Muse, modelle, attrici. Oppure semplicemente puttane bellissime, come Marie di cui «è difficile sostenere lo sguardo ardente dei grandi occhi. Il suo profilo ha la perfezione degli antichi cammei, soprattutto nelle narici incarnate», rammenta Flaubert. Donne qualunque costrette alla prostituzione; indotte diremmo oggi. Ne è l’esempio Marta, che beve per stordirsi, beve per dimenticare quell’odioso mestiere; detesta «la vita abominevole del bordello, una gabbia che non ammette ripugnanza o stanchezza». Storie di donne e inevitabilmente storie di drammi: è la storia di Elisa «figlia di una collerica levatrice sempre pronta a picchiarla, sedotta dal primo venuto, si è rifugiata in una casa chiusa» spiega Goncourt. Ma è anche la storia di Véronique, una rossa venticinquenne con già dieci anni di prostituzione alle spalle: «figlia di una prostituta e di padre ignoto, è stata violata a dieci anni. A quindici è stata venduta dalla madre e avviata al mestiere». L’autore sceglie la narrazione che passa per la suddivisione dei secoli – Settecento, Ottocento, Novecento. Perché passano i secoli, ma le storie rimango tali e quali. Donne schiave, violentante, abusate: come Paquette. Sedotta dal confessore, viene cacciata dal padrone – Voltaire, Candide 1759 – e costretta a prostituirsi appagando uomini rivoltanti. In sostanza, donne senza scelta.
Il racconto s’irrigidisce dentro una sequela di nomi di donne, i quali celano un passato spesso duro, durissimo e al quale non si sfugge se non con la morte. Racconti di donne, racconti di morte e di sofferenza. Eppur racconti. Scaraffia restituisce a modo suo, voce alle donne. Alle puttane e al loro mestiere spesso ignorato e volutamente dimenticato dalla società; da tutte le società, specie quelle moderne. Alla fine di questo “viaggio” però si può stare certi di non rimanere delusi: possiederete fra le mani un bignami della e sulla prostituzione, sul cui concetto e sulla cui missione si è alzato, nei secoli, un coro di voci illustri per tesserne elogi e biasimi, pregi e difetti. Ma più pregi che difetti.
Volevo essere una farfalla di Marzano
di Fiammetta Mariani
VOLEVO ESSERE UNA FARFALLA
Come l’anoressia mi ha insegnato a vivere
Dici che la sofferenza non serve a niente. Ma non è vero.
La sofferenza serve a far urlare.
Per farci avvedere dell’insensatezza. Per permetterci di notare il disordine.
Per scorgere la frattura del mondo.
Dici che la sofferenza non serve a niente. Ma non è vero.
Serve a dare testimonianza del corpo spezzato.
Jeanne Hyvrard
Parole come comandamenti. Parole come mantra. Parole, parole e ancora parole. Parole che raccontano, riempiono. Parole regalate, inceppate. Parole di senso, parole di vita. Questo è ciò che mi viene da dire se penso all’ultimo libro di Michela Marzano: VOLEVO ESSERE UNA FARFALLA. Un magma incandescente di parole stupende, forti e spudorate allo stesso tempo; eppur bellissime, vive, vere. Parole che urlano e racchiudono la sofferenza di una donna. Parole che narrano le fratture e le fragilità di una Filosofa e del suo mondo. Parole nuove per nominare il vuoto ed il dolore. Semplicemente parole. O per meglio dire, parole in semplicità. Ed è grazie alle parole che siamo in grado di rivelare il contingente, cioè l'evento - come direbbe l'autrice citando Annah Arendt, la sua pensatrice preferita. Perché è dell'evento che la filosofia - quella incarnata, amata dalla Marzano - si fa carico, si occupa; è da lì che tutto comincia. «Solo partendo dall'evento, dalle macerie del mondo che mi circonda, io riesco a pensare», diceva appunto, la Arendt. Solo e soltanto a partire dai perché?, cui spesso non si può dare risposta alcuna, si riesce a ristabilire un contatto, per porre attenzione nominando l'indicibile e dando finalmente un senso alle cose. «Come diceva Lacan, la verità dell'uomo si esprime attraverso la parola. L'io non è là dove "io penso". Cartesio si era illuso di risolvere ogni problema col suo cogito, ergo sum. La psicanalisi lo ha smascherato». E la Marzano di parole ne ha trovate, eccome. Le ci sono voluti vent'anni di psicanalisi, di cui dieci in francese, per trovare tutte le parole necessarie; le sue parole. Quelle capaci di riempire i vuoti, di offrirsi come un ponte da stendere sulle fratture; quelle in grado di restituire la gioia, «quella che è lì e che non ero in grado di vedere perché pensavo al dopo, a quello che dovevo fare, a quello che dovevo essere».
Anche le parole del titolo, non sono parole scelte a caso. Volevo essere una farfalla esprime un desiderio profondo dell'autrice, un obiettivo che divenne presto un dovere da raggiungere: essere leggera perdendo peso. Già, perché la vita della Marzano - la filosofa contemporanea più brillante esistente, l'intellettuale più intuitiva che io conosca - sembra giocarsi proprio lì, in quel limbo concernente il dover essere (in cui il metter ordine ed il dovere divengo una sorta di imperativo categorico), dove spesso ci si incastra sino ad ammalarsi. Michela Marzano in questo lavoro, si racconta raccontando l'anoressia, raccontando le tribolazioni che la portarono sino a tentare il suicidio, raccontando come toccare il fondo le fece capire dove e come recuperare l'essenziale: « la cosa più difficile è far capire. Quella sofferenza che è dentro. Immensa. Senza fondo. Che non lascia trasparire nulla. Perché dall'esterno non si vede. Nessun segno. Nessun indizio. Nessuna spiegazione razionale. Anzi, se si guarda dall'esterno tutto va bene. Hai tutto. Assolutamente tutto. Bellezza, intelligenza, sensibilità. Una famiglia, degli amici, dei diplomi. Non sei malata. Cioè, sì lo sei, ma nell'unico senso accettabile del termine, perché, per gli altri, sei tu che sei all'origine della tua malattia. (...) E allora come far capire agli altri che in quel magnifico tutto manca l'essenziale? Come spiegar loro che, nonostante tutto quello che si ha, manca la semplice e banale evidenza che vivere è bello? Come trovare le parole per dire che manca la gioia. Manca la pace. Manca la forza di affrontare il mondo. Manca la voglia... Perché in fondo non hai voglia di niente. Non sai quello che vuoi, quello che desideri, quello che sogni... Sai solo che devi fare qualcosa... che devi reagire... che devi fare in modo che tutto torni come era prima... devi...».
Certo il tragitto verso l'essenziale, quell'essenziale che mancava, non è stato un tragitto facile. Ci sono voluti anni. Anni passati a ripetere sempre le stesse cose, a soffermarsi sulle paure, sulle parole che si inceppavano e proprio non volevano uscire. Anni passati ad analizzare per poter imparare a pronunciare, a dire. Ad esistere ugualmente mentre si asserisce: "no, non ce la faccio" oppure "adesso basta, sono stanca". Anni trascorsi ad apprendere come appoggiarsi su sé stessi, quando le parole ancora oggi inciampano, fanno fatica. Anni per capire che nessuno avrebbe mai potuto colmare quei vuoti. Anni spesi ad educarsi a nominare la sofferenza. «Provate a immaginare cosa può voler dire avere il sentimento di dover fare sempre qualcosa per dare un senso all'esistenza, la certezza di non arrivarci. Che gli altri lo fanno meglio. Che voi non valete nulla, non servite a nulla, non avete alcun valore». Cos é questo se non un incubo?, un incubo in grado di annientarti? Solo leggendo questo libro ho capito quanta forza possa celarsi e racchiudersi in una donna. Di quanto coraggio consti la vita, e il mettersi veramente in discussione. Sono convinta che nessun uomo sarebbe stato in grado di scrivere qualcosa di medesimamente profondo con la semplicità della Marzano. Nessuno avrebbe saputo fare di meglio.
A differenza di quanto suggerito dal sottotitolo di questo libro, non è certo l'anoressia che le ha insegnato a vivere. L'importante non era ricominciare a mangiare, ma ricominciare a vivere: a vivere pienamente. Perché dietro l'anoressia c'é fame, una fame enorme. È per questo che si tenta e di controllare il cibo, perché si è affamati. Affamati d'amore, affamati d'approvazione altrui, affamati troppo. Come denuncia la stessa Marzano, se c'è una parola che la caratterizza è "troppo". Si innamorava troppo, parlava troppo, piangeva troppo, troppo. Una parola in cui molti di noi potrebbero riconoscersi. L'incubo della società contemporanea in cui non bisogna essere troppo, poiché bisogna solo controllare. Controllo spasmodico di tutto: di come ci si veste, di come si appare, di ciò che si dice, di quello che si pensa. Controllarsi è il diktat corrente, in cui se non ti controlli sei troppo sopra le righe o troppo disperato. Sicuramente troppo. Di nuovo troppo. Un tentativo disperato di uguagliare, normare, trattenere. E se c'è qualcosa che ho imparato è che le donne faticano terribilmente a trattenere. Le donne sono abituate a lasciar andare e questo troppo davvero non si addice loro. Volevo essere una farfalla diventa così un libro portatore di un buon augurio. L'augurio di ricercare sé stessi al di là e al di fuori delle gabbie, semplicemente oltre. Una viaggio alla ricerca dell'essere, dell'essere io, leggero come una farfalla, reso sicuramente più accessibile grazie alle parole restituite da Michela Marzano. Che buon viaggio sia, allora, per tutti.
L'elogio della revisone di Tadini
di Marina Bisogno
Nel saggio “L’elogio della revisione”, (dall’antologia “Come scrivere”, AA.VV., Zelig editore) Emilio Tadini, pittore e poeta, sostiene che ogni forma d’arte, dalla scrittura alla scultura, passa attraverso una fase di mis en discussion. “Non c’è, io credo, una bella scrittura senza correzione: i testi apparentemente più semplici sono quelli più lavorati” dice Tadini, che non era certo l’ultimo artista arrivato. Perciò, toglietevi dalla testa che la scrittura sia una sequenza di illuminazioni e di ispirazioni perpetue. Il lampo di un’idea può accendere la prima miccia del pensiero, guidare la penna sul foglio bianco, ma non produrre tout court un’opera fruibile. I più grandi scrittori, infatti, non sono stati solo dei creativi, ma anche degli artigiani indefessi, dei revisori di se stessi. Un’incombenza di certo non facile, né dagli esiti scontati. La revisione, invero, richiede pazienza e tanta umiltà. “Correzione è la capacità di penetrare dentro la struttura del testo, nella sua fisiologia, rompendolo completamente e ricostruendolo senza però alterarlo” scrive Tadini. Secondo lui, e chi scrive concorda, non esiste altra via per scrivere. Ogni prima stesura necessita di interventi successivi, spesso incisivi, e sono questi che suggeriscono all’occhio e all’orecchio aperture, risvolti, digressioni. Correzione è movimento, è storia, è la sostanza della scrittura. Avete presente Céline, il romanziere d’Oltralpe? Bene, lui buttava giù ottomila pagine per ricavarne cento. Inoltre, è proprio durante la revisione che di un testo si definisce perbene la punteggiatura, scandendo musicalità e ritmo. La fase creativa potrebbe persino prescindere da questi intervalli. Chi scrive sappia, però, che non potrà evitarli, pena la resa ottimale dell’opera. Qualcuno potrebbe obiettare che questa concezione dell’arte sacrifica la naturalezza. In realtà, la verità della pagina è un percorso in fieri, impossibile da conquistare immediatamente. Persino i poeti, rabdomanti dell’attimo fuggente e della parola esatta, tornano di continuo su quanto hanno prodotto. Il senso è ricerca, e la ricerca costa un mucchio di fatica. Per dimostrarlo Tadini scomoda persino Freud, che sosterebbe un lavoro di analisi vicino a quello della continua correzione. Il guaio è che non esistono indici per stabilire di quanta correzione un testo abbia bisogno. Si può solo insistere nella rilettura: così, l’analisi smodata del testo conduce all’interpretazione, e quindi alla strada verso la leggerezza che è il termometro, la bussola che ci orienta. Una meta finale irraggiungibile senza un lavoro “a levare” terribile. “La passione dell’assenza di parola” la definisce Tadini, che in alcuni casi, induce persino alla ricostruzione (specie nella pittura). Il dato interessante è che secondo lui la bellezza della scrittura, come della pittura o della musica, è “il continuo esitare tra una forma che le definisca in maniera netta e il metterle in discussione”. Un vero rompicapo filosofico, penserete. Beninteso, non esistono regole universali per la revisione. C’è chi corregge a penna, chi, invece, al pc. A differenza di tanti scrittori e giornalisti del Novecento costretti a scrivere a macchina e ricominciare da capo per la revisione, noi, oggi, disponiamo del computer. Quest’ultimo ci permette di lavorare ad un testo plastico, “che si adatta a ogni colpo di pollice, anche leggerissimo”, malgrado del percorso da una bozza all’altra non rimanga nulla, a meno che non decidiate di conservare il materiale. Al di là dei sistemi, la centralità di questo bel discorso ruota intorno alla capacità di essere altro da sé. Solo questa fuga alimenta la criticità a cui ci appelleremo per correggere, e paradossalmente, solo la fuga ci permetterà di creare. “Mi considero un soggetto evasivo, non ben definito: sono così” scrive Tadini, convinto, come Eliot, che fuggire dalla propria personalità è sinonimo di estro.
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