Se una notte d'inverno
La strada di Ilaria: un romanzo alla ricerca della verità sul caso Alpi
di Paola Rinaldi
Chi ha ucciso la giornalista Ilaria Alpi e il cameraman Miran Hrovatin il 20 marzo 1994 in un agguato a Mogadiscio, in Somalia? A distanza di due decenni, questa domanda rimane priva di una risposta certa.
È Francesco Cavalli, produttore televisivo e direttore del premio giornalistico a lei dedicato, che si occupa da anni del caso di Ilaria Alpi e che ha scritto questo romanzo proprio in occasione dei vent’anni dall’assassinio di Ilaria e Miran. In questo romanzo si intrecciano varie storie, tutte basate su informazioni e fatti ben documentati.
La strada dell’assassinio potrebbe essere quella che collega Garowe a Bosaso, costruita con i soldi della cooperazione italiana, costata 1400 miliardi. Ilaria in quei giorni l’aveva percorsa, e stava indagando su dove era finito quel denaro. Ma potrebbe essere anche un percorso ideale che collega nello spazio e nel tempo l’Italia e la Somalia, terrori legati da un passato coloniale e da traffici più recenti poco chiari sui quali Ilaria stava indagando. C’era in ballo anche un giro di rifiuti tossici e Ilaria lo sapeva. Aveva parlato con i notabili locali, che l’avevano messa in guardia: a parlarne rischi la vita.
Aveva paura, Ilaria? Forse sì, come chiunque. Ma la passione per il suo mestiere, la voglia di portare a galla la verità erano più forti di ogni timore. Ilaria non era una giornalista improvvisata. Era un’arabista, conosceva i Paesi e la cultura di cui scriveva, e conosceva la lingua, che aveva studiato all’università. La sua competenza l’aveva resa, appena trentenne, un’ottima inviata del Tg3. Era a Mogadiscio insieme a Miran per capire e raccontare, senza fermarsi di fronte a minacce e difficoltà.
“La strada di Ilaria” ricostruisce questa vicenda, che ancora attende giustizia, ed è frutto di diversi viaggi sul campo del suo autore.
"La strada di Ilaria" racconta i fatti sui quali lavoravano Ilaria Alpi e Miran Hrovatin e sulle ragioni della loro morte. Un caso scomodo, che è stato insabbiato velocemente per le tante implicazioni fra Italia e Somalia. Un caso che per la giustizia italiana non è ancora chiuso, ed è rimasto fino ad oggi senza responsabili. Traffici di armi e di rifiuti tossici, corruzione, misteri nello storico rapporto fra Somalia e Italia: una storia che deve essere raccontata, e che nella scelta stilistica volutamente non giornalistica, riesce a coniugare narrazione pura a informazione. E si fa ascoltare da tutti, adulti e ragazzi. Un romanzo rigoroso nelle informazioni e poetico nelle parole, che riesce a raccontare tante storie, unite tra loro dal filo sottile, ma vero e indispensabile, della verità e del rispetto della memoria.
“La strada di Ilaria” di Francesco Cavalli, Milieu Edizioni
“Nessuno sa di noi” di Simona Sparaco, Giunti Editore 2013
di Marina Brunetti
“Di una cosa sono convinto: un libro deve essere un’ascia per il mare ghiacciato che è dentro di noi” (F. Kafka, Da una lettera a Oskar Pollack, novembre 1903)
Nel linguaggio del corpo, quello inconscio e quasi impercettibile all’occhio umano, certi movimenti, una determinata postura, una caratteristica andatura, rivelano di noi più di qualsiasi curriculum o spicciola biografia parentale. Un’abilità sociale, allora, dovrebbe risiedere, per tutti, nell’osservare i piccoli e grandi drammi personali altrui con la grazia e discrezione di una pacata danzatrice, in punta di piedi, esattamente perché, nel linguaggio non verbale, a questa andatura corrisponde una velata insicurezza. Nel libro di Simona Sparaco, “Nessuno sa di noi”, la sospensione di ogni giudizio si autocrea come un imperativo, trattandosi di un argomento strettamente intimo e personale, che implica la più dolorosa e innaturale delle decisioni: quella di non far nascere il proprio figlio, vale a dire porre, ancora una volta, “dopo la Maraini e la Fallaci, un’altra donna di fronte al dolore più grande” (A. Rota, La Repubblica).
Definire la disperazione di una coppia ricorrendo al lessico più puro e ricercato, anche a voler scomodare i grandi nomi letterari, è qualcosa di intimo e inenarrabile, così come rendere al meglio il suo opposto, per citare Lev Tolstoj il quale, nell’incipit di “Anna Karenina”, ci ha ricordato che “… ogni famiglia infelice è infelice a modo suo”.
Potremmo forse dire che è sostanziata di vari fermo-immagine, o a volte solo uno. Luce è una donna che, come tante altre e come le fertili non sanno, ha pervicacemente cercato e voluto un figlio per cinque anni: “Ci sono desideri che nascono come piccole scintille […] se non vengono soddisfatti, però, rischiano di divampare in fiamme alte e pericolose” (ebook, pos.152), sottoponendo la sua vita di coppia a quella sorta di mesto rituale fatto di temperatura basale, di sesso a comando, di calcoli: “Eravamo prigionieri di uno stick” (ebook pos.115), con un fine che giustifica comunque i complicati mezzi messi in atto a conquistarlo, quello naturale di volere un figlio; “Ho giurato a me stessa che quella sarebbe stata l’ultima volta […] è stato questo l’istante esatto – ora lo so – in cui ho concepito nostro figlio”. C’è tutta la labilità della gioia nell’esordio del libro dell’autrice; Luce e Pietro immortalati nell’ambulatorio per fare una delle ultime ecografie in vista del parto: “Chissà perché sono sempre così insignificanti i pensieri, un attimo prima dell’impensabile” (ebook pos.29). Quello che segue, offrirà il fianco debole di Luce, quello che la Duras collocava tra l’anca e le costole a coprire gli organi delicati, alla falange sociale irriducibile e tenace di coloro che credono che occorra accettare la vita ad ogni costo, anche quando quella vita è imperfetta, destinata a un futuro incerto e menomato. Il bambino che deve nascere è affetto da un’anomalia genetica grave che non gli permetterebbe una vita normale, qualora riuscisse a sopravvivere; oltre la vertigine c’è una scelta da fare, portare avanti la gravidanza e far nascere un bambino con tutte le gravissime conseguenze del caso o interromperla volontariamente, oltre i limiti massimi concessi dalla legge relativa alla bioetica, interruzione che in Italia è vietata dalla stessa oltre la 22ma settimana di gestazione, anche in casi estremi e supportata da referti medici: “Non abbiamo idea di dove stiamo andando. Non ci sono segnali a indicarci la direzione, nessuna orma sul terreno. Eppure, abbiamo il privilegio di poter scegliere quale sentiero ignoto intraprendere, quale via imboccare verso il nulla” (ibidem, pos.715). Una decisione va presa, nonostante l’attonito mutismo, la cecità incurante del reale, la sordità a un insostenibile dolore: “Stanno aspettando una mia risposta, ma non so se riesco a sopportare un peso del genere. Mio figlio troppo debole per vivere e troppo potente per morire” (ibidem, pos.978).
Partono dunque alla volta di Londra, per essere di colpo traghettati verso un passo irreversibile dove la disperazione, quella vera, non ha il repertorio retorico delle frasi di circostanza, ma neppure dell’autoconvinzione assoluta, ha solo l’aspetto di casotto abbandonato, di una pancia oramai vuota. L’edificio deserto non ha in sé né comodità né arredi, potrebbe averne, ma li rifiuta. L’apparente afasia emotiva di Luce si scontra inevitabilmente con il necessario ritorno alla normalità messo in atto da Pietro, che si ostina a non capire e a non voler accettare questa deriva, senza data di scadenza, della compagna. L’elaborazione del lutto passa necessariamente attraverso la trascuratezza di sé e degli altri, armati unicamente di un solidale dispiacere che non colma, né può attingere alcunché ad un “pozzo abbastanza profondo in cui gettare anche questo”, per citare Sereni. Lorenzo, il bambino mai nato, non può passare sotto il silenzio imbarazzato di chi considera la scelta di questi genitori un’onta, una vergogna da nascondere, un incidente di percorso sottaciuto. L’interiorità di una donna, che accoglieva in sé la vita di cui è stata depredata, è un campo minato che desidera saltare in aria del tutto, per non dover più soffrire, o essere abbandonato per sempre, ma pur sempre pronto a saltare.
In uno stile privo di pietismo, la Sparaco offre più pause riflessive ai lettori, non solo sulla questione fondamentale che tratta e in cui il pubblico si spaccherebbe inevitabilmente tra innocentisti e colpevolisti: quale tipo di supporto hanno o possono auspicare, in Italia, le coppie coinvolte in simili dinamiche e, ancor peggio, prive dei mezzi economici di cui beneficiano i protagonisti? Perché l’impossibilità di avere un figlio deve rappresentare, in società, una colpa spesso penalizzata dallo scarso supporto medico e dalle restrittive misure di cui si è dotato un paese tradizionalmente cattolico, rimasto indietro di un secolo anche nella riflessione filosofica? Per quale ragione dovremmo moralmente giustiziare una coppia che sceglie di non mettere al mondo un bambino per gravissimi motivi di salute? Dovremmo convincerci che il senso di civiltà comincia e si sviluppa soprattutto nella solidarietà umana, e non nella ghettizzazione di chi fa scelte diverse dalle nostre, perché in fondo, in un verso o nell’altro: “Siamo tutti costantemente alla ricerca di una cura, una cura che ci stravolga, che ci cancelli persino, purché ci salvi. Che ci faccia tornare indietro o che ci spinga in avanti. Anche dopo aver sconfitto l’incurabile, torniamo tutti, prima o poi, alla ricerca di una cura” (ibidem, pos. 84). L’argomento è vasto, e talmente delicato che nessuno, prima della Sparaco, aveva scelto di trattarlo tra le pagine di un libro. Visto il suo successo e le numerose sue recensioni, è auspicabile che in esso si siano riflesse tante donne unite dal medesimo destino di Luce, quello della via smarrita e che molti altri lettori abbiano finalmente interiorizzato il proverbio indiano che dice: “Ogni volta che vuoi giudicare qualcuno, cammina per tre lune sui suoi mocassini”. Finalmente, dalle numerose crepe Luce, di nome e di fatto, lascia filtrare un po’ di sé, come direbbe Cohen, rendendosi consapevole del dolore sotterraneo del compagno.
Come sarebbe facile la vita se si potesse vivere solo un eterno presente, senza percezione della fine, quello stato che Borges definiva “immortalità”, la condizione di un cane, per esempio, che si accontenta delle briciole di affetto e si appiattisce sui ritmi di chi gli colma la ciotola. Abbiamo preteso l’evoluzione, una testa pensante, un cuore battente e questo implica una dose di dolore spesso insopportabile, a cavallo tra l’infanzia e l’età senile, che sono indubitabilmente “i due stati più profondi in cui ci è dato vivere. In essi si rivela la vera essenza di un individuo, prima o dopo gli sforzi, le aspirazioni, le ambizioni della vita […] Gli occhi del fanciullo e quelli del vecchio guardano con il tranquillo candore di chi non è ancora entrato nel ballo mascherato oppure ne è già uscito. E tutto l’intervallo sembra un vano tumulto, un’agitazione a vuoto, un inutile caos per il quale ci si chiede perché si è dovuto passare” (M. Yourcenar, Archivi del Nord, Einaudi). L’infanzia, anche nella vita di Luce, è un indelebile timbro di lacca rossa, il passato batte dentro come un secondo cuore, diceva Banville ne “Il mare” e non è più quello minuscolo di Lorenzo; i suoi ricordi di figlia latitano e, se vi sono, mischiano momenti in cui la madre si prende cura di lei a quelli in cui la stessa le chiede sempre qualcosa in cambio: “Murata in una solitudine diversa da quella degli altri bambini, mentre cova rancore e insoddisfazione nel tentativo di imitare l’unico modello disponibile” (ibidem, pos. 2289). Senza mai volerlo, le frustrazioni dei nostri genitori si infiltrano in noi, stillano il percolato con cui da adulti faremo i conti, armati dei soli denti di iena dei ricordi, un retaggio mitologico di problematiche venefiche.
Lorenzo, il bambino non nato, ha reso Luce madre per sempre. Da questo lei può ripartire, oltre il labirinto cupo, un passo alla volta, e tornare a respirare.
Recensione di “Nessuno sa di noi” di Simona Sparaco, Giunti Editore 2013
“L’utilità dell’inutile – Manifesto” di Nuccio Ordine
di Daniela Marras
A ottobre 2013 è uscita la seconda edizione italiana de “L’utilità dell’inutile – Manifesto” di Nuccio Ordine, dopo l’edizione francese sempre del 2013.
E’ stato subito successo e questo agile saggio si è imposto all’attenzione dei lettori senza sforzi pubblicitari.
Il testo, dopo un’introduzione accurata dello stesso autore, è suddiviso in tre parti: la prima “L’utile inutilità della letteratura”, la seconda “L’Università – azienda e gli studenti – clienti”, la terza “Possedere uccide: dignitas hominis, amore, verità”. Seguono una corposa bibliografia e, in appendice, un saggio di Abraham Flexner “L’utilità del sapere inutile”.
“L’utilità dell’inutile”: cosa si nasconde dietro questo apparente gioco di parole? E’ l’autore stesso a chiarire nell’introduzione “l’ossimoro evocato dal titolo”: egli vuole mettere al centro delle sue riflessioni “l’utilità di quei saperi il cui valore essenziale è completamente libero da qualsiasi finalità utilitaristica. Esistono” infatti “saperi fine a se stessi che – proprio per la loro natura gratuita e disinteressata, lontana da ogni vincolo pratico e commerciale – possono avere un ruolo fondamentale nella coltivazione dello spirito e nella crescita civile e culturale dell’umanità”. Prosegue l’autore precisando che egli considera “utile” “tutto ciò che ci aiuta a diventare migliori” anche se “la logica del profitto mina alle basi quelle istituzioni (scuole, università, centri di ricerca, laboratori, musei, biblioteche, archivi) e quelle discipline (umanistiche e scientifiche) il cui valore dovrebbe coincidere con il sapere in sé, indipendentemente dalla capacità di produrre guadagni immediati o benefici pratici”. L’autore precisa poi che nella fase di crisi economica e finanziaria che stiamo vivendo “non c’è riunione politica o vertice dell’alta finanza in cui l’ossessione dei bilanci non costituisca l’unico punto all’ordine del giorno”. Ecco quindi che “in questo brutale contesto, l’utilità dei saperi inutili si contrappone radicalmente all’utilità dominante che, in nome di un esclusivo interesse economico, sta progressivamente uccidendo la memoria del passato, le discipline umanistiche, le lingue classiche, l’istruzione, la libera ricerca, la fantasia, l’arte, il pensiero critico e l’orizzonte civile che dovrebbe ispirare ogni attività umana”. “Il sottotitolo – Manifesto – potrebbe sembrare sproporzionato e ambizioso se non fosse giustificato dallo spirito militante che ha costantemente animato questo... lavoro” di Nuccio Ordine. E, se la distinzione tra una scienza speculativa e disinteressata e una scienza applicata era già presente tra i pensatori greci, Ordine chiarisce, con spirito propositivo, che “il sapere si pone di per sé come un ostacolo al delirio d’onnipotenza del denaro e dell’utilitarismo. Tutto si può comprare, è vero. Dai parlamentari ai giudici, dal potere al successo: ogni cosa ha il suo prezzo. Ma non la conoscenza”, continua l’autore con tono sferzante, sempre nella presentazione.
Quanto sopra esposto chiarisce lo spirito che anima il saggio e l’ambito speculativo di Nuccio Ordine.
Già nelle prime pagine della prima parte, “L’utile inutilità della letteratura”, l’autore chiarisce che la letteratura appunto, così come gli altri saperi umanistici e come anche i saperi scientifici liberi da un immediato scopo utilitaristico, possono porsi come “forma di resistenza agli egoismi del presente, come antidoto alla barbarie dell’utile” richiamando “l’attenzione sulla gratuità e sul disinteresse, valori ormai considerati controcorrente e fuori moda”. Seguono diverse citazioni letterarie e filosofiche a difesa dell’inutile, da Dante e Petrarca a Kant, Platone, Aristotele, e ancora Montaigne, Ovidio, Leopardi, Boccaccio, Ionesco, Calvino, Heidegger e altri. Tra le varie citazioni, Ordine riporta anche le parole provocatorie e radicali di Théophile Gautier secondo il quale “veramente bello è soltanto ciò che non può servire a nulla; tutto ciò che è utile è brutto, perché è l’espressione di un determinato bisogno, e i bisogni dell’uomo sono ignobili e disgustosi, come la sua povera e inferma natura. Il luogo più utile di una casa è il cesso”.
Nella seconda parte, “L’Università – azienda e gli studenti – clienti”, l’autore evidenzia i limiti della riforma italiana del mondo scolastico e accademico che ha visto il nascere delle “università – aziende” e dei “professori – burocrati” da un lato e degli “studenti – clienti” dall’altro, limiti che sono o dovrebbero essere evidenti se si considera che, in quest’ottica, il compito degli istituti secondari e degli atenei è “soprattutto quello di produrre diplomati e laureati da immettere nel mondo del mercato” e ovviamente, chi più sforna, chi più produce, più è competitivo e più viene premiato con finanziamenti ad hoc mentre chi meno produce è soggetto a sanzioni. Tra le varie citazioni di questa parte, particolarmente fuori moda di questi tempi sono le parole di Antonio Gramsci, nel 1932, a difesa dello studio del latino e del greco: “Non si imparava il latino e il greco per parlarli, per fare i camerieri, gli interpreti, i corrispondenti commerciali. Si imparava per conoscere direttamente la civiltà dei due popoli, presupposto necessario della civiltà moderna, cioè per essere se stessi e conoscere se stessi consapevolmente”. Questa seconda parte si conclude col capitoletto “La conoscenza è una ricchezza che si può trasmettere senza impoverirsi”: “anzi, al contrario, arricchendo chi... trasmette e chi... riceve” il sapere appunto, conclude l’autore.
La terza parte “Possedere uccide: dignitas hominis, amore, verità” è quella più propositiva, è, per così dire, la vera e propria pars construens del saggio. Nuccio Ordine non si limita infatti alla critica pesante dell’etica utilitaristica, materialistica e consumistica ma indica anche tre valori o tre aree di valori lasciando spazio ai classici proprio in tema di “dignitas hominis”, “amore” e “verità”. L’autore evidenzia che “spetta alla letteratura fornire un antidoto al fanatismo e all’intolleranza” e aggiunge che “chi è sicuro di possedere la verità non ha più bisogno di cercarla, non sente più la necessità di dialogare, di ascoltare l’altro, di confrontarsi in maniera autentica con la varietà del molteplice. ... Ecco perché il dubbio non è nemico della verità, ma è stimolo continuo alla ricerca di essa. ... la pluralità delle opinioni, delle lingue, delle religioni, delle culture, dei popoli, deve essere considerata come un’immensa ricchezza dell’umanità e non come un pericoloso ostacolo”.
Il saggio, anche per la felice scelta del carattere tipografico, è scorrevole e agile benché ricco di citazioni erudite che tuttavia non ne inficiano la fluidità e il successo finora riscosso da quest’opera è senz’altro meritato.
L’intento di Nuccio Ordine è pienamente condivisibile ed encomiabile e le sue parole potrebbero illuminare – è auspicabile - anche chi decide per noi: esse possono essere infatti occasione di riflessione e punto di partenza per un approfondimento e un dibattito di cui, ovviamente, non si potrebbe dar conto in una breve e “inutile” recensione. Tuttavia, pur tenendo a mente le parole di Gautier sopra riportate, si potrebbe osservare che coltivare l’Arte per l’Arte, l’“inutile” per l’“inutile”, appare più agevole se i bisogni primari dell’uomo sono soddisfatti, vale a dire se non ci si deve, purtroppo – data la nostra natura -, preoccupare di cose “utili” e materiali come il cibo, la casa, il lavoro e... sì, anche... “il luogo più utile di una casa”.
“L’utilità dell’inutile – Manifesto” di Nuccio Ordine – Bompiani 2013
“Ragazze mancine” – Stefania Bertola
di Eleonora Mammana
Una giovane donna sta piangendo nella sua Panda parcheggiata davanti all’autogrill di Novara Est quando una ragazza piombatale in macchina con una bambina in braccio le intima di partire immediatamente.
Così inizia l’ultimo, esilarante romanzo di Stefania Bertola.
I destini di due donne diametralmente opposte si incrociano portando entrambe a cambiare la loro personale visione della vita. Adele, 32 anni, laureata in Lettere, non ha mai lavorato e ha sposato un ricco imprenditore biellese con l’unico scopo di esserne mantenuta per potersi dedicare alla cultura, o al “piacere di studiare”, come dice lei. Una mattina, però, si sveglia e si scopre senza più un marito, “povera come la pece” e con un grosso cane. L’uomo, infatti, in bancarotta, è fuggito all’estero con l’amante, lasciando la moglie senza un soldo e con il cane della nuova fidanzata.
Eva, 28 anni, è andata via di casa a 17, ha una bambina di un anno, di padre incerto, è abituata ad accettare ogni sorta di lavoro per sopravvivere e da quando ha trovato un medaglione su una spiaggia pensa di esserne protetta dalla cattiva sorte.
Tanto Adele è abituata a dipendere dagli altri quanto Eva ha sempre contato solo sulle proprie forze.
Eppure, questi due mondi così differenti si incontrano e imparano, loro malgrado, a convivere.
Proprio quando Adele, infatti, sta cercando di liberarsi del cane portandolo in un canile, Eva sta fuggendo dall’autogrill in cui una donna l’ha fermata sostenendo, a ragione, che il medaglione che porta al collo le appartenga. È così che le due ragazze si scontrano e in men che non si dica si trovano a condividere una casa, qualche lavoretto, una bambina e un cane. A rendere la faccenda ancora più interessante, poi, ci pensano due fratelli, assoldati dalla madre, la donna dell’autogrill, affinché le recuperino il ciondolo di cui sopra, attorno al quale si snoda tutta la vicenda.
Insomma, l’intreccio, ambientato a Torino, è un turbinio di situazioni improbabili, equivoci e colpi di scena in cui prendono vita personaggi che sembrano caricature: il pianista dongiovanni dalla doppia identità, l’imprenditore tutto dedito al lavoro, il conte fedifrago incapace di sopravvivere senza la moglie, avvocato divorzista in carriera, la snob, avida e un po’ isterica, nota studiosa di poetesse serbe ma segreta ammiratrice dei romanzi rosa.
Lo stile di Stefania Bertola è inconfondibile: frizzante, ironico, a tratti umoristico. Spassosissime certe esclamazioni della proprietaria del gioiello, la studiosa: “Perché sei un deficiente, un idiota, sei un cretino come e più di tuo fratello, siete un branco d'inutili imbecilli e se lo sapevo mi facevo sterilizzare a quattordici anni!” (cap. Prendi e taci).
E poi è impossibile non immedesimarsi ora in Adele, ora in Eva. Chi non ha desiderato almeno una volta nella vita, come Adele, di potersi dedicare alle proprie passioni senza preoccuparsi di lavorare? Chi, del resto, al contrario, più spesso di quanto avrebbe voluto, non ha fatto il conto, come Eva, di quanto si può risparmiare facendo la spesa al discount?
Ma ciò che rende ancora più apprezzabile questo romanzo è la capacità di trattare con grazia e leggerezza temi quali la precarietà del lavoro e l’imprevedibilità della vita. E per di più, riesce a trasmettere un buon insegnamento: ci si può, e ci si deve, rimettere in gioco anche a trent’anni. Perché a volte “Succede qualcosa che scompagina la nostra vita, e invece di cercare di rimetterla insieme esattamente com'era prima, forse conviene accettare la rottura, buttare i pezzi, e provare una vita nuova. Altrimenti sei come quelli che quando si rompe una bellissima tazza di porcellana la aggiustano con l’Attak.” (cap. Mark Ryden).
Un libro da leggere tutto d'un fiato, per rilassarsi, divertirsi e, perché no?, per riflettere un po’ sul nostro modo di vedere la vita.
“Ragazze mancine” – Stefania Bertola, Einaudi - 2013
“L’egoismo è inutile – Elogio della gentilezza” di George Saunders
di Daniela Marras
Recentissima, del mese di aprile 2014, è l’edizione italiana del libro “L’egoismo è inutile – Elogio della gentilezza” di George Saunders.
Si tratta di un agile volumetto che l’autore dedica alla memoria dei suoi nonni e che riporta un discorso tenuto da Saunders ai laureandi della Syracuse University l’11 maggio 2013 (discorso il cui titolo è lo stesso dell’intera opera nella versione italiana); riporta altresì un breve saggio, “L’uomo col megafono”, originariamente pubblicato in Italia nel 2009 sempre dalla casa editrice minimum fax col titolo “Il megafono spento. Cronache da un mondo troppo rumoroso” e, infine, un’intervista all’autore.
Dopo l’indice, seguono i “Titoli di coda”, due simpatiche paginette in cui sono riportati nomi e cognomi di chi, a vario titolo (compresi i correttori di bozze), ha collaborato alla realizzazione del libro di cui si tratta.
Il primo scritto riproduce, come dice l’autore, il discorso di “un vecchio barbogio, con gli anni migliori alle spalle, che durante la sua vita ha commesso una serie di errori tremendi (sarei io)” il quale, sempre con le parole dell’autore, “offre un consiglio di cuore a un gruppo di splendidi e gagliardi giovani che hanno davanti tutti gli anni migliori (sareste voi)”.
L’autore indica subito “una cosa utile” che si può fare con un anziano e che consiste nel chiedergli: “Se guardi indietro, che cosa ti dispiace?”. Saunders, con tono ironico, dapprima indica alcuni episodi poco piacevoli accaduti nel suo passato ma di cui non si rammarica per poi arrivare a una vicenda “vecchia” di quarantadue anni, risalente alla seconda media, che lo ha portato a realizzare che prova dispiacere per le volte in cui egli non è stato gentile. Capovolgendo la domanda, chiede: “Nella vita, chi ricordate con più affetto, con più innegabile simpatia?” per rispondere: “Le persone che sono state più gentili con voi, scommetto”. Ed ecco quindi il suo suggerimento: “nella vita, non sarebbe un’idea malvagia cercare di essere più gentili”. L’autore ritiene che riuscire in questo intento non sia facile perché “ognuno di noi viene al mondo con una serie di equivoci congeniti che probabilmente sono di origine darwiniana. Ovvero: (1) noi siamo al centro dell’universo (cioè, la nostra storia personale è la più importante e la più interessante, anzi, l’unica che conti); (2) noi siamo separati dall’universo (ci siamo noi, e poi, laggiù, tutto l’ambaradan: cani, altalene, lo Stato del Nebraska, le nuvole basse e, ovviamente, gli altri); (3) noi siamo eterni (la morte esiste, sì, bene: per te, ma non per me). L’autore chiarisce che “noi non crediamo davvero a queste cose – a livello razionale sappiamo che non sono vere – ma a livello viscerale ci crediamo, e campiamo di queste cose, che ci spingono ad anteporre i bisogni personali ai bisogni degli altri”. Saunders ritiene che essendo la gentilezza variabile, essa sia anche migliorabile: non coincide con la cortesia “(una strategia per non lasciarsi coinvolgere)” ma viene considerata, come chiarisce l’autore nell’intervista, come una “virtù preliminare” da contrapporre alla aggressività e alla conflittualità dell’ “Io contro il Mondo” o del “Noi contro Loro” che caratterizzano anche la nostra società. Sempre nel corso dell’intervista, Saunders espone “un concetto buddista molto bello: non si può coprire di tappeti tutto il pianeta, ma si possono indossare scarpe morbide. E cioè: se uno tiene in buone condizioni la propria mente, cresce anche la sua capacità di cambiare il mondo” e “se una persona è stata più fortunata delle altre e, usando il tempo e la libertà che ciò le mette a disposizione, scopre qualcosa che contribuisce a renderla più completa e più serena, allora parte della sua ‘missione’ dovrebbe essere portare fino in fondo quel percorso: perfezionarsi in quella cosa (che sia la scrittura, lo yoga, la scienza dell’alimentazione o una qualche pratica spirituale) e, così facendo diventare un esempio, un modello, e contribuire a diffonderla”. Ecco un suggerimento che appare pienamente condivisibile e varrebbe la pena cogliere e fare proprio, ciascuno trovando e indossando il suo paio di “scarpe morbide”.
Il saggio “L’uomo col megafono” venne scritto durante l’era di Bush ma risulta ancora attuale nella “situazione politica in Italia”, come si chiarisce nell’intervista. In esso, l’autore, con ironia pungente, prende di mira “un fenomeno tanto interessante quanto deprimente: i media seguono il denaro, e poi le idee politiche della gente seguono i media”. “Il presupposto da cui muovono i nostri mass media è ormai la necessità del profitto. Questo presupposto è stato spogliato da ogni implicazione morale... Perché il discorso aggressivo, ansiogeno, patetico, conflittuale sia più redditizio del suo contrario è un mistero... In ogni caso, quelli che in passato si chiedevano: ‘E’ una notizia?’ ora sembrano chiedersi: ‘Farà colpo?’... Seguono pagine efficaci sulle connessioni tra la logica del profitto e il mondo dell’informazione e anche della politica, correlazione che “sta trasformandosi sempre più in un sistema chiuso, che taglia fuori il cittadino”. “Esiste un antidoto?” si chiede Saunders. Ecco la sua risposta: “consapevolezza e messa in discussione della tendenza Megafonica. Ogni ben ponderata confutazione del dogma, ogni barlume di logica intelligente, ogni riduzione all’assurdo della prepotenza è l’antidoto”. E la gentilezza? Saunders chiarisce, nel corso dell’intervista in merito a questo secondo saggio, che essa “non è affatto una virtù debole”, come si era portati a pensare nell’America reaganiana e come ancora si pensa nella società dei giorni nostri, essa “è quella più difficile, quella che richiede maggiore forza e sicurezza”, basti pensare “a degli esseri umani straordinari come Buddha, Gesù, Lincoln, Gandhi, Madre Teresa... personaggi incredibilmente forti e coraggiosi”.
Non siamo e non possiamo essere tutti Madre Teresa o Buddha ma, come sopra detto, possiamo “tenere in buone condizioni” la nostra mente e dare spazio all’amore, al senso dell’umorismo, alla solidarietà, alla gentilezza che Saunders, pur se “schifato ed entusiasta” allo stesso tempo (la domanda dell’intervistatore era in tema di social network), ritiene siano “cose” che abbiamo dentro di noi e che esse possano trovar modo di manifestarsi pure nel mondo virtuale.
Come già detto, il libro è un volumetto dalle dimensioni contenute e dalla lettura agevole, ricco di ironia e autoironia, che apre al sorriso e alla riflessione allo stesso tempo. Del resto, come dice Saunders, “perché l’arte dovrebbe comportarsi come se non ci importasse di niente, o come se fosse tutto uguale?”.
“L’egoismo è inutile – Elogio della gentilezza” di George Saunders – Minimum Fax 2014
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