Sono tutti assassini


Sono tutti assassini

La polizia sul grande schermo. Vizi, effetti e virtù del cinema italiano alle prese con una delle sue istituzioni...

 

La difficoltà di fare un film realmente poliziesco ovvero “dentro” l’istituzione della polizia, è fenomeno tutto italiano. Che le bandoliere e le lucerne dei carabinieri facciano da personaggio fisso, severo e rassicurante al tempo stesso, nelle pellicole da strapaese è assodato, così come gli uffici austeri dei commissariati ospitino le scene catartiche di commedie confuse, con il solerte funzionario che fa da deus ex machina per una conclusione innocua per tutti, è dato di fatto. Raramente però gli uomini della legge, i poliziotti, assurgono a protagonisti, a personaggi indagati e catalogati. Non si scorda quella che è una sorta di parodia rivistaiola di “Pietà per i giusti” di William Wyler, ovvero il fortunato “Accadde al commissariato” del 1954, col personaggio centrale di Nino Taranto che funge quasi da presentatore di numerose star nazionalpopolari, qui inserite in veste di vittime e colpevoli. Più meditati e drammatici due altri film risalenti al biennio 1959 e 1960, entrambi con Pietro Germi nel ruolo del commissario. Il primo “Un maledetto imbroglio”, diretto dallo stesso Germi rivisita nel momento coevo il Pasticciaccio di Gadda, facendone un’opera di sconsolata malinconia, distante dalle intenzioni dell’autore letterario, tra l’altro con un’identificazione e un’umanizzazione dell’omicida. Il secondo, “Il rossetto” di Damiano Damiani, risente di tanti echi della cronaca giudiziaria e butta un occhio non del tutto convinto su di un’Italia urbanizzata in fretta e destinata a cambiare. In entrambi i casi le vittime sono donne sole, forse l’archetipo dell’oggetto di tanti delitti (frequentemente insoluti) nella Roma del dopoguerra. Non se ne discosta anche quest’opera di Elio Petri, forse più difficile e amara delle altre. Significativa è la musica che apre la narrazione: un pezzo di jazz che si accomuna alle colonne sonore di tanti polar francesi del periodo ed ancora più emblematico il nome del compositore, quel Piero Piccioni che appunto nelle paludi del caso Montesi si trovò ad affondare, ludibrio per l’opinione pubblica del paese. Il protagonista è un Mastroianni meno scanzonato e gentile dell’usuale, già confermato dai fasti felliniani e dalle glorie dell’incomunicabilità di Antonioni. Guida un’auto americana, vive in una casa decadente e arruffata, in pieno centro della capitale, come si conviene ad un antiquario giovane e “rampante” e dove i questurini in borghese, ma classificati da un marcato accento siciliano, fanno irruzione in massa, sul fare del mattino. Invitato o meglio condotto a forza in Questura, per una “formalità”, sfila tra le mormoranti e corrucciate donnette dello stabile. Già colpevole, di un fatto oscuro ma senza dubbio grave. L’attesa spasmodica, in un salottino dimesso, osservato attraverso un falso specchio dall’inquisitore dottor Palumbo, Salvo Randone impeccabile e premiato col Nastro d’Argento per questa interpretazione, si protrae per ore. L’inquisizione più feroce, per tutta la durata del film, non sarà condotta dal pur implacabile commissario, che insiste su pecche venali come protesti cambiari o una ricca fidanzata ufficiale che tale non risulta, ma dai continui flashback che illustrano le ambigue imprese dell’antiquario Martelli. I pezzi unici che offre alla sua scelta clientela sono frutto di ricettazione in combutta con la malavita più miserabile, il titolo di ragioniere che dichiara è fasullo, da adolescente si prendeva gioco del nonno vecchio anarchico e perseguitato dal fascismo. In un’occasione ha addirittura irriso un povero diavolo finito suicida sull’autostrada. Le immagini si susseguono nel ricordo del protagonista e finalmente si scopre il motivo della convocazione. Un omicidio di cui vittima è la sua matura ex amante, figura complessa e sua socia in commercio. La scena si sposta sul luogo del delitto, un hotel del litorale che la morta, dissoluta e egoista donna che vive di affari poco limpidi, stava ristrutturando e dove l’antiquario ha passato la notte. Indizi, sospetti e orari congiurano, pare ridicola e aleatoria l’autodifesa confusa del sospetto. Unica a credergli, una povera cameriera debole di mente già alle sue dipendenze, che lui aveva utilizzato tra l’altro per rendere favori sessuali ad amici. La stazione successiva è la fatiscente camera di sicurezza della questura, dove tra scrosci di tubature guaste e freddo pungente, riceve la visita di due figuri, confidenti della polizia che cercano di farlo confessare, anche con la violenza. Il gioco della narrazione obliqua prosegue, con vicini di casa, ex commilitoni, concorrenti che, intervistati dalla stampa, rispondono illustrando i suoi torbidi precedenti. Sulle prime pagine dei quotidiani della sera già compaiono le sue fotografie (assieme a quelle della fidanzata, rigorosamente in costume da bagno) e il cerchio pare stringersi sempre più forte. Una breve confessione la esprime: riconoscendo di avere pensato unicamente al proprio benessere ed a soddisfare il proprio egoismo. L’astuzia poliziesca lo metterà a confronto con il vero omicida e sarà lui ad incastrarlo, senza volontarietà. Una volta liberato, ascoltata la soluzione del caso, si incammina verso casa, in una Roma invernale e sciatta. Offre qualche soldo a un mendicante e scoppia finalmente in un pianto dirotto, che sa di autoaccusa. Non finisce così: il cambio di scena ci porta alla situazione dell’anno seguente. Ancora con la fidanzata, ma stavolta nell’intimità di un albergo a ore. Lei nel frattempo si è sposata con un altro, sono felicemente divenuti semplici e impuniti amanti clandestini. L’uomo, che si dice cambiato e maturato dall’esperienza, in realtà, nella telefonata ad un commerciante, ride e si vanta del proprio consolidato soprannome: l’Assassino. Il filo di speranza teso nel rilascio dalla cella si è spezzato, per sempre o fino al prossimo cataclisma morale.

Non c’è un buono, in tutta la storia. Spietata la polizia, prevaricatrici nella loro sensualità le donne, disonesti o meschini i personaggi di contorno, vittime i pochi che hanno meno forza e egoismo. Il vero assassino è quello che meno degli altri ne avrebbe le connotazioni. Ha agito in stato di confusione mentale, era stato pressoché espropriato dalla vittima di un suo bene immobile, parla dei principi morali che hanno caratterizzato la sua esistenza; è il vero debole, il paria poiché bisognoso di denaro. Film brulicante di situazioni, vede mescolarsi nei tanti giochi ambigui, tanto figure del sottobosco delinquenziale romano quanto gli assoluti dell’epoca facile e frenetica del boom economico. Il mobile antico, che il protagonista tratta senza avere in fondo eccessiva conoscenza per la materia, è uno dei miti dei grandi signori come dei nuovi ricchi, la matura amante, Micheline Presle dal fascino fané e tenebroso, nei flashback guida un’auto sportiva di alto livello e la sciocca e sfacciata fidanzata è figlia di industriali. Il protagonista è un consapevole concentrato di cinismo, un cattivo parvenu che utilizza il proprio aspetto e il proprio spirito mellifluo per circuire le anziane clienti ma verso gli inferiori è scostante e sprezzante. Moneta corrente e sovente nominata è la cambiale, segno ed emblema della classe commerciale del tempo. A parte ciò, è necessario ricordare come per il regista Elio Petri questa pellicola costituisca la prova generale per quello che rimarrà come il suo film più importante, “Indagine su un cittadino al disopra di ogni sospetto”, destinato a vincere l’Oscar. La vittima anche in questo sarà donna, egualmente ambigua e cinica, dalla situazione indefinibile. E soprattutto maggiore importanza e respiro avrà l’ambiente dell’istituzione di polizia, con le sue piccole grandi e figure. Dottori e questurini, unificati da un siciliano burocratico e greve, come a definire una casta che occupa un settore subalterno ma fondamentale dello stato. Le rivalità e le sovrapposizioni tra i funzionari, sanno di carriera di calcolo, l’indagine è pesante, i mezzi usati disinvoltamente. Il momento chiave dei poliziotti di Petri, quello in cui più chiaramente essi esercitano il proprio potere ed espletano la loro più alta funzione, è quello dell’interrogatorio. La stringente degnazione del commissario Palumbo de “L’assassino”, è cosa tenue rispetto alla distruzione della personalità che il repressivo “Dottore senza nome” di Volonté impone agli arrestati nel film più recente. Se il nemico mai nominato del film del 1961 è la dilagante immoralità di un paese in mutazione, nell’altro si deve reprimere la sovversione politica. Le esperienze degli anni Cinquanta, con i casi giudiziari oscuri che travalicano la aule giudiziarie e debordano in sede politica, sono altra cosa rispetto alle tempesta del Sessantotto ed il regista tiene conto di entrambe le situazioni. Il Mastroianni assassino solo di nome, ma dalla coscienza inquinata (in questo affiorano spiccate somiglianze con “Anima nera” di Patroni Griffi) non paga se non con un passeggero malumore; il Dottore dell’”Indagine” affronterà superiori e coscienza in un incubo kafkiano, premonitore di un reale e inconosciuto giudizio, prima dei titoli di coda.

Alberto Piccini -

Alberto Piccini, laureato in Scienze Politiche è stato professore

a contratto di Storia dei Totalitarismi presso l’università di Genova.

Dagli anni Novanta si è occupato del recupero e dello

studio delle fonti inerenti la Seconda Guerra Mondiale ed in

particolare delle testimonianze orali dei protagonisti dell’ultimo

conflitto.

Coautore del testo multimediale “La Resistenza, 1943-1945”

(1996) e dell’Atlante Storico della Resistenza Italiana (2000),

ha pubblicato con Mursia “I confini del lager” (2004) e “L’ultima

guerra” (2007).

In seguito ha pubblicato con Adele Maiello, il testo “Il Rotary

in Italia: da club ad associazione” (2008) e, con Mario Paternostro,

“Genova e i volti della guerra 1940-1945” (2011) e "Genova, gli anni della rinascita 1945- 1960" (2014)

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