Se una notte d'inverno

Se una notte d'inverno un viaggiatore

di Jessica Ferro

DI ITALO CALVINO

calvinoStai per cominciare a leggere il nuovo romanzo “Se una notte d'inverno un viaggiatore” di Italo Calvino. Rilassati. […] Lascia che il mondo che ti circonda sfumi nell’indistinto. La porta è meglio chiuderla; di là c’è sempre la televisione accesa. […]”. Pubblicato nel 1979 da Einaudi, il libro narra una storia che già dall’incipit cattura la nostra attenzione, poiché le parole sono invitanti, curiose e ci spiazzano, perché non sappiamo ancora di preciso chi sta parlando con chi. E questo non certo perché Calvino sia un autore difficile, tutt’altro, poiché la sua scrittura è sempre stata molto moderna, asciutta e ricca di originalità, sia nello stile che nei temi trattati.

La storia è scorrevole ed incalzante sin dalle prime pagine, ed anche se all'inizio potrebbe sembrare complicata, poi si capisce che siamo in presenza di una storia nella storia. Infatti, il protagonista è il Lettore che sta leggendo un romanzo (intitolato Se una notte d'inverno un viaggiatore), ma che per varie ragioni (come gli errori di stampa e di impaginazione) è costretto ad interrompere. Nella ricerca delle pagine che dovrebbero continuare la storia incontra una Lettrice che ha avuto il suo stesso problema nella lettura del romanzo. Entrambi si troveranno a leggere dieci incipit di libri diversi che non hanno nulla a che fare con la storia di partenza.

In sostanza si tratta di un metaromanzo, un romanzo che parla di sé, in cui la storia che fa da cornice è quella tra il Lettore e la Lettrice che sono alla ricerca del loro romanzo, mentre parallelamente i dieci incipit, i dieci brani incompiuti sono situati all’interno di questa cornice. È un espediente originale per parlare del piacere della lettura, in primo luogo, che nel primo capitolo è descritto minuziosamente attraverso i gesti che ognuno di noi, o perlomeno gli amanti dei libri come me, compie quasi ‘ritualmente’ quando si accinge ad aprire un libro:

“[...] Distendi le gambe, allunga pure i piedi su un cuscino […] Regola la luce in modo che non ti stanchi la vista. Fallo adesso perché appena sarai sprofondato nella lettura non ci sarà più verso di smuoverti. […] Cerca di prevedere ora tutto ciò che può evitarti d’interrompere la lettura. [...]”.

La trovata che esprime qui tutta la genialità di Calvino è l’aver messo al centro della narrazione il lettore, cioè noi, ossia la persona che di solito ne sta fuori, perché si trova fisicamente al di là del testo. Questo ci catapulta direttamente nella storia, come se l’autore ci prendesse per un braccio e ci scaraventasse dentro il suo libro. Leggendo ci sentiamo quasi osservati, sentiamo la voce dello scrittore che ci spinge nella direzione da seguire, pagina dopo pagina, sguardo dopo sguardo. Lo trovo un modo assolutamente spaesante, nel senso positivo del termine, per trasportarci in una dimensione ‘altra’, diversa dalla realtà, cosa che succede frequentemente quando ci appassioniamo ad un romanzo. Penso che sia proprio questo il motivo per cui amiamo leggere, ma anche per il fatto che in seguito si sviluppa quel senso di solidarietà tra lettori che ci fa discutere uno con l’altro di questo o quel particolare, di quel romanzo ancora non letto o di alcune sensazioni ed emozioni provate in quel determinato punto (“Cosa c’è di più naturale che tra Lettore e Lettrice si stabilisca tramite il libro una solidarietà, una complicità, un legame?” si dice ad un certo punto nel secondo capitolo).

L’amore per la lettura, protagonista assoluta, viene descritto anche come uno scontro, creativo aggiungerei, tra due mondi: quello reale in cui viviamo e quello immaginario del libro, i quali si intersecano inevitabilmente per scambiarsi piaceri ed impressioni:

Leggere è questo: c’è sempre una cosa che è lì, fatta di scrittura, un oggetto solido, che non si può cambiare, e attraverso questa cosa ci si confronta con qualcos’altro che non è presente, che fa parte del mondo immateriale, invisibile, immaginabile […] leggere è andare incontro a qualcosa che sta per essere e ancora nessuno sa cosa sarà [...]”. Il mistero che aleggia tra queste righe è lo stesso che ci pervade quando scegliamo un libro, quando cioè avviene l'incontro tra i due mondi, e continua fin tanto che i nostri occhi non scorrono le parole fino all’ultima pagina.

Come esiste l’amore, però, esiste il suo corrispettivo, che in questo caso non è l’odio, ma forse il disinteresse verso la lettura, una critica che si cela, velata e sottile, a pag. 90 del romanzo:

“[...] il mondo di quelli che hanno a che fare coi libri professionalmente è sempre più popolato […] si direbbe che quelli che usano i libri per produrre altri libri crescono di più di quelli che i libri amano leggerli e basta. [...]”.

Il fulcro del testo è qui, la sintesi perfetta di ciò che accade oggi, perlomeno in Italia: si scrive tanto, ma si legge pochissimo. Questo libro è sì rivolto a chi già ama leggere, ma soprattutto credo vada considerato come un invito a chi questo non lo fa spesso o per nulla. Spesso la lettura è vista come un atto di fatica, noioso di per sé, ma bisognerebbe provare, almeno per una volta, ad astrarsi dall’atto fisico, e prendere un libro anche a caso per tuffarsi all’interno delle pagine, per vedere cosa succede. I libri sono creatori di molteplici storie, poiché quelle scritte possono trasformarsi in quelle che viviamo e viceversa (se crediamo nella loro magia), c’è uno scambio vitale ricchissimo nella lettura, ma io sono di parte (e forse poco obiettiva) su questo argomento, anche se credo fermamente che essa svolga un ruolo basilare nella crescita personale di ognuno di noi. La lettura libera la mente, come la scrittura e la musica, e se pensiamo che il libro possa essere “l’equivalente del mondo non scritto tradotto in scrittura”, allora possiamo davvero volare e capire le infinite possibilità che essa ci offre.

Anche noi stessi, però, possiamo contribuire alla ricchezza della nostra lettura, poiché, come nella vita, noi vi trasferiamo le nostre esperienze passate e mettiamo del nostro in quest’attività, così come portiamo noi stessi nelle esistenze delle persone che incontriamo:

Ma come stabilire il momento esatto in cui comincia una storia? […] la prima riga della prima pagina d’ogni romanzo rimanda a qualcosa che è già successo fuori dal libro. […] Le vite degli individui formano un intreccio continuo ed ognuno porta con sé un tessuto di fatti, ambienti, persone […] dall’incontro deriveranno altre storie che si separeranno dalla loro storia comune [...]”. Una storia che moltiplica le storie, la molteplicità, le infinite possibilità della lettura: è quello che ci vuole comunicare Calvino lungo tutto il romanzo.

L’ultimo capito si sviluppa come una sorta di elenco di lettori tipo che interagiscono con il Lettore, segno che ognuno di noi è sempre alla ricerca di un qualcosa di speciale, anche nel mondo non scritto:

“[...] d’ogni libro non riesco a leggere che poche pagine, ma quelle racchiudono per me interi universi […] la mia lettura non ha mai fine: leggo e rileggo cercando la verifica d’una nuova scoperta tra le pieghe delle frasi […] a ogni rilettura mi sembra di leggere per la prima volta un libro nuovo, ne ricavo impressioni diverse e inattese. Sarò io che continuo a cambiare e vedo nuove cose di cui prima non m'ero accorto? […]”.

Si, è così che succede: si legge per curiosità e si finisce per cambiare, per approfondire, per viaggiare.

Il settimo tipo di lettore, però, esprime più di altri il nocciolo di ciò che spiegavo prima, ossia:

Per me invece è la fine che conta, ma la fine vera, ultima, il punto d’arrivo a cui il libro vuole portarti […] anch'io cerco degli spiragli, ma il mio sguardo scava tra le parole, negli spazi che si estendono al di là della parola ‘fine’ [...]”. Oltre la parola data, scritta, il paesaggio continua e si estende, e vi è un passaggio dal libro a noi che abbiamo cercato di interpretarlo e di coglierne il senso più profondo. Noi siamo creatori insieme allo scrittore, sembra volerci dire questo ultimo lettore, di quello che avviene nel libro, perché le frasi, insieme agli spazi bianchi, ossia il non detto, ci consentono di completare quello che l’autore vorrebbe esprimere con il suo testo, infatti il settimo lettore chiede al protagonista: “Lei crede che ogni storia debba avere un principio e una fine?”. Per qualcuno forse sì, per altri no, non c’è una risposta giusta e una sbagliata, perché la scelta è libera, ma sta di fatto che una certezza esiste:

Ciò che c’è (nel mondo reale) sente oscuramente il vuoto nella propria incompletezza”, quello che ci manca, quindi, lo possiamo trovare nei libri, un giorno, magari per caso.

 

Una donna d’altri tempi che sa parlare di noi, donne eccellenti...

di Fausta Genziana Le Piane

lepianeConoscete Barbara Pym? Sono sicura di no, eppure se è così perdete una scrittrice di prim’ordine.

Barbara nacque nel 1913 e morì, nubile, nel 1980. Passò parte della guerra all’ufficio censura della corrispondenza con l’estero, e parte in divisa di ausiliaria; per un certo periodo fu di stanza a Napoli. In seguito lavorò all’International African Institute, fra l’altro come redattrice del giornale antropologico “Africa”. Scrisse dieci romanzi, sei dei quali uscirono fra il 1950 e il 1961, e gli altri fra il 1977 e il 1981.

Provate a leggere “Donne eccellenti” (La Tartaruga Edizioni, 1996, con prefazione di Masolino D’Amico) e vi renderete conto che la Pym è stata definita, a ben ragione, la Jane Austen dei nostri tempi.

La protagonista, Mildred, è impiegata a mezza giornata presso il “Centro per la tutela delle gentildonne anziane”, è una single che difende la sua indipendenza (“esistenza che mi sono fatta da sola a Londra”, “il matrimonio non è tutto”, “il matrimonio non è sempre rose e fiori”) considerato poi che “ciascuno dei due sessi ha difficoltà a capire l’altro” (p. 136) e che dimostra grande conoscenza del genere umano, dagli uomini definiti egoisti ed “eterni bambini” alle donne, incomprensibili, che spesso dimenticano le loro incombenze casalinghe per coltivare i propri ideali. Mentre gli uomini “che non sono affatto indifesi e patetici come talvolta piace immaginare alle donne” (p. 204), sono costretti a occuparsi di tutto, devono cucinare e lavare i piatti... sono stremati (p. 57). I costumi infatti cambiano e.. Che cosa fanno le donne che non si sposano? Stanno in casa con un genitore anziano e si occupano dei fiori, almeno così facevano un tempo, ora però è più probabile che lavorino, facciano carriera e vivano in un monolocale o in una pensione...” Considerazioni di una lungimirante realtà...

Quale è la donna eccellente? È Mildred, figlia di ecclesiastico, che non deve sposarsi poiché la vita è già abbastanza difficile senza questi propositi allarmanti: “Ti ho sempre creduta così equilibrata e assennata, una donna davvero eccellente. Mi auguro che tu non stia pensando al matrimonio”, è quello che le dice nel corso di una cena il suo amico William. Mildred è sempre pronta ad aiutare gli altri e a farsi carico dei loro problemi.

È in fondo la pacata e profonda saggezza, una lezione di buonsenso ed equanimità (se il matrimonio non funziona “le colpe sono sempre di entrambi”, p. 196) che emerge dalla scrittura della Pym, sempre limpida ed equilibrata, e dalla sua visione della vita in cui ognuno è felice stando al proprio posto nel rispetto della posizione sociale e dei sentimenti degli altri.

Il modello femminile che propone è quello di una donna emancipata che si dedica talmente al suo lavoro – la protagonista è un’antropologa – da dimenticare le faccende domestiche: “Ora sono costretto a occuparmi di tutto, devo cucinare e lavare i piatti...sono stremato” dice il marito, Rocky, esempio antesignano di parità... Questo modello assumerà sempre più importanza anche se ancora: “appartenevano a quella generazione di uomini che non pensa di dover contribuire ai lavori domestici (p. 217)”.

La capacità di introspezione psicologica, accompagnata da una vivace ironia, è lo sguardo che la protagonista porta sugli altri, è la penetrazione di osservazioni dei vizi e delle virtù di uomini e donne: “Le coppie sono così abituate a chiamarsi “caro” e “cara”, che non si accorgono di quanto suoni falso quando sono arrabbiati o annoiati” (p. 57).

Fa piacere scoprire che l’autrice è una fine conoscitrice di “languide sciocchezze” di Christina Rossetti o Matthew Arnold o Omar Khayyam o Keats:

“Meglio che tu dimentichi e sorrida

che non che tu ricordi, e t’intristisca...”

oppure

poco conoscer è cosa pericolosa

bevi a fondo, o non toccar dalla sorgente Pieria

oppure

“Sì! Isolati nel mare della vita,

Con abissi echeggianti tra di noi,

Pulviscoli nel liquido deserto senza sponde,

Noi, milioni di mortali, viviamo SOLI”

conoscenza che lascia intravedere la grande cultura posseduta da Barbara che era infatti laureata in Lingua e Letteratura Inglese a Oxford.

Infine è da notare che, su tutto, troneggia la metafora del thè: è vero che si tratta di un’abitudine tutta britannica, ma è anche vero che è il momento nel libro della resa dei conti, dell’assunzione di responsabilità e consapevolezza, delle grandi decisioni.

I Promessi sposi, la Passione e il gatto che non voleva stare solo

di Eleonora Mammana

Massimo Brusasco

Lineadaria Editore, Biella 2015

 

n,Di prassi, quando si scrive la recensione di un libro, si parte da una breve sinossi per poi fornire una valutazione complessiva dell’opera. In questo caso, invece, vorrei iniziare esprimendo il mio giudizio sull’autore. Ho avuto, infatti, l’onore di leggere questo testo per la prima volta quando ancora era un manoscritto in valutazione, peraltro privo di finale, e sono rimasta davvero colpita dall’abilità di questo scrittore. Mai, infatti, mi era capitato tra le mani un inedito che non necessitasse di un, se pure lieve, lavoro di editing: solo qualche svista di poco conto e alcuni errori di battitura. Per il resto, un testo assolutamente impeccabile in termini di organizzazione dell’intreccio, complesso per la quantità di “attori” implicati, ma assolutamente coerente; per lo stile, caratterizzato da dialoghi incalzanti ed esilaranti; per il linguaggio, allusivo e pregno di buffi giochi di parole (“Preghiamo per il nostro fratello, ma anche per il fratello del nostro fratello e sua cognata, che è moglie del fratello”, pag. 5). Nulla, poi, sembrava lasciato al caso, dalla scelta dei nomi dei protagonisti, Bertone, Bertino e Bertana, ai riferimenti ai Promessi Sposi, che si rispolverano sempre volentieri; dall’omaggio alla Passione di Sordevolo, all’anniversario dei duecento anni dalla sua prima rappresentazione (per chi non ne avesse mai sentito parlare, il più grande spettacolo corale in Italia interpretato da attori dilettanti, dedicato alla Passione di Cristo), agli intrighi che intrecciano le vicende dei vari personaggi e che solo nelle ultime righe dell’ultima pagina si svelano, tenendo il lettore con il fiato sospeso fino alla fine. (Vi lascio immaginare, pertanto, l’impazienza che ho provato nell’attendere di ricevere la conclusione del romanzo!)

Ma veniamo ora al contenuto del libro: Barlume di Sotto, un fantomatico paesino di montagna di quattro anime, rischia l’estinzione a causa dei frequenti suicidi che vi si verificano. Per di più, essendo privo di ogni servizio, dalla farmacia al medico alla banca, i suoi cittadini non hanno grandi motivi per rimanervi e i forestieri non ne hanno affatto per recarvisi. Come se non bastasse, da tempo, ladri e truffatori si prendono gioco della sua ingenua popolazione, in particolare della povera, anziana, Luigina. Quando anche il prete, essendo stato rapinato, decide di lasciare la cittadella, a Bertone, il sindaco del paese, disperato giunge, però, una notizia che gli infonde nuova speranza: Sordevolo, un paesino del Piemonte altrimenti sconosciuto esattamente come Barlume, è diventato famoso grazie allo spettacolo che ogni cinque anni vi si rappresenta, la Passione di Cristo. Bertone, perciò, decide, dopo essersi recato con il vicesindaco Bertino e con il professor Bertana a vedere di persona questa grande messinscena, di fare qualcosa di simile anche nel suo paese, per farlo conoscere e ripopolarlo. Non volendo, però, rappresentare qualcosa di cruento, decide, su suggerimento del professore, di trasporre I promessi sposi, facendone stravolgere la trama per privarla di qualunque elemento negativo, con l’intento di trasmettere messaggi esclusivamente e inequivocabilmente positivi. Bertone, infatti, non conoscendo affatto l’opera manzoniana, ritiene che la peste sia un elemento troppo negativo e che “bravi che non sono bravi”, l’Innominato che rapisce la casta Lucia e una monaca non proprio proba siano personaggi troppo ambigui per una comunità come quella di Barlume, “semplice, devota” e che “non capirebbe certe cose”.

Così iniziano le rassegne stampa, la raccolta fondi, il casting (scena spassosissima, da pag. 133), e si sceglie una testimonial d’eccezione per promuovere l’evento, Angela Lansbury, la protagonista de La signora in giallo, che tutto il paese segue con dedizione. Per contattare l’illustre signora, naturalmente, si susseguono altri comici equivoci. Verrà, infatti, ingaggiato un barlumese trasferitosi in America, Frank, che altri non è, però, che un boss mafioso che, più che ad aiutare gli ex-compaesani a trovare la “Signora in giallo”, è interessato a studiare il luogo ideale per nascondere la merce che traffica; e quale posto migliore di un paese sperduto e abitato da gente semplice e sprovveduta? A Barlume arrivano perciò due suoi scagnozzi per sondare il terreno, spacciandosi per collaboratori della Lansbury inviati al paesello per prepararne l’arrivo. Vi lascio immaginare gli ulteriori, brillanti sviluppi. A condire il tutto non mancano le tresche: il sindaco Bertone se la fa con la segretaria, il vice Bertino con la moglie del sindaco, la moglie di Bertino non si sa con chi, ma si diverte anche lei; ma anche gli inganni: il professore si prende gioco di Bertone e della moglie per guadagnare 500 euro, Bertino accetta una mazzetta dall’impresa che dovrà asfaltare la strada che recherà i visitatori allo spettacolo e Terenzio, giornalista barlumese, accetta due banconote dal sindaco per evitare di pubblicare sul giornale i furti accaduti in paese. A voi scoprire come si chiude la vicenda.

Dalla trama si evince che il romanzo è una sorta di giallo comico, se così si può definire, in cui suspence e colpi di scena sono conditi con scene degne delle migliori commedie (la più esilarante è quella della cena a casa di Bertino, durante la quale i commensali, per non trovarsi in 13 seduti a tavola, si alzano a turno adducendo le scuse più assurde, pp. 155 e ss.). Il testo, in effetti, ha davvero molto del teatro. Come ho già detto, i dialoghi la fanno da padrona e le parti narrative sono proprio solo elementi di raccordo tra un “atto” e l’altro. A questo punto va detto che il nostro autore (che ha già pubblicato due romanzi: Palla tonda teste quadre, Albatros, 2011 e Sognavamo le ragazze cin cin, Edizioni Il Filo, 2008), giornalista di professione (per Il Piccolo di Alessandria), speaker radiofonico (per le emittenti locali Radio Voce Spazio e Radio Alex), conduttore del talk show teatrale Il Salotto del mandrogno (presso il circolo Casetta di Alessandria), da tempo scrive per il teatro e il cabaret, oltre a essere lui stesso attore e regista (collabora col duo cabarettistico Marco e Mauro, con Federica Sassaroli e con la Compagnia Teatrale Fubinese, oltre a cimentarsi some cabarettista col trio Valter Ego). La sua vena comica, del resto, si percepisce anche durante le presentazioni dei suoi libri, alle quali partecipa sempre con acume e simpatia.

Ed è proprio l’acume uno degli altri aspetti che mi hanno colpito di questo romanzo e del suo autore. La vera protagonista di quest’opera, infatti, è la vita di paese, le cui peculiarità vengono colte in profondità: la spontaneità, l’abitudinarietà, i luoghi comuni, la gerarchia.

I personaggi, ingenui e sempliciotti, presentano tratti caricaturali, ma l’occhio con cui vengono ritratti è benevolo e l’intento è unicamente quello di far sorridere: nessun sarcasmo, al massimo lo sguardo sornione di chi, in fondo, in questo mondo è cresciuto e ne apprezza le qualità.

Concludo lasciando un assaggio dell’animata discussione tra Bertone e Bertana, durante la quale il sindaco impone al professore di riscrivere i Promessi Sposi affinché siano più comprensibili per la pia comunità:

“[...] Questo è un paese di devozione. Non lo possiamo sconvolgere con sta storia della peste, con quello che non vuole fare il matrimonio, con questi bravi che sono cattivi. Sarebbe opportuno, pertanto,  che i bravi fossero bravi e che la peste non ci fosse”.

“E l'Innominato?”.

“Chi è?”.

“Il signore locale, quello che fa rapire Lucia”.

“Ah, c'è pure un rapimento?”.

“Sì, lo ordina l'Innominato”.

“Ecco, non me lo nomini nemmeno. [... ]” p. 84

 

"Accabadora" di Michela Murgia

di Rita Pisanello

accabadoraAccabadora, cioè "colei che finisce" in sardo, è un libro di successo pubblicato nel 2009, edito da Einaudi, e vincitore del Premio Campiello del 2010. Accabadora è l'ultima madre, non un'assassina per la comunità, quanto colei che compie il gesto amorevole e pietoso di chi aiuta il destino a compiersi.

 

 

 

Ambientato in un piccolo paesino della Sardegna degli anni ’50, dove la gente sa tutto di tutti, ma fa finta di non sapere, e spettegola malevolmente sul rapporto misterioso che unisce le due protagoniste Tzia Bonaria Urrai e la piccola Maria.

Tzia Bonaria, che non è mai stata sposata, sceglie di prendere con sé Maria, che è l’ultima di quattro sorelle di madre vedova, per farla crescere e farne la sua erede, chiedendole in cambio solo compagnia e cura quando arriverà il momento del bisogno.

Maria è quella che i sardi chiamano “fillus de anima”, cioè i bambini generati due volte, dalla povertà di una donna che li cede e dalla sterilità di un’altra che li accoglie. Questo è proprio l’incipit del romanzo, dal quale, fin da subito, emerge uno dei temi centrali del romanzo, quello dell’adozione e del rapporto umano che si instaura tra due persone che non hanno vincoli familiari ma che si scelgono per tutta la vita. Significativi i passi di pag. 18: “ … e tutt’a un tratto era come se fosse stato sempre così, anima e fill’e anima, un modo meno colpevole di essere madre e figlia.”, e di pag. 26: “Tu sei diventata mia figlia nel momento stesso in cui ti ho visto, e non sapevi ancora nemmeno chi ero”.

Fin dal principio Maria va a vivere con Tzia Bonaria allontanandosi dalla madre naturale della quale quasi dimentica la fisionomia, anche se in realtà continuerà a vederla, così come le sorelle, ogni volta che ne avrà voglia. A pag. 4 la Murgia scrive:“Si perse anche i ricordi della faccia di sua madre mentre lei si allontanava, quasi se la fosse scordata già da tempo”. Maria è una bambina abbandonata a se stessa, che rubacchia non per necessità ma per prendere ciò che desidera, fino a che Tzia Bonaria non la scorge a rubare delle ciliegie in un negozio e di fatto la adotta.

Questo ricordo affiorerà solo quasi alla fine del romanzo, al ritorno di Maria dal Continente, quando Bonaria Urrai giace in un letto di ospedale e percepisce la presenza silenziosa della figlia adottiva che la osserva. Allora ricorda come tutto ebbe inizio: “Gli occhi della vecchia furono i soli a vedere che dal cesto di ciliegie Aritzo un pugno di frutti neri spariva tra le pieghe del vestitino di Maria, nel segreto di una tasca bianca. Su quel volto infantile Tzia Bonaria non vide comparire né vergogna né consapevolezza, come se l’assenza di giudizio fosse il giusto contrappasso della sua dichiarata invisibilità. Le colpe, come le persone, iniziano ad esistere se qualcuno se ne accorge”.

Questo passaggio a pag. 145 è particolarmente significativo, perché coglie, con poche parole, due aspetti importanti: l’assenza di visibilità di Maria per la madre naturale, che non si cura affatto di questa bambina silenziosa e solitaria, e il senso di colpa, che viene percepito solo da chi è consapevole della illegittimità delle proprie azioni. Senso di colpa che scalfisce anche Bonaria Urrai quando Maria finalmente si rende conto con estrema chiarezza che le uscite notturne di Tzia Bonaria non sono innocenti, soprattutto quando ricollega l’attività notturna della madre adottiva con la morte di Nicola Bastìu, l’unica morte a sconvolgere la coscienza di Bonaria Urrai.

Tornando al rapporto che unisce le due donne, si può affermare che la loro intesa è speciale, come tutte le cose che si scelgono e che non nascono dalla natura.

Il tema dell’adozione è quello che maggiormente emerge nella prima parte del romanzo. Molti sono i passaggi particolarmente toccanti e significativi:“L’anziana sarta si era comportata da subito come se la creatura le fosse nata in grembo”(pag. 17). La sensibilità di una madre, che Bonaria Urrai dimostra, è a tratti sconcertante, come quando accoglie Maria nella propria casa facendogliela scoprire a poco a poco fino a sentirla anche sua: “Bonaria Urrai non fece mai l’errore di invitarla a sentirsi a casa propria, né aggiunse altre di quelle banalità che si usano per ricordare agli ospiti che in casa propria non si trovano affatto. Si limitò ad aspettare che gli spazi rimasti vuoti per anni prendessero gradualmente la forma della bambina, e quando in capo a un mese le porte delle stanze erano state tutte aperte per rimanere tali, ebbe la sensazione di non aver sbagliato a lasciar fare alla casa”. Oppure quando la presenta agli altri facendola sentire per la prima volta come una persona e non un numero. La madre naturale aveva, infatti, l’abitudine di non chiamarla per nome e presentarla agli altri come “l’ultima”o “la quarta”, invece Bonaria dice semplicemente: “Lei è Maria” (pag. 18).

La madre naturale si rivolge alla figlia solo in caso di bisogno, “Maria veniva richiamata a casa ogni volta che serviva”(pag. 41), e perché erroneamente pensa che Maria debba restituire un po’ di quei benefici che ha ricevuto dalla vita vivendo con Bonaria Urrai “…non aveva rinunciato del tutto all’idea che la condizione privilegiata di Maria dovesse comportare qualche vantaggio in più per lei, …”, “Non c’erano ragioni perché non cominciasse a restituire un po’ di quello che aveva ricevuto, considerando da che pentola si era riempita la pancia fino ai sei anni”(pagg. 41-42).

Perfino al funerale di Bonaria Urrai la madre di Maria si dimostra venale e poco addolorata per la morte di quella donna che l’aveva sollevata dal pesante fardello di dover crescere una figlia di troppo. Nelle due ultime pagine del romanzo si legge: “Anna Teresa Listru si pavoneggiò per tutto il tempo di un dolore che assolutamente non provava, confidando nella ricchezza caduta in mano di Maria, quella figlia che dal suo più grosso errore credeva ora mutata nel migliore dei suoi investimenti”.

Nella seconda parte del romanzo, la Murgia concentra la sua attenzione su un altro tema scottante, l’eutanasia.

Di Bonaria Urrai si sa che è la sarta del paese, ma conosce sortilegi e fatture e spesso durante la notte si veste di nero ed esce da casa con fare misterioso. Già a pag. 12 del libro si legge: “La prima volta che Maria si accorse che Tzia Bonaria usciva di notte aveva otto anni, … [omissis]”.

Solo divenuta grande, Maria, capisce il perché di quelle uscite notturne misteriose, fino ad allora solo intercettate ma non comprese. Capisce che Tzia Bonaria è “accabadora”, in sardo colei che finisce, dallo spagnolo “acabar” che significa finire.

Essa, infatti, aiuta i moribondi a morire, e come un’ultima madre accompagna amorevolmente e pietosamente le loro anime, confortandole nel momento estremo. “L’ultima. Io sono stata l’ultima madre che alcuni hanno visto” (pag. 117).

Il suo intervento nella morte altrui è qualcosa di misericordioso e giustificato solo dall’estrema sofferenza del moribondo che, incosciente, si abbandona al sonno eterno. Per Bonaria Urrai è inconcepibile, invece, che siano i familiari a chiederne la morte, solo per liberarsi da un fardello divenuto troppo pesante da sopportare e, nel sesto capitolo, arriva a maledire la famiglia Vargiu per averla chiamata a finire il vecchio padre, il quale, lucidamente, fa capire a Bonaria di non essere poi così vicino alla morte come vorrebbero far credere i suoi parenti più stretti.

Solo la richiesta del giovane Nicola Bastìu, si aiutarlo a morire dopo essere rimasto menomato, o “storpio” come si definisce lui, e aver perso il vigore della gioventù, getta Tzia Bonaria in uno stato di confusione e di dolore, e, nonostante sia convinta che non si può favorire la morte di chi può ancora avere una vita piena e attiva, dopo molte insistenze, vacillerà di fronte alla determinazione del ragazzo e ne provocherà la fine.

Maria non comprende e non accetta la verità dell’accabadora, che le viene rivelata dal suo amico più fidato, Andrìa, fratello di Nicola Bastìu, il quale, avendo assistito all’uccisione del fratello da parte di Bonaria Urrai, sfoga così tutta la sua rabbia. A pag. 108 i passaggi più significativi: “Le parole di Andrìa erano state folli … [omissis] e per Maria non avevano alcun senso; eppure accostate a determinati ricordi un senso cominciavano ad averlo”. “ Maria aveva smesso da tempo di interrogarsi sulle misteriose uscite notturne dell’anziana madre adottiva, ma ora quella dimenticanza le tornava addosso come un elastico di fionda, e bastava a insinuarle il dubbio che Bonaria Urrai avesse qualcosa di grave da nasconderle”.

Tzia Bonaria cerca di far comprendere a Maria che i momenti della nascita e della morte non ci trovano mai da soli. “Non c’è nessun vivo che arrivi al suo giorno senza aver avuto padri e madri a ogni angolo di strada” (pag. 117) e Tzia Bonaria è l’ultima madre che alcuni hanno visto.

Ma per Maria non è sufficiente, per lei “ci sono cose che si fanno e cose che non si fanno, e Maria la differenza la conosceva benissimo” (pag. 107).

Maria lascia la Sardegna e la madre adottiva con un addio burrascoso, doloroso e definitivo, ma la lontananza rappresenta per lei anche un periodo di crescita interiore e, quando la sorella la richiama al paese perché Bonaria Urrai è malata, Maria torna ad accudirla e ritrova, immutato, l’antico attaccamento per lei.

E dinanzi alle atroci e prolungate sofferenze di Tzia Bonaria, e alle sue richieste silenziose di aiuto “Maria non aveva bisogno nemmeno di un gesto per capire di cosa aveva bisogno” (pag. 151), per la prima volta mette in discussione le sue convinzioni e tentenna quando riconosce che anche lei potrebbe fare per la madre adottiva quello che quest’ultima aveva fatto per altri “… la ragazza cominciò a comprendere cosa intendeva Bonaria Urrai tre anni prima quando le aveva detto - Non dire mai: di quest’acqua io non ne bevo”.

La morte di Tzia Bonaria giunge liberatoria per entrambe proprio quando Maria sta per agire, sollevando l’una dalle sofferenze della malattia e l’altra dalle proprie colpe.

L’eutanasia appare come sempre esistita nella realtà ma occultata per ipocrisia, punita moralmente ma praticata nel segreto. Il dilemma morale e spirituale che ancora oggi divide, che opprime le coscienze, che impedisce di trattare l’argomento a livello legislativo, anche se a lungo dibattuto, è lo stesso che vive Maria alla fine, dinanzi alla morte della persona a lei più cara. Facile allontanarsi dal problema e giudicare, come fa Maria quando viene a conoscere le attività misteriose di Tzia Bonaria, più difficile è trovarsi a stretto contatto con le sofferenze delle persone amate e rimanere ferrei nei propri propositi.

Il ritratto delle due donne è magistrale, due personalità complesse, intense ed emotivamente forti che, anche grazie al mistero che le avvolge, appassionano il lettore fino all’ultima pagina.

 

Gli altri temi, più marginali, del romanzo sono le tradizioni paesane e le relazioni umane che condizionano la vita del paese, con le sue regole e i suoi divieti, fatte di gente che sparla e che conosce tutto di tutti: “Perché invece Tzia Bonaria Urrai si fosse presa in casa la figlia di un’altra a quell’età, davvero non lo capiva nessuno. I silenzi si allungavano come ombre quando la vecchia e la bambina passavano per le vie insieme, suscitando code di discorsi a mezza voce sugli scanni del vicinato.” (pag. 6). Persino la maestra, piemontese, non capisce questo legame e non si spiega perché Maria nei suoi disegni rappresenta sempre Bonaria come la sua mamma e non la vera madre. E, tuttavia, è Bonaria che manda a chiamare in qualità di genitore, per parlarle dell’andamento scolastico di Maria ma anche per capire meglio il rapporto che lega l’anziana donna e la bambina.

E poi ci sono gli aspetti scaramantici, anch’essi legati a certe tradizioni popolari. Ne è un esempio, nel quarto capitolo, il ritrovamento nella vigna dei Bastìu del cane quasi sepolto vivo sotto un muretto e nascosto in un sacchetto insieme ad alcuni strani elementi che, portati dinanzi a Bonaria, vengono da essa interpretati malevolmente, quasi fossero una iattura ai danni dei proprietari del campo. O ancora, nel sesto capitolo, l’episodio in cui Maria si intrufola di nascosto nella stanza da letto della madre naturale, il giorno del matrimonio della sorella maggiore, per spiare le ceste contenenti le trecce di pane beneaugurante che gli sposi devono appoggiarsi sulla testa durante la cerimonia. Maria viene sorpresa dalla propria madre e da quella dello sposo proprio nel momento in cui fa cadere una treccia di pane, che si sbriciola sul pavimento.

Facile mettere a confronto questo romanzo con altri sul tema delle tradizioni popolari e dei legami tra la gente del paese, ciarliera e pettegola. Le tradizioni dei piccoli paesi italiani, pur diverse tra loro, accomunano tutto il territorio nazionale da nord a sud. Basti pensare ai luoghi Manzoniani e alle storie e agli ambienti descritti da Andrea Vitali nei piccoli borghi sul Lago di Como, o ai romanzi di Simonetta Agnello Hornby, ambientati nella Sicilia di ieri e di oggi ma sempre profondamente segnata dalle tradizioni popolari.

Passano i tempi, cambiano le ambientazioni storiche ma le tradizioni restano intatte quasi ovunque e invadono tutti i campi della vita, facendo sì che i comportamenti umani si adeguino ad esse.

Inevitabile il paragone con “Canne al Vento” di Grazia Deledda, per le ambientazioni storico-geografiche, per la passionalità e l’energia espressa dai personaggi e per il tema della morte provocata, che anche per Efix rappresenta un gesto da amante della giustizia e della vita. Naturalmente le due storie sono molto diverse, partono da spunti differenti, ma hanno in comune tradizioni e umanità e l’elemento della “sorte”, che guida le azioni umane anche quando la razionalità porterebbe verso altre conclusioni.

Diversamente Eco: l’ultima fatica narrativa del Professore

di Giovanni Garuglieri

Umberto Eco

Il nuovo racconto di Eco in versione vintage - giornali corrotti, trame clandestine, storie immaginarie - ambientato a Milano nel 1992, piacerà ai suoi numerosi lettori e gliene farà guadagnare di nuovi?

 

È in commercio l'ultimo romanzo di Umberto Eco, Numero zero: rispetto alle precedenti opere di narrativa il numero di pagine si è sensibilmente ridotto – 218 rispetto alla media precedente di circa 500 - e il contenuto semplificato. È questo che intendeva l'autore quando ha affermato da Fazio che se finora i sui libri sono stati sinfonie di Mahler, questo è un pezzo di Charlie Parker? Per capire su quale piano considerare la validità di questa affermazione, è bene avvicinarsi a comprendere questa opera.

La domanda da porsi, su cui torneremo alla fine dell'analisi, è quella sulle intenzioni dell'autore, quale obiettivo cioè Eco intendesse raggiungere con Numero zero. Il romanzo si inserisce nel solco di quella letteratura del complotto e del complottismo cui l'autore aveva dato avvio nel 1988 con Il Pendolo di Foucault e che aveva ripreso con Il Cimitero di Praga nel 2010 - e sarà per questo attraverso il confronto con tali romanzi che l'oggetto della ricerca risulterà comprensibile.

Il protagonista narratore di Numero zero racconta la sua esperienza all'interno di una improbabile redazione, il cui unico scopo è preparare i numeri destinati alla stampa, che non vedranno mai, e ciò con l'unico scopo di ricattare potenti con l'arma della diffamazione: dietro loro pagamento l'editore non avrebbe pubblicato il giornale; l'obiettivo dei giornalisti non sarà raggiunto e l'esperienza finirà in tragedia. Per ciò che concerne il plot, ovvero gli elementi fondamentali della storia, si nota in primo luogo una certa semplificazione rispetto ai romanzi precedenti: l'ossatura è immediatamente riconoscibile già dalle prime pagine, e il lettore non è sottoposto alle lunghissime digressioni erudite o alle foreste di simboli presenti altrove. Ciò vale anche per i personaggi, figure che ruotano attorno alla piccola editoria scandalistica e perlopiù senza interessi storici o filosofici – ed anche quando questi sono presenti non altereranno l'accessibilità delle pagine né daranno adito alle lunghe discussioni dotte del Pendolo e del Cimitero. Per spiegarci: il protagonista di quest'ultimo romanzo, Simone Simonini, ripercorrendo la propria esistenza e quella dei propri avi, dà il pretesto per excursus storici lunghi interi capitoli (il cap. 7 verte sulla spedizione dei Mille, il 17 sulla Comune di Parigi, il 18 sui Protocolli di Sion); l'io narrante del Pendolo, Casaubon, spazia per le 503 pagine della narrazione dai Rosa-Croce al misticismo ebraico, dall'ingegner Eiffel a Satana. Eccetto le pagine di cui diremo tra poco, in Numero zero non vi è traccia di tutto ciò e la maggior parte dei riferimenti è alla portata di tutti: si va Chandler e D'Annunzio (p. 18) ad un lungo soliloquio su Saab, Rover e Mercedes (pp. 43-46).

Osservando poi le caratteristiche delle figure protagoniste ci si imbatte in un fatto notevole per un autore come Eco, cioè la non verosimiglianza di queste o, se si preferisce, un difetto di spessore. Nella pratica ciò risulta, nelle 180 pagine del racconto del protagonista, dal fatto che ad esse non viene concesso un grande rilievo: nonostante questo spazio consti perlopiù di dialoghi, questi divengono il luogo in cui si gioca alla progettazione del numero zero della rivista, la bozza che non vedrà la luce, in cui si scherza su luoghi comuni e fenomeni giornalistici, come a pagina 101, dedicata per tre quarti a invertire frasi fatte ("a volte la fantasia supera la realtà, premetto che sono razzista, le droghe pesanti sono l'anticamera delle canne" ecc.) e in cui si manifesterà il desiderio didattico di Eco; questa volta non con storie di Templari, carbonari o filosofi medievali, ma raccontando aspetti della nostra storia più recente, dato che il racconto si svolge a Milano nel 1992: la settimanalizzazione dei quotidiani o la diffusione della macchina del fango; l'emergere della corruzione e sinistri o ironici presagi sugli anni a venire.

Sempre in riferimento a questo aspetto ci si può chiedere come mai Braggadocio, uno degli improbabili redattori, nella seconda metà del romanzo, offra una lunghissima disquisizione sugli ultimi giorni di Mussolini, con una sicurezza più da storico che da giornale scandalistico, esponendo dettagliatamente l'argomento da pagina 169 (ma introdotto già dalla 157) a pagina 188. La spiegazione più plausibile è che l'autore, pur forte della sua esperienza nell'editoria, riflessa anche nel Pendolo, non abbia acquisito tuttavia conoscenza dell'ambiente umano della cattiva editoria, di cui emergono sì i meccanismi, ma senza che gli attori risultino convincenti.

Un po' lo stesso motivo per cui Proust, che ha descritto il mondo della borghesia del suo tempo così dettagliatamente, proprio per averlo vissuto, non avrebbe potuto ritrarre altrettanto bene quello popolare, a ragione della sua estraneità con esso. È legittimo pensare di trovarsi di fronte ad un tentativo di svolta narrativa, e ciò in direzione di un romanzo più accattivante e più facile, per di più di un genere, quello giallo, che gode di grande popolarità, probabilmente con il fine di ampliare il pubblico di lettori. Umberto Eco sembra aver rinunciato alle strutture narrative del Pendolo e del Cimitero che, per quanto non fossero sperimentalismi, recavano un'impronta piuttosto personale.

La tentazione è quella di accusare il Professore di avere scritto un'opera ben al di sotto delle sue possibilità, nella certezza che il solo nome gli avrebbe garantito comunque vendite; può darsi che ciò abbia influito, ma forse è più probabile che abbia cercato di cimentarsi con un genere di natura più "bassa".

Torniamo all'affermazione secondo cui avrebbe abbandonato le sinfonie di Mahler per dedicarsi ad un Charlie Parker. Se vogliamo comprenderla attraverso la seconda lettura, deve risultare che qualcosa è andato storto: il prodotto non è, difatti, un buon romanzo di genere minore, per il quale sarebbe stato necessario cambiare anche i ferri del mestiere, cioè un altro approccio alla realtà ed un altro mondo da ritrarre, bensì un racconto la cui story e il cui plot non persuadono. Eco lo ha realizzato più sottraendo allo scrittore che è, che non adottando nuovi strumenti e una nuova prospettiva.

 

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