Il Grande Luhrmann
di Eleonora Mammana
Classe 1962, australiano, regista, sceneggiatore e produttore cinematografico. Sto parlando di Baz Luhrmann, creatore di Ballroom-Gara di ballo, Romeo+Giulietta, Moulin Rouge, Australia. Il suo ultimo successo è Il Grande Gatsby, trasposizione cinematografica dell’omonimo romanzo di Francis Scott Fitzgerald. Complice una divina moglie costumista, Catherine Martin, che ha scelto gli abiti dei Brooks Brothers (dai quali si vestiva Fitzgerald stesso all’epoca) e Miuccia Prada, e che ha collaborato con Tiffany & Co. nel disegnare fiumi di perle e diamanti, Luhrmann è riuscito nell’impresa di proiettare lo spettatore nella sfavillante atmosfera degli anni Venti.
Long Island, West Egg, un giovane agente di borsa, Nick Carraway, affitta una modesta casetta, circondata dalle sontuose ville dei nuovi ricchi. Fra tutte spicca quella del suo vicino Jay Gatsby, un miliardario dal passato oscuro che ogni venerdì, durante l’estate, è solito dare feste grandiose alle quali partecipa chiunque, per lo più senza invito. Esattamente di fronte, dall’altro lato della costa, nell’East Egg, vive con un marito fedifrago, l’ex giocatore di polo Tom Buchanan, e una figlia di tre anni, il suo grande amore Daisy, cugina di Nick. Questi, venuto a conoscenza della storia d’amore intercorsa fra loro cinque anni prima, si presta a farli incontrare a casa sua. La relazione precedentemente interrotta, perciò, riprende, ma, quando a Gatsby sembrerà di essere riuscito a realizzare il sogno di riprendersi la donna amata, Daisy sceglierà di rimanere con suo marito e lui morirà solo, convinto fino all’ultimo respiro della realizzabilità del suo destino.
Luhrmann riproduce fedelmente quasi ogni parola del libro, discostandovisi solo in alcuni particolari. In primo luogo, creando una cornice narrativa assente nel romanzo: Nick, il narratore, viene impietosamente inserito in una clinica psichiatrica, nella quale gli viene chiesto di mettere per iscritto i suoi ricordi. Il regista crea così un doppione del poeta squattrinato di Moulin Rouge, da cui riprende anche un’inquadratura, con il ragazzo seduto alla macchina da scrivere. In secondo luogo, non si sofferma sulla relazione, appena intuibile, fra lui e l’amica di Daisy, la golfista Jordan Baker, interpretata da un’altera Elisabeth Debicki. Altra differenza degna di nota è la scelta di far rivelare appena accaduto il fatto, senza un apparente motivo, da Tom a Wilson, marito della sua amante, che a investire e uccidere sua moglie è stato Gatsby; non, questo solo per salvarsi la vita, quando l’uomo si presenta a casa sua per ucciderlo, credendo sia stato lui. In questo modo la meschinità di Tom viene accentuata. Luhrmann, nel finale, non si dilunga sul funerale di Gatsby, tralasciando perfino la presenza di suo padre, ma si sofferma sulla scena precedente, in cui viene ucciso in piscina. A questo punto, è evidente un’altra sostanziale differenza rispetto al romanzo: quando Wilson spara a Gatsby il telefono squilla e il giovane, appena prima di morire, pronuncia il nome dell’amata. Luhrmann lascia al personaggio la speranza; l’amarezza e il disincanto restano allo spettatore, che sa che a effettuare la chiamata non è stata Daisy, ma Nick. Fitzgerald, invece, fa morire il protagonista senza che nessuno chiami, privandolo anche di quest’ultima illusione.
La critica si è divisa fra commenti entusiastici e nette stroncature. Personalmente ritengo che Luhrmann abbia offerto una buona interpretazione del romanzo. Innanzi tutto la scenografia e i costumi rendono ottimamente il lusso e lo sfarzo dei ceti più abbienti, dediti a feste piene di tabacco e alcol, che stridono, al confronto, con la povertà e la miseria di chi lavora duramente per poter condurre un’esistenza triste e grigia. Anche la colonna sonora, curata da Craig Armstrong (Romeo+Giulietta, Moulin Rouge), che spazia tra pezzi jazz e R’nB, rende la frenesia e gli eccessi di un’età che è sull’orlo del declino. Quanto ai personaggi, il regista esalta al massimo la figura di Gatsby, un magistrale Leonardo di Caprio: costruito e dai modi affettati quando “interpreta” il giovane, ambizioso gentiluomo; freddo e lucido quando si occupa dei suoi loschi affari; impulsivo e aggressivo quando lascia trasparire la sua vera natura, cedendo alle provocazioni di Tom.
Ma, sopra a ogni sua altra qualità, spicca il senso di solitudine che lo pervade, sempre.
Il suo desiderio di recuperare l’amore della donna della sua vita lo costringe a vivere proiettato nel passato: ogni azione che egli compie, dall’accumulare denaro attraverso il contrabbando, al trasformare la sua casa in una reggia, al dare feste, è in funzione del suo sogno, e ciò non gli permette di godere del presente. Non si fida di nessuno, cerca l’affetto e la comprensione di Nick, ma neppure con lui, all’inizio, riesce a essere completamente sincero, anzi, costruisce un’immagine impeccabile, ma fittizia, di sé, per ottenere il suo aiuto con Daisy. Per questo motivo è solo, perché a nessuno permette di sapere chi è realmente Gatsby. La sua figura è davvero immensa, ricca di sfaccettature, e di Caprio riesce a renderle tutte. Quasi insignificanti sono, invece, gli altri personaggi: Daisy, l’attrice Carey Mulligan, è frivola e priva di sostanza, incapace di prendere qualunque decisione; Tom, il muscoloso Joel Edgerton, è gretto e arrogante. Entrambi sono caratterizzati da una superficialità che non potrebbe essere meglio definita che dalle parole stesse di Nick: «Erano gente indifferente, Tom e Daisy – sfracellavano cose e persone e poi si ritiravano nel loro denaro o nella loro ampia indifferenza o in ciò che comunque li teneva uniti, e lasciavano che altri mettessero a posto il pasticcio che avevano fatto». Dalla parte opposta sta poi l’umanità sventurata, ma “vera”, di Wilson, un emaciato Jason Clarke, che prova un sincero affetto verso la moglie, Myrtle, l’esuberante Isla Fisher che, al contrario, è smaniosa di uscire da quell’esistenza livida. E poi troviamo Nick, l’alter ego di Fitzgerald, il timido e impacciato “supereroe” Tobey Maguire, spettatore impotente di un dramma che non può avere un lieto fine.
L’intera pellicola, come del resto il romanzo, è giocata sui contrasti: la vacuità e la profondità degli affetti, l’apparenza e la sostanza, il sogno e la realtà, le luci e le ombre.
Ciò, però, in cui davvero l’opera di Luhrmann si differenzia da quella di Fitzgerald, è la scelta di lasciare a Gatsby l’illusione. In quegli ultimi squilli del telefono sta tutta la drammaticità del film: lo spettatore sa che dall’altro capo dell’apparecchio non c’è Daisy, sa che il sogno si è spezzato, ma Gatsby no, Gatsby ci crede ancora, fino all’ultimo battito del suo cuore.
Ma in fondo, la morale è la stessa: il passato non si può replicare, mai.
“Così remiamo, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato.”
Francis Scott Fitzgerald
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