Letteratura
Scrivere o digitare? Questo è il problema
di Francesca Girardi
Scrivere o digitare? Questo è il problema
Alla carta stampata si è affiancato un fedele compagno: il web.
Libro ed E-Book, lettera ed e-mail: la loro sarà convivenza o antagonismo?
Tempo addietro, una persona a me molto cara, è riuscita a farmi comprendere un concetto tanto semplice quanto importante: se una cosa la osservi da più punti di vista, mostrerà i suoi angoli più diversi e allora sì che potrai dire di averla analizzata al meglio.
Il significato di per sé non è assolutamente complesso ma nasconde una rilevante utilità se applicato a tutte le questioni che richiedono un’opinione o solo una considerazione.
Adottando questo metodo di analisi, vorrei affrontare le diverse interpretazioni, talvolta discordanti, che ruotano attorno a un tema molto attuale: l’avvento del digitale nel mondo dell’editoria.
Inizio facendo una cosa semplicissima: verificare il significato della parola scrittura.
Scorrendo il dizionario che trovo in casa, leggo: “L’operazione dello scrivere… ||modo di scrivere: con riferimento a vari alfabeti, sistemi e caratteri impiegati… || al mezzo col quale viene effettuata… alle particolari caratteristiche individuali” e la descrizione prosegue ampia con molte altre definizioni proprio come ampio è l’ambito dello scrivere.
L’origine di quest’azione, impressa nel DNA di ognuno di noi, si perde nella notte dei tempi; ogni civiltà è caratterizzata da usi e costumi, dal proprio linguaggio e, conseguentemente, dal proprio alfabeto. In quest’ultimo ambito capita che talvolta le singole lettere siano simili a più paesi o talvolta siano completamente diverse. Le lingue inglese e tedesco, per esempio, hanno grammatiche differenti ma i segni grafici, salvo qualche eccezione, sono simili. Con il cirillico la cosa cambia notevolmente, per non parlare poi del cinese o del giapponese.
Ora, se scruto il mondo dal punto di vista della scrittura intesa quale operazione dello scrivere noto tratti propri e distintivi però se lo osservo interpretando la scrittura nei suoi vari significati, accanto alla diversità, anche concettuale, incontro un oggetto semplice ma comune: il libro. Nel dizionario il suo significato è così spiegato: “Serie continua di fogli stampati, della stessa misura, cuciti insieme e forniti di copertina o rilegatura…”. Seppur con il trascorrere del tempo molti documenti cartacei siano andati persi, innumerevoli libri si sono conservati: sono pagine e pagine nate dall’unione logica di segni grafici segnati sulla carta.
Proseguendo e mutando il punto di osservazione, prendo atto che la scrittura, oltre ad essere definita dalla grafia e dalle meravigliose peculiarità che la caratterizzano, risponde a un’esigenza fondamentale: comunicare. E il libro è proprio il suo strumento. A tal proposito mi piace pensare a questo oggetto come a una nave che solca i mari per trasportare, in terre lontane, messaggi e verità.
In passato le pagine scritte, anche le più private, erano autentici messaggeri di sentimenti profondi; anche il cuore affidava all’inchiostro e alla carta le gioie, i sussulti, i dolori… Pensiamo alle lettere d’amore, alle calligrafie vissute degli emigranti o dei soldati al fronte. E i grandi matematici, scienziati, fisici? Nelle loro grafie, nelle loro macchie di inchiostro hanno sigillato e trasmesso concetti fondamentali alla nostra esistenza.
Quante copie di libri, manuali, raccolte sono conservate nelle importanti biblioteche sparse per il mondo, e stringendo il campo di osservazione, anche ognuno noi, nel nostro piccolo, conserva piccole biblioteche private: libri ricevuti in regalo, ai quali si affianca anche qualche emozione, oppure i classici della letteratura che sono stati affrontati a scuola e tenuti per ricordo, gli stessi manuali scolastici che si conservano per i propri figli, lo stesso dizionario, un libro letto per curiosità…
Con i tempi moderni compare, accanto alla carta stampata, un mezzo che talvolta è visto con occhi sospettosi: il web. Ecco come viene definito nel dizionario: “Sottorete di Internet che riunisce i siti che permettono un sistema di navigazione ipertestuale e visualizzabili sul computer per mezzo di appositi programmi software (detti ‘browser’)… anche come agg.: pagine w. …” e altro ancora.
A una prima osservazione, diciamo istintiva, mi verrebbe da dire che non ha nulla da condividere con il mondo editoriale, chiamiamolo così, “tradizionale”. Guardando un po’ più attentamente il nuovo (anche se oggi questo aggettivo non ha più molto valore) venuto, bè appaiono punti di vista diversi e interessanti.
Nel web non si parla forse di pagine? Certo non le si sfoglia manualmente e il click sostituisce il delicato fruscio della carta stampata. Si passa velocemente da un argomento all’altro, si interagisce istantaneamente nella lettura o, semplicemente, nella veloce consultazione. Non troviamo un indice prestabilito ma lo scegliamo noi collegandoci con i vari link. Quindi un aspetto peculiare di questo nuovo modo di comunicare è l’immediatezza, unita tuttavia a una mancata fisicità dello strumento.
Mi spiego meglio. Il fascino della carta, il suo profumo, il tenere il mano un libro a noi caro, possiede un’unicità propria, però se osservo il web con gli occhi del progresso, lo vedo ben inserito in questa società scandita da ritmi sempre più accelerati.
I social network permettono un collegamento costante e veloce, le testate giornalistiche on line rispondono molto bene al loro scopo di informare. È vero che attraverso il web c’è maggior pericolo di notizie fasulle, ma lo stesso potrebbe succedere con la carta stampata. Ciò che realmente cambia credo sia il tempo d’azione. Peraltro mi trovo a pensare che per i non amanti del pc, la lettura del giornale cartaceo è sicuramente un “rito” insostituibile.
Di per sé la lettura è un’ottima compagnia e oggi si ha la possibilità di scegliere in che modo affrontarla: anche attraverso l’E-book. Sinceramente non lo sento molto vicino al mio modo d’essere ma ne comprendo la formidabile utilità: la lettura è un momento in cui si viaggia in mondi e storie infinite. In questa società che si muove sempre più sul digitale, bè se a qualcuno piace sfogliare cliccando, ben venga. Attraverso questo piccolo oggetto credo che la cultura non sia in pericolo, in realtà ha trovato una nuova collocazione per poter essere “a passo coi tempi”.
I giorni moderni sono caratterizzati da una mobilità sociale continua e sempre in balia di cambiamenti. E i cambiamenti hanno interessato anche i rapporti umani: le persone si muovono per il mondo con facilità e grazie al fatto di essere altrettanto facilmente, diciamo così, on-line, le distanze si sono quasi azzerate. Una volta si attendevano mesi prima di poter avere notizie di chi “era partito”, oggi i tempi di attesa si sono notevolmente ridotti grazie a un altro strumento, figlio del progresso: le e-mail.
Questo termine ha un significato preciso: “Posta elettronica… messaggio inviato tramite posta elettronica”. È quindi il formato digitale della vecchia lettera scritta a mano e questi “testi elettronici” (mi si passi la licenza del termine) talvolta rispondono all’esigenza di comunicare emozioni e sentimenti, in un lasso di tempo brevissimo. Tuttavia, in questo caso, c’è un punto di vista un po’ “irreversibile”: la calligrafia è penalizzata. Nella lettera scritta a mano, la grafia è legata alla personalità di chi scrive, è una sorta di segno di “riconoscimento fisico” della persona, insomma una peculiarità ben definita. Con la scrittura a video, la calligrafia viene abbandonata e l’impatto visivo risulta impersonale.
Se sposto, però, l’osservazione verso la sostanza di quanto viene scritto, ritengo che il messaggio può essere profondo e personale seppur digitato su una tastiera universale.
Il progresso, poi, ha portato con sé anche la chiavetta USB, ovvero “memoria elettronica esterna assai capiente ma di ridottissime dimensioni che si inserisce nelle porte USB del computer”, in parole semplici: un utilissimo mezzo di archiviazione. In biblioteca è sicuramente affascinante scorrere l’indice sulle copertine dei libri fino a quando non si è trovato ciò che serve e lo si prende in prestito per poi riportarlo, ma con un mondo che corre richiedendo sempre più immediatezza, le USB non sono poi così male. Potremmo considerarle piccole biblioteche portatili caratterizzate da un tempo di divulgazione più immediato? Io credo proprio di sì!
Tirando le fila del discorso, credo che carta stampata e web non siano antagonisti ma complementari. E-Book, libro, pagine web di quotidiani di informazioni, carta stampata, l’uno non potrà mai sostituire totalmente l’altro e i cambiamenti non sono concettuali ma strumentali.
Personalmente non credo che la carta stampata corra il rischio di scomparire e il dibattito editoriale-digitale, è in realtà un dibattito che coinvolge due pensieri: progresso e la tradizione. E come in ogni campo dove i due elementi sono coinvolti, non si parla di antagonismo ma complementarietà. L’uno è utile all’altro, si tratta solo di trovare il punto di equilibrio nel mezzo delle due misure.
E, concludendo con un po’ di filosofia, nella vita è sempre una questione di equilibrio…
Poco critici, incredibilmente crudeli
di Alessandra Giannitelli
Poco critici, incredibilmente crudeli
Un minuto di silenzio: la critica ci ha lasciati. O meglio, ha lasciato il posto alla sua controfigura: l’ingiuria.
Leggendo molte recensioni, articoli o semplici commenti sparsi su riviste di cultura, blog e gruppi di lettura, riguardanti i candidati e i finalisti a premi prestigiosi nazionali ed internazionali, si ha l’inquietante sensazione che a farla da padrone sia un subdolo veleno insinuato tra le righe, il cui fine consiste nel collegare i gusti letterari dei critici – o di chi si improvvisa tale – a un’insensata quanto violenta frustrazione personale tradotta in disprezzo nei confronti degli autori di quei libri.
Sferzate sulla vita privata e familiare degli autori in questione, battute ai limiti della perversione mascherate da ironia, ma soprattutto totale assenza di rispetto e di spirito critico nel senso professionale del termine.
La domanda che ci si pone, arrivati a metà lettura di simili pseudo-critiche è: perché? Cosa può spingere a partire da un’opera letteraria con una vita propria e un significato a sé stante per arrivare a vere e proprie ingiurie tutt’altro che letterarie e professionali?
È questo il gioco, queste le regole a cui sottostare, d’accordo. Premi come lo Strega, il Campiello, il Nobel offrono visibilità e chiedono in cambio l’esposizione alla pubblica LAPIDAZIONE.
“La gloria è una forma di incomprensione, forse la peggiore” scriveva Borges in Pierre Menard, autore del Don Chisciotte. Perfetto. Ma se di premio letterario si tratta – per quanto giogo prettamente editoriale possa essere – cosa c’entrano commenti, cattiverie e veleni di ogni tipo sulla vita privata e sulla sensibilità stessa degli scrittori in gara? Che senso ha farne una questione personale?
Ancora una volta quello che dovrebbe essere lo spazio più aperto alle diversità e alle divergenze d’opinione, di quello stesso mondo che dovrebbe porsi al di sopra di certe meschinità – evitando bassezze da rubriche rosa e concentrandosi sull’essenza della scrittura – si dimostra inadatto al proprio ruolo.
Non è un “noli me tangere” che si chiede a chi si occupa di valutare opere più o meno meritevoli o di esprimere il proprio parere a lettura ultimata, ma semplice rispetto e un ridimensionamento dei toni che si sceglie di utilizzare nelle valutazioni.
Soprattutto, sarebbe auspicabile e corretto che la critica concernesse prettamente l’opera e tutto ciò che – letterariamente e non privatamente – ruota intorno ad essa.
L'uomo davanti allo scrittore
di Alessandra Giannitelli
L'uomo davanti allo scrittore
Un ricordo di Ugo Riccarelli
Abbiamo iniziato parlando di fanfole e gnosi antropologiche in una sala gremita di lettori che si stava lentamente svuotando. Lui, un'intera giornata alle spalle tra lavoro e incontri letterari, sorrideva. Un sorriso tenue e rassicurante, con cui sapeva accogliere ed avvicinare i suoi lettori.
Non era previsto. La nostra chiacchierata per la mia intervista non era annunciata né dovuta. Eppure non ha esitato neanche un istante ad accogliermi cavallerescamente accanto a lui su un piccolo divano della Feltrinelli di Largo Argentina, ad ascoltarmi – lui a me – a preoccuparsi del mio treno, degli orari, mentre tra una risposta e l'altra salutava amici e congedava addetti ai lavori. Era stato sufficiente avvicinarmi a lui e sorridergli.
Era così Ugo Riccarelli, sorrideva a quella vita che aveva fatto di tutto per demolirlo. Sorvolava. Sui suoi problemi, sulle complicazioni della sua salute, sulle difficoltà del suo stare al mondo. Si concentrava sulla gioia di esserci e non si risparmiava mai.
Amava vivere, amava perdersi tra le strade della sua Roma – città d'adozione ma alla quale era molto legato; amava camminare tra i suoi vicoli fino a perdere la percezione di sé e del suo percorso umano– prima ancora che di scrittore.
La sua scrittura era lo specchio attraverso il quale riusciva ad ammirare tutto ciò che lo circondava. Dolori compresi.
Tutti gli scrittori sono uomini e donne, prima ancora che autori delle proprie opere, ma lui era l'uomo davanti allo scrittore, era tutto ciò che la scrittura dovrebbe essere per tenere fede alla sua essenza: dare a intendere senza dire.
L'uomo Riccarelli è tra le righe di tutti i suoi romanzi. È il bambino che annaspa di notte in Le scarpe appese al cuore (Feltrinelli 1995) e il ragazzo sognatore e stravagante di Un uomo che forse si chiamava Schulz (Piemme 1998); lo si può riconoscere in Beniamino che osserva i matti attraverso la rete e contemporaneamente in Fosco, che nella casa dei matti ci vive (Comallamore, Mondadori 2009).
Persino in un libro di carattere storico come La repubblica di un solo giorno (Mondadori 2011) – in cui vengono ripercorse le tappe finali della proclamazione della Repubblica Romana – Ugo è davanti a Riccarelli. È il passante tra i vicoli di Trastevere, è il popolano che esulta e il nemico che fugge.
L'amalgama di tenacia e bellezza di Signorina – protagonista di L'amore graffia il mondo (Mondadori 2012, Premio Campiello 2013) – appartiene prima di tutto ad Ugo, come anche il corpo provato e la volontà di ferro di Mané Garrincha, a cui ha dato voce nel suo ultimo libro, intitolato appunto Garrincha (Perrone 2013).
Era l'anima stessa delle sue creazioni letterarie, un esempio di scrittura introspettiva e allo stesso tempo estroversa, in uno scenario contemporaneo popolato da serialità e da fantascienza travestita da realtà.
Soffermarsi sulle sfumature dei giorni che si accavallano e scivolano via, fermarli tra le righe di una storia, perché ci facciano compagnia ancora per un po'. Questo era l'uomo che precedeva lo scrittore, questo è ciò che, umilmente, Riccarelli ha provato ad insegnarci con la sua caparbietà e con la sua scrittura.
SOMMARIETTO
Ugo Riccarelli, scrittore scomparso il 21 luglio 2013 e vincitore del Premio Campiello 2013 con “L'amore graffia il mondo” (Mondadori 2012), metteva davanti a tutto la sua umanità, che riusciva a dimostrare in ogni occasione, in particolar modo attraverso la sua scrittura.
Nonostante le mille difficoltà, Riccarelli sapeva affrontare la vita con entusiasmo e con un sorriso che lo accompagnava in tutto ciò che faceva, ponendo sempre l'uomo davanti allo scrittore.
Elena Ferrante, una penna molesta, una penna geniale
di Marina Brunetti
Elena Ferrante, una penna molesta, una penna geniale
“Le cose più difficili da raccontare sono quelle che noi stessi non riusciamo a capire”
(La figlia oscura, 2006, p. 6)
Scrivere di Elena Ferrante mi appare quasi arduo, un po’ come riuscire a carpire qualcosa della sua riservatissima esistenza, o piuttosto della sua vociferata, senza riscontro, identità. Scriverne, da parte mia, mi appare quasi pretenzioso e riduttivo, insufficiente a poter dare la misura della devota ammirazione che ho per questa scrittrice, capace di “cum movere” con semplici frasi compiute che definirei, più volte, brillanti di luce propria, come i capelli di Amalia, madre di Delia: “Mi aveva fatto con capelli di ripiego […], non la pece lucente della sua chioma, non la pasta di vetro buio-luccicante dentro cui soffiavano il fiato tutti quelli che le dicevano: come sono belli” (L’amore molesto, 1992). Mi convinco allora che l’isolamento a cui si votano le varie donne dei suoi romanzi, Delia, Olga (I giorni dell’abbandono) o Leda (La figlia oscura), altro non è che un catalizzatore della loro già presente e inconsapevolmente fulgida luce interiore, come espresse in una frase un’amata poetessa, Alda Merini: “Più mi lasciano sola, più splendo”.
A blandire la curiosità ruotante attorno alla sua sfuggente figura ci pensa lei stessa:
“A mia scusante, però, ti dico solo questo: nei giochi per i giornali si finisce sempre per mentire e alla radice della menzogna c’è la necessità di offrirsi al pubblico nella forma migliore, con pensieri adeguati al ruolo, col fard che ci immaginiamo sia adatto”. (La frantumaglia, 2003, p. 91).
Un prendere o lasciare che ci fa, libro dopo libro, sempre più propendere per il primo, a piene mani. Come tutti i bibliofili sapranno, Elena Ferrante è soltanto il nom de plume della scrittrice, di cui non è dato conoscere né il volto, né i dettagli di vita. Centellinando di sé solo qualche vago accenno in interviste, rare, e lettere, ha rivelato di essere nata a Napoli e di aver vissuto a lungo all’estero. Fantastica e calzante la definizione che del suo scrivere ne dà Angelo Guglielmi, giornalista dell’Unità: “La Ferrante non raccoglie fiori dai campi per aggiustarli in mazzetti profumati, ma tira su il secchio dal pozzo” (16 dicembre 2003, pubblicato nell'edizione Nazionale (pagina 24), nella sezione "Cultura").
L’autrice, alle illazioni sul suo conto preferisce far parlare i suoi libri; in una lettera che inviò all’editore del primo romanzo spiega:
“Una volta scritti [i libri, ndr], non hanno bisogno dei loro autori […] Io amo molto i volumi misteriosi, antichi e moderni, che non hanno un autore preciso, ma che hanno avuto e continuano ad avere un’intensa vita propria”.
Un’affermazione veritiera, tuttavia la sua resta una scrittura così intensamente femminile, nelle pieghe, negli anfratti emotivi, nei recessi della coscienza, nell’affronto e riscatto dal dolore, nel difficile rapporto madre-figlia ed in copiosi altri dettagli, così come negli innegabili e profondi spunti personali e nelle sfumature sulla maternità, che sarebbe un colpo basso assestato al nostro orgoglio femminile venire in futuro a scoprire si sia trattato di maschia mano. Difficile scrivere di lei perché, come spesso accade con certi scrittori di cui poco o nulla si conosce, tutto prende corpo dalla sua intensissima penna, scrittura che scorre come rapido fiume ora descrittivo ora introspettivo, supera lo stomaco dopo avergli assestato bei colpi mirati e poi s’arresta in nevralgici punti, ora in pancia ora in cuore, in cui la sonda si fa cupa come il pensiero, scava la memoria cardiaca e porta trionfante in superficie qualcosa che avremmo voluto restasse impolverato. Scopriamo poi, a libro chiuso, che sono le nostre viscere a parlare di riflesso, i nostri organi più interni.
Nei suoi romanzi, da L’amore molesto, fino a I giorni dell’abbandono, a L’amica geniale, passando per La figlia oscura, si parla solo ed esclusivamente di donne, e sono donne ombrose, solari, misteriose, complicate, indelebili esempi di ricerca feroce sull’identità femminile e sulla madre. Ritratti di donne – gli uomini sono spesso tratteggiati in modo sfumato e marginale - che favoriscono inevitabili riflessi nel lettore, un meccanismo emotivo spesso caro alla femminea sfera: disfarsi, andare in frantumi, farsi appunto “frantumaglia” dopo essere cadute nel gorgo di sé, come madri e come figlie. La stessa Ferrante racconta di questo strano vocabolo ereditato dal dialetto materno, utile a spiegare come la madre si sentisse quando era tirata di qua e di là da impressioni contraddittorie che la laceravano:
"La frantumaglia è un paesaggio instabile, una massa aerea o acquatica di rottami all'infinito che si mostra all'io, brutalmente, come la sua vera e unica interiorità. La frantumaglia è il deposito del tempo senza l'ordine di una storia, di un racconto. La frantumaglia è l'effetto del senso di perdita, quando si ha la certezza che tutto ciò che ci sembra stabile, duraturo, un ancoraggio per la nostra vita, andrà a unirsi presto a quel paesaggio di detriti che ci pare di vedere" (La frantumaglia, 2003, p. 126).
Leda, ne La figlia oscura, del 2006, è una colta cinquantenne napoletana divorziata, che si prende una vacanza sullo Ionio; la partenza delle figlie non solo non ha generato, in lei, quella temuta “sindrome da nido vuoto” che coinvolge un po’ tutte le madri:
“Nessuno dipendeva più dalla mia cura e io stessa finalmente non mi ero più di peso” (p. 13) – ma se ne sente sollevata, senza colpe – “mi sentivo leggera come se solo allora le avessi definitivamente messe al mondo” (ibidem, p. 6).
L’incontro in spiaggia con Nina e con sua figlia Elena, ma soprattutto l’opaco gesto, l’appropriazione indebita, da parte di Leda, della bambola – simbolo fortissimo di una maternità forse perfetta – che la bambina stringe sempre a sé, rappresenta la prima tappa di un percorso di passione interiore: il gesto “perturbante” del furto infantile – che sovverte l’altrui serenità – che si fa esperienza “disturbante” e che la porterà a fare i conti, a viso aperto, con la propria coscienza di figlia e di madre, due mestieri che nessuno ti insegna.
L’essenza metaforica della bambola è una sorta di vibrante e non casuale filo rosso che si dipana fino all’incipit del più recente romanzo, L’amica geniale, del 2011 (primo volume di una trilogia che avrà, come seconda uscita nel 2012, quella di Storia del nuovo cognome), che inizia, appunto, con la sparizione di una bambola, in seguito mai più ritrovata. È interessante, e aggiungerei anche naturale, cercare di decifrare il significato di tale gesto e la ricorrenza dell’oggetto in sé: la bambola gettata nella cantina è lì a sancire simbolicamente una sorta di sacro patto di “sororanza” tra due amiche, l’iniziazione all’oscurità della condizione femminile, oppure segna la fine di una pubertà più mentale che fisica e, dunque, l’abbandono dell’infanzia stessa? O ancora è semplicemente “assenza, più acuta presenza”, per citare Bertolucci, qualcosa, cioè, che si è perduto e a cui si ripensa di tanto in tanto, nonostante il trascurabile valore, convincendosi che se non fosse accaduto la nostra vita avrebbe preso un altro corso?
L’amica geniale si discosta dai romanzi precedenti non solo perché le protagoniste in questo caso sono due, ma soprattutto perché, a differenza del nucleo narrativo degli altri, ascrivibile a un contesto di puro “isolamento”, come per Delia, Olga o Leda, descrive doviziosamente non un luogo “senza comunità” (come la scrittrice definisce l’isolamento in un’intervista rilasciata a Goffredo Fofi per Il Messaggero del 24 gennaio del 2002), bensì l’amicizia che stringe due bambine, Raffaella detta Lila ed Elena, Lenuccia; a questo, quasi simbiotico, percorso di vita fa da cornice un quartiere disagiato della Napoli anni ’50, dove le due crescono assistendo in prima persona alla lotta per la sopravvivenza e a drammatiche realtà di quotidiano degrado. Lila e Lenuccia sono due creature assai diverse: la prima ha le sembianze di un brutto anatroccolo, per di più selvatico, con il suo eccessivo cinismo, la sua feroce caparbietà:
“era uno stecco, sporca, sempre con qualche ferita... parlava solo un dialetto sferzante, pieno di maleparole, che stroncava sul nascere ogni sentimento di amore”.
Lila brilla di luce propria, seppur all’inizio fioca, ma diverrà, nel tempo, un cigno sensuale e naturale, colluso con il suo carattere sfacciato e quasi foriero di disgrazie. Un talento il suo, così come la sua affinata intelligenza, mortificati dalla vita grama del rione da cui non riuscirà, a differenza di Lenù, ad affrancarsi. Quest’ultima diligente, volenterosa, affidabile, dolorosamente consapevole del suo ruolo da seconda dopo Lila, nonostante i titoli scolastici ottenuti, è l’io-narrante di questo lungo viaggio che sente il bisogno di raccontare sin dall’inizio. Una dipendenza psico-fisica da Lila, la sua, che non viene, spesso, contraccambiata con paritaria devozione e attenzione:
“Sentivo che Lila non voleva essere più amica mia e quella idea mi dava una stanchezza come se avessi sonno... a volte mi andavo a sdraiare sul letto e dormicchiavo”.
Il distratto trascurare di Lila che si fa liquido e soporifero dolore in Lenuccia.
Uno dei comuni denominatori, forse il più rilevante, nei romanzi della Ferrante è l’eros, una passione che suscita Lila negli altri e che affiora anche attraverso lo sguardo accorto e ammirato di Lenuccia per lei, e questo anche perché “l’amore è sempre molesto o non è”, è comunque molestatore di un ordine, perché “una storia d’amore è sempre la storia di uno squilibrio” (come scrive la Ferrante al termine di un’intervista via e-mail al quotidiano Repubblica , nel settembre 2012, in occasione dell’uscita di Storia del nuovo cognome). L’autrice scava nella natura complessa della loro amicizia, ne percorre attenta la crescita e il condizionamento reciproco, gli scontri e i confronti, l’osservazione ripetuta l’una dell’altra, ne evidenzia i buoni sentimenti, l’ammirazione, la complicità, il mutuo sostegno, ma anche i cattivi, quali la gelosia, il senso di rivalsa, l’ammirazione che si fa invidia latente, sentimenti che nutrono, comunque, un rapporto amicale solido, robusto, che perdurerà fino all’età adulta. Lila, distratto nocchiero della quieta nave Lenuccia, inconsapevole induttrice di umorali cambiamenti, caparbio timone di cuori pacati in tempesta.
Scrive, a tal proposito, Marguerite Yourcenar sull’eros:
“Se un essere solo anziché ispirarci tutt’al più irritazione, piacere o noia, ci insegue come una musica e ci tormenta come un problema, se trascorre dagli estremi confini al centro del nostro universo, e infine ci diventa più indispensabile che noi stessi, ecco verificarsi il prodigio sorprendente, nel quale ravviso ben più dello sconfinamento dello spirito nella carne che un mero divertimento di quest’ultima” (Memorie di Adriano, 1951, p. 11).
“I dolori sono insegnamenti”, diceva Erodoto nelle Storie (Παθήματα - μαθήματα 1. 207), tutti. Ma come reagire quando il dolore è vivo, nascituro inatteso e dirompente, ci coglie impreparati, è pulsante come un fiotto di sangue che non sappiamo arginare, gocciola terrore, ansia, senso di vuoto, disperazione? Non esiste soffio umano o divino potente che spazzi via dalle bruciature il fuoco dell’eros tradito, insieme al senso di abbandono. Come non restare, ancora una volta, arpionati da una scrittura generata dal ventre?
“scrivere veramente è parlare dal fondo del grembo materno” (pp. 141-142).
“Un pomeriggio d'aprile, subito dopo pranzo, mio marito mi annunciò che voleva lasciarmi”.
I giorni dell’abbandono (2002) è un romanzo il cui incipit evoca, in qualche modo, quello de L’amore molesto (1992): ”Mia madre annegò la notte del 23 maggio, giorno del mio compleanno”; un annegamento figurato, certo, ma un altrettanto “scendere nel gorgo muti” di pavesiana memoria. Il primo romanzo era incentrato sul triangolo maternità-sangue-morte, la seconda opera prende spunto da un lutto anch'esso simbolicamente legato alla perdita della madre, perdita dell'amore primigenio, punto al quale ogni abbandono sembra ricondurre. Olga l’abbandonata, che ha sacrificato una propria carriera a vantaggio di un’assidua presenza nella vita dei figli, moglie e donna che nasce e si nutre dei toni alti e gridati di Napoli e si leviga e disciplina per anni a Torino, per divenire poi quieta e pacata ancella, con un destino di parabola avversa. La deflagrazione interiore si riverbera su tutto e tutti, come fumo cementizio dopo il crollo, è scompaginamento di ruolo di figlia, moglie e madre. L’abbandono subìto che diventa, a sua volta, cessione del controllo fisico, psicologico, linguistico: l’eloquio pacato diventa violento e scurrile, così come i gesti, di una disperazione che è carnale e cerebrale al tempo stesso, in linea fatale con i suoi gusti letterari:
“amavo la scrittura di chi ti fa affacciare da ogni rigo per guardare di sotto e sentire la vertigine della profondità, la nerezza dell'inferno” (p. 21).
“Io sono il mio cielo e il mio inferno”, diceva von Schiller, anzi, è il mio corpo a divenire ricettacolo dell’inferno interiore che vivo, è l’agnello sacrificale, proprio perché rifiutato e scartato, su cui si riversa il linguaggio del delirio:
“L'andamento che ordina eventi è solo il momento dell'accumulo di energia prima di una nuova tromba d'aria. Un'immagine, questa, che mi torna utile: permette di pensare a un tempo del dolore che ci investe avanzando a vortice; ma anche a una scrittura delle emozioni che sia sonorità del respiro, un vento dei polmoni che, producendo musica, fa roteare relitti d'epoche diverse e infine mulinando passa. Delia e Olga raccontano dal di dentro di questo vorticare. Anche quando rallentano non prendono le distanze, non contemplano, non si ritagliano spazi esterni di considerazione. Sono donne che dicono la loro storia dal centro di una vertigine” (La frantumaglia, 2003, p.117).
È nella carne che si verga l’osceno eloquio:
“andare al fondo, abbandonarmi, sprofondare sorda e muta nelle mie stesse vene, nel mio intestino, nella vescica” (p. 110).
Anche qui, come nell’Amore molesto, le fasi cardine di donna si sovrappongono e la fanciulla incancellabile che era torna a parlare con gli occhi di allora, ricordando a sé stessa, come bruciante contrappasso, l’immagine della “poverella”, sintesi di donna abbandonata, descritta con complice indulgenza dalla madre:
“Un dolore così appariscente cominciò a disgustarmi. Avevo otto anni ma mi vergognavo per lei, non si accompagnava più ai figli, non aveva più l'odore buono. Adesso veniva giù per le scale rigida, il corpo prosciugato [...]. Era diventata di pelle trasparente sulle ossa, gli occhi annegati in pozze violacee, le mani di ragnatela umida. Mia madre esclamò una volta: poverella, è diventata secca come un'alice salata. Da allora la seguii ogni giorno con lo sguardo per sorvegliarla mentre usciva dal portone senza la borsa della spesa, senza occhi nelle occhiaie, il passo che sbandava. Volevo scoprirne la natura nuova di pesce grigioazzurro, i grani di sale che luccicavano su braccia e gambe” (p.15).
Questa è l’immagine persecutoria di Olga, assimilarsi alla “poverella”, finendo poi per assomigliarle sempre di più, fino a quando il marito non muore - dentro di lei - attraverso la morte reale del suo cane. Tutta la parte centrale del romanzo è occupata dal racconto di una sola giornata, quella decisiva che fa da snodo all’intera vicenda, quando la crisi di Olga tocca il suo apice. Poi, il verificarsi di un nuovo evento doloroso, la morte del cucciolo domestico, la contemplazione dell’agonia dell’animale:
“Tenersi dunque a queste nozioni: il cane è vivo, per ora; la donna invece è morta, annegata da tre decenni; io ho smesso di essere una bambina di otto anni trent'anni fa. Per ricordarmene mi morsi una nocca a lungo, fino a sentire dolore. Poi sprofondai nel tanfo malato del cane, volli sentire solo quello” (p. 127), provvedono a dissipare il dolore originario, preludendo alla rimozione di quella condizione di labilità, di distonia, che nella protagonista era venuta a maturare rispetto alla realtà:
“Quella prossimità di morte reale, quella ferita sanguinante della sua sofferenza, di colpo, insperatamente, mi fece vergognare del mio dolore degli ultimi mesi, di quella giornata sovratono di irrealtà. Sentii la stanza che tornava in ordine, la casa che saldava insieme i suoi spazi, la solidità del pavimento, il giorno caldo che si distendeva su ogni cosa, una colla trasparente. Come avevo potuto lasciarmi andare a quel modo, disintegrare così i miei sensi, il senso dello stare in vita”.
Lentamente assistiamo al progressivo recupero di sé, di una parvenza di normalità, di cosmos contro caos, soprattutto la vediamo recuperare il suo ruolo ancestrale di femmina, di madre, in virtù di quell’impeto e di quella passione che sembrava aver dimenticato:
“Devo reimparare il passo tranquillo di chi crede di sapere dove sta andando e perché”.
Il libro segue gradualmente questa strada, questa riappropriazione di sé, quando l’autodeterminazione e la forza diventano nuovamente le proprie risorse, perché poi
in fondo la vita non è che "un sussulto di gioia, una fitta di dolore, un piacere intenso, vene che pulsano sotto la pelle, non c’è nient’altro di vero da raccontare”.
Saldare insieme gli spazi, ma soprattutto le crepe della vita, mi ricorda quello che i giapponesi fanno quando riparano un oggetto rotto: ne valorizzano la crepa riempiendo la spaccatura con dell'oro.
Essi credono che, quando qualcosa ha subito una ferita ed ha una storia, diventi più bello.
Pagina 9 di 9
«InizioPrec.123456789Succ.Fine»