Se una notte d'inverno

“Anelli di quercia”, di Cristina Bergomi

di Marina Brunetti

anelli di quercia“La ferita che il non amore ci ha inferto è il ventre dal quale veniamo generati molte volte”. (Peter Schellenbaum, La ferita dei non amati, Red Ed., 1991)
Esiste un lato oscuro del dolore: la vergogna di raccontarlo. Se non si riesce ad articolarlo, a tratteggiarlo a voce, si ricorre alla parola, allo scritto, che permette le dovute pause, lascia il tempo di decantarlo quel dolore, di assecondare la mano che verga, nero su bianco, l’impronta di quel che eravamo, e che non siamo più. Un attimo prima di quel dato istante eravamo qualcosa, un attimo dopo la sua copia, sbiadita e colpevole, che dimorerà per sempre in noi. Il libro di Cristina Bergomi, “Anelli di quercia”, si apre dolorante come un edema fisico, con dei lividi veri, ma anche col gonfiore cardiaco che vorrebbe mettere fine alla miseria di vivere di Anna con un uomo violento, Sergio, vittima anche lui di un ignobile passato, quello dei non amati. L’infanzia di Anna è fertile terreno per i diseredati di affetto come Sergio, vittima anche lei di un abuso quando era ancora solo una bambina, quando la vita ha la gioia semplice di un’altalena, di un albero cavo di collina: “Ai bambini basta poco. Sono spalancati verso il mondo come fiori appena schiusi. Si lasciano conquistare da una parola piena di premura, un abbraccio, una risata che, come subdoli cavalli di Troia, s’insinuano nelle anime pure" (ebook, pos.9). Quest’ultima, la collina, è mesta spettatrice di quello che nessun padre o madre vorrebbe mai per la propria figlia, quell’indelebile macchia che non va mai via e da cui difficilmente si trovano i mezzi per riaversi, per imboccare la via della resilienza, quell'abilità, cioè, di riemergere fortificati da traumi e difficoltà, termine mutuato dalla fisica a indicare la capacità di un metallo di tornare alla sua forma originaria, dopo essere stato piegato; per fortuna, direbbe André Malraux (“La condizione umana”) “[...] ci resta l’azione, un uomo è la somma dei suoi atti, di quel che ha fatto, di quel che può fare. E basta”. Ma Anna no, non li possiede tali mezzi, ama nonostante tutto suo marito, i lividi “marchiano il corpo con l’infamia mostrando al mondo la mia vergogna […] ciò che mi terrorizza davvero è il dolore che deriva dall’incapacità di vivere. Quello non si risana mai: è una morsa che avviluppa ogni cellula e ci tiene in scacco, riducendo la mente a brandelli” (ib., pos.3).


L’incontro felice in età adulta con Sergio, sembra tenere momentaneamente silente la bambina violata, grazie a un uomo che la fa sentire speciale, che la sa ascoltare, pur tacendo molto di sé. Per qualche tempo quel primo incontro non ha seguito, poi i due si rivedono per caso e per Sergio parlare con Anna significa soltanto sfogliare un libro che conosce già a memoria, la capisce, lei si sente esposta e vulnerabile, ma felice di poter condividere con lui la trama incancrenita delle sue cicatrici, che li unisce come esseri gemelli; anche Sergio custodisce un passato travagliato, una morte prematura della madre, un trascorso di figlio alle prese con un padre violento e vigliacco, incapace di crescere i due figli a lui affidati: “Gli esseri tormentati si riconoscono dall’odore della disperazione. Si aggirano per il mondo con i pugni serrati per difendersi dai mostri invisibili che animano le loro notti” (ib., pos.16). Sergio sa farsi spazio nel cuore e tra gli scheletri di Anna, ne ha riconosciuto il tintinnio, ha fiutato l’odore del sangue, gli spettri di lei sono anche i suoi, perché, in fondo, “siamo tutti esuli dal nostro passato” (Dostoevskij). Lui le propone, affrettando i tempi, una convivenza, che lei accetta senza tuttavia rinunciare a una supplenza che si rivelerà poi la sua salvezza, prodromi di una resilienza che stenterà a decollare. Quando per Anna si prospetta la felicità, perché dedicare energie e pensieri alla paranoia e gelosia di lui, perché fare caso a “una verità meno poetica di ciò che raccontavo a me stessa: la mente di Sergio era un luogo cupo, popolato da spettri minacciosi che deformavano le cose intorno a lui rendendole pericolose e spaventose” (ib., pos.27). A scuola, Anna stringe amicizia con una collega, Marta, che sarà in seguito la sua comprensiva depositaria di confidenze, “una di quelle persone che sembrano ancora più attraenti dopo averle conosciute perché la loro personalità le illumina, conferendogli un’aura che va ben oltre la mera bellezza fisica” (ib., pos.30). Marta è anche colei che riesce a intuire i segnali negativi nella convivenza di Anna più di quanto non faccia lei stessa, segnali che c’erano sempre stati, atteggiamenti, gesti, espressioni che preludevano a conseguenze nefaste, ma che venivano zittiti dal sentimento d’amore; le gelosie patologiche e il desiderio morboso di possesso di Sergio erano mantra silenti pronti ad implodere per  decretare l’indubitabile amore di lui per lei.


L’autrice ha uno stile forte, incisivo, mai greve e incolla, nel corso della narrazione, scorci introspettivi di infanzia, ricordi del passato, dei flashback che aiutano a percepire la rilevanza che alcuni episodi avrebbero poi avuto nell’età adulta di entrambi, quell’ignobile imprinting che si vorrebbe cancellare con la gomma razionale e matura, pur tuttavia ancora fragile, dell’esperienza. Individui innocenti e ignari che si pongono sulla linea di fuoco di Sergio, gli offriranno il pretesto per sfogare ogni volta i propri impulsi violenti sulla moglie, su cui cerca di esercitare un parossistico controllo, o di sfogare la sua rabbia, quella “dentro di lui, non fuori”: “Quando si vive una relazione malata, il bene e il male si fondono e si diventa incapaci di distinguerli. Il limite che si pensava insuperabile viene costantemente oltrepassato e l’asticella si sposta ancora più lontano, verso un confine che appare sempre più labile” (ib., pos.41). Il triste bollettino di guerra dei femminicidi, dei casi di violenza domestica, di stalking a cui siamo quasi quotidianamente sottoposti dimostra, oltre ogni ragionevole dubbio, tra cui quello, spesso errato, di un’indole debole connaturata alla donna, che “quando un uomo, anziché interrogarsi sul fallimento della sua vita amorosa, anziché elaborare il lutto per ciò che ha perduto, anziché misurarsi con la propria solitudine, perseguita, colpisce, minaccia o ammazza la donna che l’ha abbandonato, mostra che per lui il legame non era affatto fondato sulla solitudine reciproca, ma agiva solo come una protezione fobica rispetto alla solitudine” (M. Recalcati, Quel maschio fragile che non accetta limiti, “La Repubblica”, 5/5/2012).


Sergio giustifica e assolve la sua incontrollabile violenza vestendola dell’abito falsato dell’amore assoluto, quello che vorrebbe due anime unite solo in virtù di una reciproca esclusività, ma tutto questo è terribile, insano, come ci ricorda Elsa Morante, perché è tuttavia “un inferno essere amati da chi non ama né la felicità, né la vita, né se stesso, ma soltanto te”(“L’isola di Arturo”, ebook p.2035). In quei momenti di puro terrore e sopraffazione che Sergio riserva ad Anna, dimora un’atavica quanto malata spiegazione: lei rappresenta l’incarnazione di ciò che non si può mai sottomettere, disciplinare, possedere integralmente; in pratica ciò che la donna, in senso negativo, rappresenta per l’uomo, il limite insuperabile e l’angoscia verso un “qualcosa” che non si può governare e di cui la gelosia maschile dà solo una vaga percezione. Neppure Dino, il protagonista di “La noia” di Alberto Moravia, riesce nel suo intento di controllare la propria donna, Cecilia, allettandola con il denaro, nulla, nessun oggetto né cosa può trattenere ciò che è per sua natura sfuggente. Troppo semplice ridurre tale sottomissione a fattori caratteriali o, peggio ancora, tratti propri dell’indole femminile; Anna è una donna con un lavoro, potrebbe essere indipendente se solo lo volesse, ma l’ansia di costruire una famiglia e la pervicacia di volerla far funzionare, il bisogno di una presenza maschile accanto, la portano a subire più di quanto avrebbe immaginato e a perdonare più di quanto avrebbe dovuto: “Non rinunciare mai, Catherine. Hai tante cose dentro di te e la più nobile di tutte, il senso della felicità. Ma non aspettarti la vita da un uomo. Per questo tante donne s’ingannano. Aspettala da te stessa”, diceva Albert Camus (“La morte felice”), avvalorando la tesi degli psicologi secondo cui in un ideale processo di resilienza, fattori fondamentali sono il rafforzamento della stima di sé e il senso di sicurezza interno. Anna cerca in ogni modo di fortificare questo senso di stabilità ed è quasi certa di averlo raggiunto nel momento in cui scopre di aspettare un bambino, un evento che viene inizialmente accettato con gioia anche dal marito e che sembra momentaneamente pacificare e solidificare la loro unione.
Tuttavia è sufficiente scoprire che il bambino atteso sarà un maschio, e non una bambina come aveva soprattutto sperato Sergio, ansioso di fugare gli spettri infantili che popolavano i suoi giorni, quel se stesso odiato, malmenato e privo di significativi appoggi esterni, per far precipitare il fragilissimo ménage coniugale. I genitori rappresentano spesso il punto cardine su cui fanno leva le più complesse problematiche sviluppate dai propri figli, una sorta di proiezione mentale che favorisce la coazione a ripetere il proprio destino quotidianamente, attraverso pensieri nocivi, malsani e distruttivi: “[…] I miei genitori sapevano che cosa stavano commettendo? Assolutamente no. Senza volerlo, facevano a me quello che era stato fatto a loro. E così, reiterando di generazione in generazione i misfatti emozionali, l’albero di famiglia continuava ad accumulare una sofferenza che durava da parecchi secoli” afferma Jodorowsky in “La danza della realtà” e forse è proprio per esorcizzare una sua potenziale reiterazione che Sergio, alla fine, commetterà quell’irreversibile gesto che cambierà per sempre l’esistenza di tutti.

 

“Anelli di quercia”, di Cristina Bergomi (edizione digitale autoprodotta e auto pubblicata, dicembre 2013).

 

Recensione a “Fantasma d’amore”

di Daniela Marras

Recensione a “Fantasma d’amore” di Mino Milani – Barion, 2013

 

fantasmaChi ben conosce, ma soprattutto chi non conosce, l’opera di Mino Milani, solo scorrendo l’elenco della sua ricca produzione su Wikipedia, si sente sicuramente inadeguato a stendere una recensione su un suo scritto.

Eppure vale la pena tentare, per invitare alla lettura di uno dei romanzi più noti di questo prolifico autore, “Fantasma d’amore” del 1977, che viene ora ri-pubblicato dalla casa editrice Barion, chi nel ’77 era nell’età per leggere “Pinocchio” o “Cuore” o “Piccole donne” o, non ancora concepito, era in attesa tra gli angeli.

All’epoca il libro in oggetto divenne un best seller e, nel 1981, Dino Risi ne ricavò l’omonimo film interpretato da Marcello Mastroianni e Romy Schneider. Film e libro però differiscono nel finale: come spesso accade, infatti, romanzi e film ad essi ispirati vivono una loro indipendente vita, da opere d’arte diverse come sono.

Il libro “Fantasma d’amore” si lascia divorare, scritto com’è in uno stile scorrevole e accattivante che permette all’autore anche di tralasciare le virgole per far fluire meglio il discorso e la narrazione: “piccola distorta goffa ombra bianchiccia” si legge, per esempio, a pag.31; “vertigine paura vergogna senso d’abiezione disprezzo voglia di violenza” a pag.36; “incertezza incredulità sorpresa diffidenza”  a pag. 63; “notte (si legge così a pag.83 ma immagino stia per “rotte”) vertebre sterno arterie vita”; e poi il drammatico “che cosa faccio se è morta che cosa faccio se è morta che cosa faccio se è morta” a pag.199, e ancora “una vecchia un uomo con gli occhiali un uomo con la barba una donna dalla faccia appassita un ragazzo” a pag.263, e via discorrendo.

L’autore, com’è noto, è pavese e la storia è ambientata a Pavia: la narrazione si snoda tra il 25 ottobre e il 29 novembre del 1975, in una Pavia dove, il biglietto del bus costava cento lire e dove, allora come oggi, nei caffè si chiacchierava “di politica, di crisi, di tasse”.

Il protagonista, “Nino Monti… commercialista”, il 25 ottobre 1975, all’età di quarantasei anni, si trova a fare qualcosa di inusuale e insolito: invece di prendere l’automobile, aspetta l’autobus. Da quel momento viene irretito, come una mosca rimasta prigioniera in una ragnatela (l’immagine è dell’autore e la si trova, efficacemente dipinta, nel corso della narrazione) in una vicenda che lo porta dapprima a fare “un po’ di ricerca del tempo perduto” per le vie della città e, poi,  sempre di più, a dubitare della propria salute mentale.

Il tempo perduto è quello di venticinque o ventisei anni prima, un amore giovanile, dei tempi in cui oltre alle osterie, in città, c’erano anche le latterie e si poteva bere l’acqua del Ticino.

Un amore che si scopre essere l’amore della gioventù di Nino, il primo amore, ma forse anche l’amore redivivo dei quarantasei anni: l’amore per Anna Brigatti.

Anna ricompare nella vita di Nino, sconvolgendola, perché “certi debiti vanno pagati”.

Ma è Anna a ricomparire oppure il fantasma di Anna? Oppure ancora si tratta solo di un’ossessione partorita dalla mente di Nino? Sono coincidenze casuali quelle che si verificano nella vita peraltro ordinaria di Nino oppure tessere di un puzzle sul cui senso il protagonista si interroga sin dalle prime pagine e che cerca di scoprire fino alla fine del romanzo? Il lettore, trascinato dal racconto, si fa le stesse domande di Nino: troverà una risposta “davanti all’inconoscibile”?

La storia viene narrata in prima persona: è Nino che parla, Nino che racconta, Nino che rievoca, Nino che si interroga, Nino che dubita… fino alle ultime pagine, quando l’io cede il posto, per qualche paragrafo, all’egli, fino a quando Nino, grazie a “una cellula solitaria, dall’alto della sua fredda normalità”, torna “ad essere io”.

Si tratta di un romanzo solo apparentemente leggero e scanzonato, e, anche se Nino rassicura se stesso dicendosi che “nulla è senza spiegazione, e se il mondo è equilibrio, l’equilibrio non può essere misterioso”, il mistero volutamente resta tale, oscuro, inaccessibile

E’, si può azzardare, una cavalcata esistenziale sempre più intensa e vorticosa.

“Pensi davvero che il tempo esista?” chiede Anna al Nino quarantaseienne, “esiste il tempo” si chiede poi Nino, “aveva un senso, tutto questo?”, “che senso ha?” si chiede ancora il protagonista: si tratta di interrogativi su cui capita a tutti di soffermarsi, più o meno intensamente. Che poi si trovino risposte è un’altra questione…

Efficaci i ritratti della moglie presidentessa, della segretaria e dell’impiegato di Nino nonché degli altri personaggi, che l’autore delinea sapientemente anche con poche, apparentemente casuali, pennellate.

Non mancano le citazioni dal mondo della poesia, dal famosissimo “Come d’autunno sugli alberi le foglie” fino a Spoon River.

Sono quindi senz’altro auspicabili un successo e una rinnovata fortuna di questa ultima edizione di “Fantasma d’amore”, pari o superiori a quelli del 1977: buona lettura!

Recensione a "Ogni cosa che tocco è un'astronave"

di Serena Frediani

Recensione a "Ogni cosa che tocco è un'astronave"


calligarisAlberto Calligaris

'Round Midnight Edizioni

Narrativa. Pag 336. Euro 10.

Uscita: 10 ottobre 2013

 

Dovrebbe essere una storia semplice: una giovane libraia, sballata, irrequieta e sognatrice un bel giorno riceve nella libreria dove lavora la visita di un uomo. Somiglia a Kurt Cobain e le mette in mano un oggetto di enorme valore: il reggiseno magico di Sylvia Plath. Chi indossa il prezioso indumento appartenuto alla grande poetessa è in grado di scrivere qualcosa di immortale. In quella mattinata qualunque, Sara inizia l'avventura che ha sempre cercato. Un'avventura che non riguarda solo il recupero dell'oggetto magico, ma attiene soprattutto ai sentimenti, all'amore, all'amicizia, alla fiducia. Un viaggio fino a Bruges, e tanta bella letteratura per contorno. E l'incontro con gli uomini senza scrupoli che rendono pericolosa l'avventura.

Dovrebbe, appunto, essere una narrazione semplice.

Invece, leggendo "Ogni cosa che tocco è un'astronave" si ha la sensazione che ad ogni frase si stia per assistere al disvelarsi di una nuova verità sulla natura dei desideri, delle scelte e dei limiti, e sui rapporti tra esseri umani.

Certamente l'autore pone in essere verità mai dette prima. Versioni non contemplate della realtà, che derivano dai pezzi della vita di chi si pone in basso ma che, da laggiù, non sa dimenticare sogni e sentimenti altissimi. Queste sono le porzioni di verità che esistono per chi possiede la felicità soltanto se è obliqua.

Attraverso questo romanzo si rivelano poco a poco i tasselli della realtà schivata, ammaccata e scomoda di chi vive un'emotività "poco funzionale" al senso comune. La realtà di Sara, ad esempio. E di Negro Wolfe.

Nel palco dell'assurdo, i personaggi sono così coerentemente incredibili da rendere credibile ogni scenario. Anche se in questo sfondo si origina una sequenza di follie, essa affonda radici in tutto ciò che c'è di terrestre.

Da vero scrittore, Calligaris dosa bene la giusta razione di ironia laddove, senza misura, si sofferma con certo compiacimento sui momenti di disfatta e sulle occasioni di bassezza più profonda. Eppure costruisce riflessioni mai prive di elementi di malinconia o di tenerezza struggente. I passaggi magistrali si leggono nello scorrere di espressioni e immagini cariche di poesia e cruda bellezza. Pensieri di una purezza e di una finezza rarissime, che trovano corpo in quello che c'è di più vicino al suolo.

 

A volte qualcuno tra i sassi trova un cuore. Accade, ma è difficile. È cosa difficile perché la natura dei sassi non è la natura del cuore. Eppure qualcuno tra i sassi trova un cuore. Accade, e mai per fortuna.

Accade perché qualcuno cerca un cuore tra i sassi. (...)

Chi cerca un cuore tra i sassi sa quale cuore sta cercando. Sta cercando un cuore che le faccia sanguinare il labbro, un cuore che possa stringere dentro la mano quando tutto il resto è perso. Chi cerca un cuore tra i sassi cerca un cuore abituato a rotolare tra i sassi, un cuore che si consuma sfregandosi su altri cuori. (...) Ogni cuore è un sasso fino a quando qualcuno lo raccoglie da terra  e si meraviglia della forma del proprio cuore.

 

Il romanzo ci lascia dunque entrare in un mondo sconvolgente con l'autenticità trainata senza filtro dai pensieri e dai dialoghi, che calzano perfettamente la mente di Sara e la sua voce. Pensieri che trovano in lei verità, nonostante gli aspetti eccessivi e morbosi che restano chiarissimi al lettore.

E' una storia che con facilità e voracità si lascia leggere. Ma non è una storia banale. E' un libro dalle tinte forti, un romanzo che attiene a tutte le necessità e fragilità umane, e passa dal sogno all'incubo, dall'avventura alla paura, dalla fuga al ritorno, e dall'odio all'amore. Per tornare al sogno.

 

 

Recensione a “E l’eco rispose”

di Daniela Marras

Recensione a “E l’eco rispose” – Khaled Hosseini – Edizioni Piemme 2013

 

l'ecoChi si avvicina a “E l’eco rispose”, dopo aver letto “Il cacciatore di aquiloni” e “Mille splendidi soli”, con la curiosità di leggere la terza opera di Hosseini, potrà esserne poi più o meno soddisfatto, deluso, entusiasta, annoiato, coinvolto: insomma si farà senz’altro una sua opinione sul libro in oggetto e sull’opera di Hosseini nel complesso. Avrebbe quindi interesse a leggere una recensione (l’ennesima, sicuramente!) solo per confrontare le sue idee e impressioni con quelle di un terzo.

Chi non avesse letto i precedenti libri di Hosseini potrebbe tuttavia giungere a leggere “E l’eco rispose” per i più svariati motivi e farsene anch’egli una sua personale opinione senza avere alcuna curiosità di leggerne una recensione.

Ma chi ancora non avesse letto il libro e ne fosse tentato, di sicuro non vorrebbe trovarsi a leggere righe troppo rivelatrici e anticipazioni troppo succulente sui contenuti, la trama, lo stile, la scrittura dell’autore.

Che scrivere allora per invogliare alla lettura senza rivelare troppo? Per stuzzicare la curiosità senza “uccidere il gatto”?

Per cominciare, è consigliabile iniziare a leggere il libro senza aver precedentemente letto le righe sul retro della copertina di questa edizione: risulta infatti quantomeno discutibile la scelta di chi ha deciso di pubblicare proprio questa citazione.

Poi, il titolo: perché “E l’eco rispose?” o l’originale “And the Mountains  Echoed”?

Il lettore lo scopre nelle ultime pagine del libro perciò non è opportuno rovinare la sorpresa. Tuttavia si può senz’altro dire che le voci del libro riecheggiano, richiamandosi e susseguendosi una dopo l’altra, costruendo una trama in divenire e non “preconfezionata”. O meglio, l’autore avrà sicuramente costruito la sua trama, la sua storia ma lasciando al lettore il piacere di scoprirla nel corso della lettura, rivelando i legami tra i vari personaggi, le varie storie e le varie voci, pagina dopo pagina, e facendo in modo che sia il lettore stesso a coglierne tutte le interconnessioni e sfaccettature, solo al termine dell’opera.

A dispetto del contenuto, lo stile è scorrevole e leggero, per quanto non lo si possa apprezzare pienamente in una traduzione. Non manca quella che si spera essere solo una svista e non una perla di ignoranza della traduttrice:  “Lo dubito davvero.” … Ai futuri lettori trovare la pagina e il contesto.

Quanto al contenuto, chi conosce le precedenti opere di Hosseini, sa che non hanno ad oggetto favole leggere col lieto fine. E anche quest’ultima opera racconta di dolori, separazioni, tristezze, lacerazioni, amori impossibili e non solo le barbarie di un mondo lontano ma anche le disgrazie e le avversità che possono accadere a chiunque e dovunque, tanto che viene da chiedersi se l’autore non abbia un tantino esagerato.

Ma forse no, non ha esagerato. È recente la notizia di una sposa-bambina yemenita di otto anni morta dopo la sua notte di nozze con un quarantenne. È evidente che noi del mondo “evoluto” non sappiamo abbastanza delle vicende umane-troppo umane dei mondi altri, di consuetudini radicate che non possiamo non trovare barbare ed inumane e quindi inorridiamo sentendoci impotenti e magari azzardiamo un commento su Facebook, una condivisione o un emoticon tipo L,  per poi passare disinvoltamente ad altro.  E allora, anche se il racconto è crudo, se piove sempre sul bagnato, disgrazia dopo disgrazia, si può senz’altro “sopportare” la lettura di Hosseini, ringraziando il cielo per la nostra, in fondo, buona sorte e non da voyeristi “con sfumature sadiche di chi gode delle sciagure altrui”, come è stato scritto da altri autorevoli commentatori.

Si può quindi affermare che, nel complesso, la lettura di “E l’eco rispose” risulta coinvolgente e scorrevole allo stesso tempo.

Hosseini non tradisce dunque le aspettative dei suoi fedeli lettori. “Fidelizzazione” è termine utilizzato nel linguaggio del marketing e nel mondo degli affari ma non appare fuori luogo utilizzarlo, in senso ampio, anche nell’ambito della letteratura e delle arti in genere.  E non c’è niente di negativo nella “fidelizzazione” dei lettori o di chi fruisce di altre forme di arte, come la musica, la recitazione, la danza, la pittura, la scultura.

Per concludere, una citazione: “… e a che serve il rimpianto? Non ci restituisce niente del passato. Quello che è andato perduto è irrecuperabile.”

Che sia un invito a vivere il presente pienamente e, per quanto possibile, senza remore!

Mancarsi, Diego De Silva

di Antonella Sgueglia

mancarsi

Ognuno di noi, quando si innamora, scatta una diapositiva dell'altro che mantiene fervida ogni volta che dubitiamo del nostro rapporto. Appena pensiamo che vacilli, ecco che torna quell'immagine spensierata a rievocare ciò che ci ha colpito di quella persona. Da parte nostra invece abbiamo bisogno di certezze, di sapere che il partner ci ama non per una nostra qualità bensì per caratteristiche che ci distinguono dalla massa sicché appartengono solo a noi.

Irene, la protagonista femminile del libro, ha tenuto solida la sua diapositiva fino a quando ha compreso che il suo matrimonio era terminato.

Dall'altra parte, c'è Nicola un uomo che vive un matrimonio senza dialogo né interesse reciproco. Le sensazioni, le paure, le oppressioni sono omesse invece di urlarle in faccia. Nonostante l'ami profondamente, alla morte della moglie, Nicola si riprende il suo mondo, la sua vita, il suo sorriso che aveva confinato alla sola presenza della consorte.

Gli innamorati tendono a limitare la loro esistenza intorno al partner, ritenendolo ossigeno senza cui sarebbe impossibile respirare. Non ci si spinge verso l'esterno seppur lo si mira di nascosto con il magone che strugge nel ricordo dei divertimenti abbandonati per il timore di offendere l'altro.

Il messaggio dell'autore, a quanti vivono una situazione simile, è che non occorre arrivare al divorzio o, nel peggiore dei casi, al lutto per ritrovare se stessi; la chiave è non trascurare i nostri bisogni temendo di ferire il compagno e occorre fissarlo per tutta la durata di un rapporto, per mantenerlo saldo ed evitare fratture difficili da arginare benché ci si sforzi a capire l'errore e a non ripeterlo.

Nicola, nonostante il dolore per la perdita della moglie, decide di sorridere e di riafferrare la vita che aveva abbandonato dopo le nozze. Ma perché giungere alla fine di un traguardo per ritrovare la serenità, il piacere di un'uscita con gli amici o una chiacchierata innocente senza sentirsi in colpa? Siamo capaci di mantenere stabile il dialogo pur asserendo argomenti che l'altro vorrebbe glissare con un sorriso o una battuta infelice? Riusciamo a stabilire con certezza il concetto di appagamento con una data persona o ci definiamo felici solo perché suona bene e mentiamo a noi stessi? Diego de Silva ci fa riflettere su queste ed altre domande.

Lo stile ironico permette il compiacimento immediato dei personaggi. Ci piacciono subito Irene e Nicola, così imperfetti e restii nel mostrare i loro pensieri, quelli veri, quelli celati dietro ai silenzi, alla parvenza di perfezione che tutto sta andando alla meraviglia con dentro una rabbia che morde e consuma. I due ragazzi incarnano l'arrendevolezza ad un rapporto statico che non soddisfa più e non si sentono di appartenere, a cui però restano aggrappati con le unghie. Irene è la più forte perché saprà riprendersi il cammino non appena la molla scatta, invece Nicola attende l'assenza della moglie per capire quanto tempo ha avuto a disposizione, tempo di cui ha goduto poco o nulla. Entrambi sanno cosa vogliono da una relazione e possiedono i medesimi canoni, sarebbero perfetti se solo si incontrassero e se ciò dovesse accadere, siamo sicuri che sarebbero felici insieme? La felicità è volere le stesse cose o essere se stessi con chi sa apprezzarlo? Rifletteteci.

 


Mancarsi, Diego De Silva, Einaudi, euro 10,00

 

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