Letteratura
Una donna, Medea
di Eleonora Mammana
La tragedia di Euripide dal luoghi suggestivi del mito arriva fino ai nostri giorni, alle nostre vite. Muore e rinasce in continuazione, nelle cronache del quotidiano.
La memoria dei classici rimane una guida preziosa, sempre…
“Nessuno mi creda vile, né debole, o inetta, ma di indole opposta, tremenda con i nemici, benevola con gli amici; infatti la vita di tali persone è gloriosissima.”
La prima volta che ho letto “Medea” di Euripide sono rimasta folgorata. L'imponenza della protagonista, il pathos, l'introspezione psicologica e l'uso sapiente della parola me ne hanno fatto perdutamente innamorare. Gli spunti di riflessione che quest'opera offre sono innumerevoli, ma vorrei soffermarmi in particolare sulla figura di Medea.
Prima di tutto chi è Medea? È un personaggio del mito, controverso e tanto celebre da ispirare nei secoli innumerevoli scrittori antichi (Apollonio Rodio, Seneca, Ovidio, solo per citarne alcuni) e più o meno moderni (P. Corneille, T. Corneille, Christa Woolf, Corrado Alvaro, i più noti), ma anche pittori (famosa è “La furia di Medea” di Delacroix) e registi (su tutti Pasolini, con la sua “Medea” interpretata da una splendida Maria Callas). Secondo le versioni più accreditate è nipote di un dio, il Sole, parente di una maga, Circe, e figlia del re della Colchide, Eeta. È considerata da tutti sapiente, conosce le arti magiche e con esse, per volere di Afrodite che la fa innamorare, aiuta Giasone a rubare il Vello d'Oro a Eeta, per riappropriarsi del trono di Iolco. Pare anche che abbia ucciso il proprio fratello per ritardare l'inseguimento da parte del padre, impegnato a raccogliere le sue spoglie, e poi, non avendo Giasone ottenuto comunque il potere che gli spetta, provoca anche la morte di Pelia, l'usurpatore. Infine, divenuta sua sposa e avuti due bambini, fugge con lui a Corinto. Giasone, però, avido di potere, la lascia per sposare la figlia del re Creonte.
La tragedia di Euripide inizia qua. Medea è furiosa, il suo onore è stato violato. Lei che ha lasciato la sua patria e ha sacrificato la sua stessa famiglia per seguire quest'uomo, è stata tradita. Ma non è il tradimento a cui siamo abituati a pensare noi oggi. Medea non è gelosa. È sdegnata. Giasone ha tradito il giuramento di matrimonio, il patto solenne che le ha fatto, e Medea, ora, non è più sua sposa legittima. Come Achille è stato ferito nell'orgoglio da Agamennone, così Medea è stata colpita nella timè, nell'onore, e in quanto eroe tragico, non può che ribellarsi. Achille rinuncia alla gloria e abbandona il campo di battaglia, sacrificando, pur inconsapevolmente, la persona a lui più cara, Patroclo, che gli si sostituisce, morendo. Così Medea sacrifica ciò che per lei, come per ogni donna, è più importante, i suoi figli, ma lo fa consapevolmente.
A questo punto è, però, doveroso un chiarimento. Ogni tragedia greca è fondata su un conflitto inconciliabile, quello fra libertà e necessità, fra la volontà dell'uomo di raggiungere uno scopo e l'impossibilità di farlo. Sull'uomo grava sempre, infatti, un impulso a commettere un errore, una hamartia, a causa del quale patisce. Il senso del tragico sta in questo, nella consapevolezza che l'uomo ha di non poter non sbagliare e di agire nonostante conosca la condanna che pesa sulla sua azione. L'eroe, però, può operare una scelta; può scegliere liberamente di andare incontro al proprio destino, di compierlo senza subirlo.
La “colpa” di Medea è stata innamorarsi di Giasone, errore che è stata indotta a compiere da Afrodite. Ora può scegliere di subire passivamente il suo doloroso fato, andando in esilio con i figli, oppure può decidere di vendicarsi, anche se questo significa procurare a se stessa “un male due volte più grande” (v. 1046). Per prima cosa, infatti, decide di uccidere la nuova sposa di Giasone, che l'ha disonorata contraendo con lui queste nuove nozze, e Creonte, il padre di lei, che l'ha cacciata dalla sua terra. Ma poi capisce che la vendetta in questo modo non sarebbe completa. Per colpire davvero il traditore deve privarlo dei suoi figli. Il monologo in cui, nel quarto episodio, prende questa sofferta decisione, è struggente: “Ahi, che farò? Il cuore mi manca, o donne, quando vedo lo sguardo luminoso dei figli! No, non posso! Addio, miei propositi di prima! Condurrò i miei figli via da questa terra. Perché mai per far soffrire il padre loro mali, io stessa dovrei procurare un dolore due volte più grande. No, non posso, addio miei propositi! Ma che cosa sento? Voglio guadagnarmi il riso lasciando impuniti i miei nemici? Bisogna osare queste cose! […] Ahi mio animo, no non farlo! Lasciali, sciagurato, risparmia i figli! Là vivendo con me ti daranno gioia. Ma no, per i demoni inferi dell'Ade, non sarà mai che io abbandoni i miei figli perché i miei nemici li oltraggino! Devono assolutamente morire: e poiché è necessario, io li ucciderò, io che li ho generati!… ” (vv. 1042-1051; 1056-1061).
Medea sente la necessità di compiere la sua vendetta per non essere derisa e per non lasciare che i suoi nemici si vendichino sui suoi figli. Ma non è l'unico motivo per cui decide di compiere questo gesto estremo. Per l'uomo greco se la fine in battaglia garantiva la gloria eterna, avere un figlio voleva dire lasciare una parte di sé in vita dopo la sua morte. Ebbene Medea, uccidendo i suoi figli e la nuova sposa di Giasone, lo priva della sua prole presente e futura. In questo modo l'uomo non ha più motivo di vivere. È una pena ben peggiore che togliergli la sua stessa vita. Ma come trova il coraggio di compiere una simile atrocità? Medea non è una donna comune; è parente di dei, è una maga, è sapiente, non può cedere a sentimenti ordinari come l'amore materno. È un eroe, e, in quanto tale, ha una dignità da far rispettare. Si tratta di una scelta estrema, ma è una necessità, un dovere, e racchiude in sé tutto il senso del tragico.
Ma Medea non è solo questo; non è solo un eroe. È anche una donna, se pure non comune, e in quanto tale vive in una condizione di inferiorità. Nel primo episodio si rivolge al coro formato da donne Corinzie e recita un vero e proprio “manifesto” della condizione femminile dell'epoca: “Fra tutti gli esseri che hanno anima e ragione, noi donne siamo la razza più sventurata; innanzitutto è necessario che compriamo con una grossa dote uno sposo, padrone del nostro corpo; infatti, questo è un male più doloroso di quello. E in questo c'è un gravissimo rischio: prenderlo cattivo o buono. Infatti non sono onorevoli i divorzi per le donne e non è possibile ripudiare il marito. Bisogna che giunta tra nuovi costumi e leggi sia un'indovina, non avendolo saputo nella casa paterna, di quale compagno di letto, soprattutto, le toccherà mai.... ” (vv. 230-240). Il brano prosegue con l'indicazione di quanto poi, il parto, per la donna, non sia meno rischioso del combattere in guerra, per l'uomo. Medea ha scelto di sposare Giasone e quindi di conformarsi all'etica greca di dipendere da un uomo. Ma nel momento in cui viene tradito il suo onore, reagisce, mostrando il suo lato eroico.
Infine, non meno importante, Medea incarna la figura del “diverso”. È straniera, è sapiente, è una maga. Tutto ciò la rende pericolosa. Creonte, nel primo episodio, afferma esplicitamente di temerla: “Non bisogna velare le parole: ho paura che tu faccia qualche male irreparabile a mia figlia. E molte ragioni concorrono a questo timore: tu per natura sei abile ed esperta di molti malefici, e inoltre soffri, privata del letto del tuo uomo... ” (vv. 281-286). Ma anche da questa condizione Medea si riscatta, usando proprio le sue arti per vendicarsi. Manda, infatti, i doni che suo nonno, il Sole, le ha fatto, una veste e una corona, intrisi di veleno, alla giovane sposa di Giasone, con la scusa di volerla persuadere a non mandare in esilio almeno i suoi figli. Ma la fanciulla, non appena li indossa, si sente avvampare e le fiamme sprigionate dalle vesti la uccidono. Il padre, giunto a soccorrerla, viene colpito dal medesimo fuoco e muore con lei.
La tragedia si conclude con Giasone disperato che supplica Medea di lasciargli almeno seppellire i figli, ma lei, dopo averlo accusato di essere il vero fautore della loro morte, viene portata via, con i loro corpi, dal carro del Sole. Medea è pertanto intoccabile, è una creatura “sacra”: (rivolta a Giasone) “Se hai bisogno di me, di' pure se vuoi qualcosa, ma non mi toccherai con la mano. Il Sole, padre di mio padre, mi ha dato tale carro, difesa da mano nemica.” (vv. 1319-1322). Scampa, perciò alla vendetta dei nemici. Ma, del resto, la sua pena, l'ha già scontata.
Euripide: Abbiamo scarse e spesso contraddittorie notizie sul suo conto, influenzate per lo più dalla Commedia Antica. Sicuramente è vissuto nel V secolo a.C.; è nato a Salamina nel 480 o, più probabilmente, nel 485 a.C., ma fu iscritto al demo ateniese di Phlya. I suoi genitori erano verosimilmente di condizione elevata, visto il suo ruolo di purphoros (portatore di fuoco) di Apollo Zosterios, da bambino, e alla sua partecipazione, in qualità di coppiere, alle danze sacre organizzate ad Atene al santuario di Apollo Delio, funzioni destinate solo agli alti ranghi della società. Pare che fosse un atleta e che si sia dedicato al pancrazio e al pugilato. Si occupò anche di pittura. Indubbiamente entrò in contatto con diversi filosofi (Anassagora, Socrate, Protagora, Prodico), ma non fu discepolo di alcuno. Quanto alla sua vita privata pare che si sia sposato due volte. Non prese mai parte alla vita pubblica. Morì in Macedonia, alla corte di Archelao, presumibilmente intorno al 407 a.C. Compose probabilmente 92 drammi, ma gli alessandrini ne conoscevano 78, di cui tre spuri; a noi sono giunte solo 19 opere, escluso un apocrifo.
Moravia, uno sguardo tra disprezzo e indifferenza
di Marina Brunetti
I libri di Moravia ancora oggi hanno molto da dire. Il suo occhio critico, lucidissimo, spietato, rappresenta uno modello di scavo a cui devono guardare le nuove generazioni…
“In Italia niente dispiace di più quanto una lucida intelligenza fornita di disgusto e ironia” (V.Brancati)
Vi sono libri eterni, perché eterno e squisitamente personale è il nostro “male di vivere”, non importa che siano stati scritti pochi anni orsono o quasi un secolo fa, restano sempre validi e mirabilmente compiuti proprio perché, al di là dello spaccato di vita, più o meno marcato, che ritraggono, sanno essere inconsapevolmente e disperatamente attuali. Ora, per noi, è il tempo in cui, come sosteneva Nietzsche, “non c’è più un alto e un basso, una destra e una sinistra, ogni cosa si avvolge su se stessa in un’assenza assoluta di orizzonte e di orientamento”, quello, cioè, che definiva come “l’ospite inquietante”, il nichilismo (illuminante, a tal proposito, il saggio del filosofo U.Galimberti, Feltrinelli, 2007).
Quasi un secolo è trascorso da quando Moravia, costretto a letto da un forzoso immobilismo scrisse, neppure ventenne, tra il ‘25 e il '28, questo capolavoro di romanzo che è Gli indifferenti:“In quel tempo scrivere per me fu un surrogato delle esperienze che non avevo fatto e non riuscivo a fare”. Di qui la forte preferenza per la tragedia che non era “il frutto di una riflessione fredda e critica, bensì quello di un’inclinazione sentimentale molto profonda”.
Eppure, pochi libri incarnano appieno un certo clima attuale che ci ritroviamo a respirare e a fare nostro come venefica aria; pochi personaggi riflettono uno scontento o, per meglio dire, un malcontento di vita avviluppante, povero retaggio che lasciamo ai nostri figli. I meccanismi inceppati del nostro ticchettio abitudinario ci rendono abulici, indifferenti, poco ricettivi, ancor meno reattivi, se non negli accessi rabbiosi, nei gesti inconsulti, nell’anassertività, nell’intemperanza, nello scarso equilibrio, nella frustrazione come sollecita e indesiderata dama di una compagnia che è solo quella con noi stessi, forse globalmente connessi, ma condannati a una deriva dell’esistere.
A distanza di tempo, trovo avvilenti affinità tra Carla e Michele Ardengo, due dei cinque protagonisti del romanzo che si svolge nell’arco di due giorni, e i giovani di oggi, in cui la qualità del disagio dimora proprio nell’assenza di valori, nell’afasia emotiva, nel futuro temuto come una minaccia piuttosto che essere sperato come una promessa, nella loro, spesso, incapacità di dare un nome alle emozioni, pur riconoscendo e assecondando le pulsioni. I due fratelli moraviani si votano a una vita sempre uguale, a una recita perenne d’ipocrisia e monotonia, conforme alla vacuità morale della borghesia degli anni ’20 e ’30, e gravata da una sorta di bifronte noetico, in cui i gesti, le azioni, non sono il frutto di ciò che pensano, ma semplicemente ciò che gli interlocutori spesso si aspetterebbero da loro. Tanto fa lo stesso, si convince Carla dentro di sé quando, ondivaga, non sa decidere se cedere alle lascive lusinghe dell’amante materno, Leo Merumeci:
“Entrò Carla; aveva indossato un vestitino di lanetta marrone con la gonna così corta, che bastò quel movimento di chiudere l’uscio per fargliela salire di un buon palmo sopra le pieghe lente che le facevano le calze intorno alle gambe; ma ella non se ne accorse e si avanzò con precauzione guardando misteriosamente davanti a sé, dinoccolata e malsicura; una sola lampada era accesa e illuminava le ginocchia di Leo seduto sul divano; un’oscurità grigia avvolgeva il resto del salotto.
“Mamma sta vestendosi,” ella disse avvicinandosi “e verrà giù tra poco.”
“L’aspetteremo insieme,” disse l’uomo curvandosi in avanti; “vieni qui Carla, mettiti qui.”
O trattenere ancora dentro di sé quella rabbia compressa, quel disprezzo solenne nei confronti della falsata allure della stessa madre che cerca, pirandellianamente, di mascherare la realtà per salvare le impudiche apparenze:
“Per te, finito […] per te … ma per noi … per me” […] “Se tu sapessi”, ella continuò con quella voce bassa, a cui il risentimento marcava le parole e prestava un singolare accento come straniero, “quanto tutto questo sia opprimente e miserabile e gretto, e quale vita sia assistere tutti i giorni, tutti i giorni …”.
Tutti, infatti, siamo condannati a vivere una vita non propria, per salvaguardare le apparenze:
“Perché rifiutare Leo? Questa virtù l’avrebbe rigettata in braccio alla noia e al meschino disgusto delle abitudini; e le pareva inoltre, per un gusto fatalistico di simmetrie morali, che questa avventura quasi familiare fosse il solo epilogo che la sua vita meritasse; dopo, tutto sarebbe stato nuovo; la vita e lei stessa”; […] “Finirla”, pensava “rovinare tutto” e le girava la testa come a chi si prepara a gettarsi a capofitto nel vuoto.
Una sorta di vertigine, quella di Carla, che Kundera (L’insostenibile leggerezza dell’essere) definisce ebbrezza della debolezza. Ci si rende conto della propria debolezza e invece di resisterle, ci si vuole abbandonare a essa. Ci si ubriaca della propria debolezza, si vuole essere ancor più deboli, si vuole cadere in mezzo alla strada davanti a tutti, si vuole stare in basso, ancora più in basso.
Gli indifferenti è un romanzo di “figure perdute senza speranza nella vita più vasta”, la realtà italiana di allora ne esce con le ossa rotte dall’impietoso e poco benevolo tratteggio che Moravia ne fa, come non ne uscirebbe bene oggi, se Alberto Pincherle fosse ancora vivo. La spregiudicatezza sentimentale che eccede nel malaffare, l’egotismo belluino di un Leo Merumeci, che sfrutta la crisi economica degli Ardengo per prendersi anche la villa di famiglia, approfittando della scadenza di un’ipoteca, o di una Mariagrazia che fa scempio dei valori sacramentali della convivenza fingendo di esaltarli, i figli di lei che fanno finta di non sapere che Leo è l’amante della madre e il sacrificio cruento che forse loro vorrebbero eseguire, sangue che tuttavia non scorre mai. A tutto questo cumulo di macerie morali fa da contraltare un volto diverso, quello della fragilità morale di Carla e di Michele, dell’indecisione emotiva, nel sentimento di una rivolta che è solo superficiale, mai attuabile perché tanto “La vita non cambia”, pensa Carla nel suo vagheggiato obnubilamento dei sensi, “non vuole cambiare”; questo anche perché, come diceva Dostoevskij, ‘l’uomo è un essere che si abitua a tutto’, e questa è la sua migliore definizione. Michele è forse l’unico ad avere un sussulto di ribellione che vorrebbe tradurre in un ‘gesto risolutore’, ma è una rivolta interiore che, spiandosi allo specchio, è sopraffatta dalla sua stessa indifferenza, dalla sua, come degli altri, irrisolvibile inanità:
Un disgusto opaco l’opprimeva; i suoi pensieri non erano che aridità, deserto; nessuna fede, nessuna speranza alla cui ombra riposare e rinfrescarsi; la falsità e l’abiezione di cui aveva pieno l’animo egli le vedeva negli altri, sempre, impossibile strapparsi dagli occhi quello sguardo scoraggiato, impuro che si frapponeva tra lui e la vita; un po’ di sincerità, si ripeteva riaggrappandosi alla sua vecchia idea fissa, “un po’ di fede … e avrei ucciso Leo … ma ora sarei limpido come una goccia d’acqua”.
Il gesto mancato di un giovane Amleto che vorrebbe amare sua madre, pur detestandola.
Capolavoro d’analisi psicologica e lucidità, il romanzo presenta i temi principali della narrativa di Moravia: il comportamento sessuale e il rapporto con il denaro come chiave interpretativa della realtà umana e la rappresentazione della debolezza della volontà, morbo esistenziale che condanna all’ ‘indifferenza’, impronta del degrado del ‘buon senso’. Da qui la critica al mondo borghese fascista che è, si badi bene, un effetto e non lo scopo dell’autore:
“Se per critica antiborghese s’intende un chiaro concetto classista, niente era più lontano dal mio animo in quel tempo – afferma Moravia in “L’uomo come fine” (Milano, 1972), a proposito del suo primo romanzo – “Essendo nato e facendo parte di una società borghese ed essendo allora borghese io stesso, ‘Gli indifferenti’ furono tutt’al più un modo per farmi rendere conto di questa mia condizione. […] Che poi sia risultato un libro antiborghese è tutta un’altra faccenda. La colpa o il merito è soprattutto della borghesia”.
L’Italia ufficiale reagì assai male a questo libro, per più di un anno non venne pubblicato, lo stile aspro e spietato non venne apprezzato, così come lo svelamento dell’uomo che “vuole, non vuole e disvuole”, come lo definì Croce, che non piacque e ha continuato a non piacere alla media cultura italiana.
Le stesse tematiche, il sesso e il denaro, dipanate attraverso una sinossi del tutto differente, sono ravvisabili anche nel romanzo moraviano "Il disprezzo”, che è l’amore coniugale che si tramuta nel suo opposto, è quasi l’io narrante che fa parlare i protagonisti, Riccardo ed Emilia, e li manipola, ne modifica i ruoli fino al tragico epilogo finale.
Narrato da Alberto Moravia nel 1954 e pubblicato da Bompiani, si apre nella Roma borghese anni ’50 con i nobili propositi di Riccardo Molteni, uno sceneggiatore cinematografico ma di chiara vocazione teatrale, che presta il proprio genio a svilenti copioni, al solo scopo di compiacere la propria moglie, gratificandola di una casa di proprietà e di una vita senza ansie. Nell’incomparabile finezza del tratteggio psicologico proprio di Moravia, il romanzo si dipana in un alternarsi di riflessioni profonde, di interpretazioni di gesti e di pensieri che coinvolgono la capricciosa Emilia e il suo attento marito scrutatore Riccardo, desideroso di capire e di sovvertire con la ragione gli ormai sfilacciati sentimenti che la donna non si cura più neppure di nascondere e di cui lui, marito devoto, non riesce a spiegarne l’eziologia:
“io ti disprezzo...ecco quello che provo per te, ed ecco il motivo per cui non ti amo più...Ti disprezzo e mi fai schifo ogni volta che mi tocchi...Eccola la verità...ti disprezzo e mi fai schifo.”
Tanto emotivo accanimento è inspiegabile per un uomo pacato e riflessivo come Riccardo, abituato a risolvere piccoli drammi quotidiani come a portare avanti grandi frustrazioni lavorative con la forza della ragione:
“si svena del suo miglior sangue per il successo di altri e, sebbene la fortuna del film dipenda per due terzi da lui, non vedrà mai il proprio nome sui cartelloni pubblicitari dove sono invece indicati quelli del regista, degli attori e del produttore.
Il disprezzo che Emilia prova per lui non verrà mai sanato, non se ne conoscono le cause o il pretesto scatenante, né se ne verrà mai a capo, al punto che un sano e costante “Perché?” aleggerà fino all’ultimo nella mente del lettore, quasi a voler dare una possibile, seppur tardiva spiegazione, al protagonista sfortunato. Una domanda, questa, che assurge ad interrogativo universale sulla incomprensibilità delle relazioni umane, parafrasando la grande Alda Merini: ”In fondo, in questa vita nessuno viene mai capito veramente”:
“un male incerto provoca inquietudine, perché, in fondo, si spera fino all’ultimo che non sia vero; ma un male sicuro, invece, infonde per qualche tempo una squallida tranquillità.”
Assistiamo dunque inermi allo sgretolamento progressivo di Riccardo, al dolore che lo trasfigura, all’incomprensibilità che gli sconvolge il campo onirico in cui arriva a sognare la realtà che vorrebbe, proprio mentre un assurdo quanto banale incidente mette fine a tutti gli interrogativi, cosi come alle affettate maniere da viziata di Emilia, modesta dattilografa assurta alla velleitaria condizione borghese.
La crisi coniugale è il perno attorno cui ruota tutta la trama del romanzo, insieme al cinema, visto come mondo piegato alle esigenze di mercato e al riferimento all’Odissea; Battista, il produttore di Molteni, vorrebbe infatti che Riccardo creasse una sceneggiatura sulla falsariga del capolavoro omerico, dandole tuttavia un aspetto più spettacolare e in un certo senso volgare, con presenze femminili seminude e un Ciclope somigliante a King Kong.
Il testo omerico, tuttavia, subisce molteplici interpretazioni da parte dei personaggi nel romanzo moraviano, rappresentando in qualche modo lo specchio in cui Riccardo si riflette ansioso di trovare spiegazioni, dopo che il regista tedesco Rheingold ha insinuato in lui il germe del dubbio, propendendo per una sceneggiatura di stampo più analitico e psicologico: non è possibile che Ulisse abbia lasciato Itaca volontariamente perché non andava più d’accordo con sua moglie? Che avesse fatto di tutto per ritardare il suo ritorno a casa? Nella spiegazione di Rheingold, Ulisse, per amor di pace e per avidità di doni, consiglia alla moglie di accettare la corte dei Proci già prima della sua partenza per Troia, distruggendo così con la sua prudenza l’amore di Penelope, la quale accetterà il marito al suo ritorno solo a patto che egli dimostri di “reagire da uomo” ed uccidere i pretendenti.
Riccardo come Ulisse, Battista come Antinoo ed Emilia come una cieca e insensata Penelope che cede, stavolta lei, alle sirene del produttore, incapace di riconoscere il marito, così come l’omerica protagonista nel mendicante giunto a palazzo; un disconoscimento che getta lo stesso Riccardo nell’incapacità di identificare se stesso:
“Ciò che mi faceva soffrire di più, naturalmente, era la nozione di essere adesso non soltanto non più amato, ma anche disprezzato; però, incapace del tutto di trovare un motivo qualsiasi, anche il più leggero, per questo disprezzo, provavo un senso violento di ingiustizia e, insieme, insieme, il timore che, in realtà, ingiustizia non ci fosse e che il disprezzo fosse obbiettivamente fondato e che io non me ne rendessi conto, mentre per gli altri era cosa evidente. [...] Ora, ecco, quella frase di Emilia mi faceva sospettare per la prima volta di non conoscermi né giudicarmi qual ero, e di essermi sempre adulato, fuori di ogni verità.”
Un realismo tragico, di intensa drammaticità, magnificamente scritto e in cui si libra la cinica levitas dell’una, Emilia, capace di distruggere, nel disprezzo avulso da razionale spiegazione, l’intera esistenza dell’altro.
Intervista: Una donna
di Francesca Pacini
Ester Basile è una donna straordinaria. Sempre in movimento, organizza iniziative che lasciano il segno, come il festival letterario di Narni. Concentrata sulle tematiche del femminile, non scivola mai nella retorica e nella banalità. E i risultati si vedono…
di Francesca Pacini
Quando è iniziata la tua passione per la lettura? Ci racconti il tuo percorso?
La mia formazione letteraria è iniziata in giovanissima età nella biblioteca dei nonni paterni
attraverso tutta la letteratura russa e dai nonni materni con la sapienza di mia nonna Maria
che mi affabulava con i suoi discorsi sulla Sicilia sulla scrittura, sulla tradizione e mi avvicinava al
linguaggio del cinema.
Sono seguiti anni di coscienza politica e di approfondimento sulla storia delle donne e sulle loro
produzioni saggistiche e letterarie e d’indagine filosofica attraverso il lavoro in Istituto Italiano
Per gli Studi Filosofici di Napoli
Anche la Presidenza della Consulta della Regione Campania per le pari opportunità mi ha condotto ad una verifica sul campo.
Come è nata l'idea del festival di Narni? Ci racconti la sua storia?
L’Idea del festival giunto alla VI Edizione a Narni, “Alchimie e Linguaggi di donne”, è nato dopo 25 anni di pratica con le donne e di studi in Storia delle Donne e Archivi a seguito della mia formazione con la Società delle Storiche e con Annarita Buttafuoco prima, delle Filosofe e delle Letterate. Anche a seguito della presenza istituzionale come Presidente della Consulta Regionale della Campania per Pari Opportunità ma soprattutto per la passione per la ricerca. A seguito dell’impegno come filosofa da 30 anni in seno ad un istituto che ha rappresentato la filosofia nel mondo. Ecco perché prima ho ideato La tela del mediterraneo, progetto che da dieci anni è in seno all’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli e che porto avanti con seminari nazionali ed internazionali per approfondire la cultura e i diritti nell’area del Mediterraneo. Il festival vuole essere quindi un anello di congiunzione vuole approfondire la storia e i linguaggi delle donne in un’ottica di genere, non tralasciando le intersecazioni con letteratura, storia, filosofia ed arti. È una scommessa di confronto fra professioniste che indagano i vari momenti storici, che utilizzano i loro approfondimenti per decodificare ciò che attraversiamo.
Il valore è intrinseco all’operazione stessa. Fare rete con l’Italia e non solo: con il Marocco, i Paesi arabi, la Croazia, l’Istria. E, dopo aver costruito insieme un percorso di dialogo, con la Francia, la Spagna , la Germania e il Portogallo. La rete ci dà quel respiro internazionale per conoscere le altre università ed idee e studi.
I temi di approfondimento dell’anno 2013 sono stati:
Un tavolo su donne-cultura-politica dedicato alle Madri della Costituente come la Sen Giglia Tedesco Tatò e la Sen Teresa Mattei.
Uno sguardo sul lavoro di Anna Lizzi e sui diritti delle donne nell’area del Mediterraneo, in questo ci aiuteranno la Sen. Vittoria Franco, le storiche, le avvocatesse. Modera Tiziana Bartolini di Noi donne.
Un tavolo su crimini, su donne e mobbing con psichiatre e sociologhe e avvocatesse e studiose.
Un Ttvolo sulla filosofia dell’inquietudine, tema molto interessante per i nostri giorni con studiose del fenomeno.
Un tavolo sulla scrittura di Elena Ferrante con esperte innumerevoli scrittrici ospiti, sempre con noi l’amico poeta Elio Pecora che parlerà della traduzione, e l’amica Barbara Alberti.
Tanti ospiti fra gli attori: Anna Maria Ackermann, Milena Vukotic, Lucia Stefanelli, Arnolfo Petri,
le poetesse de La tenda berbera che saranno ospiti in Istria e in Francia, le pittrici e le musiciste il duo di Susanna Canessa.
Narni e Napoli hanno già avuto molti scambi culturali con il nostro Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli quando abbiamo organizzato un seminario con l’archeologo Roberto Nini in un confronto fra la Narni sotterranea e la Napoli sotterranea, quando la famiglia Custodi di Terni si è recata da noi per un omaggio ad Anna Lizzi con l’avv. Roberta Isidori.
Insomma i luoghi si intersecano con le loro particolarità che sono quelle che mi hanno fatto innamorare della cittadina di Narni dal primo momento per le sue atmosfere.
I luoghi sono la storia e la memoria della nostra civilizzazione. Guardiamo ora ai nostri fratelli che sbarcano.
Narni è stata scelta anche per essere al centro dell’Italia perfetto luogo di congiunzione di tutte le nostre reti di studiose, letterate che sono arrivate dal Marocco alla Croazia, dalla Francia al Portogallo, dalla Svizzera alla Sicilia
La filosofia è la teoria e prassi che è nel nostro agire, consapevoli delle difficoltà storiche, economiche e non volendo tralasciare le nostre passioni abbiamo creato una cittadella della cultura che è in continuo fermento e dialogo e rete. Questa ci sembra una grande conquista per abbattere
le indifferenze. I luoghi privilegiati in cui si pensa, ci si confronta ci rendono migliori e ci fanno costruire percorsi comuni. Ad Atene si sono incontrati di recente filosofi da tutto il mondo per approfondire tematiche e passaggi epocali, a Narni ci incontriamo per formalizzare un patto di lealtà e di costruzione fra di noi, ognuna con il suo campo di indagine.
Si costruisce una realtà di lavoro ed una fucina d’idee per i prossimi appuntamenti.
Altre belle iniziative: La Tela del Mediterraneo…
Con questo progetto abbiamo inteso considerare l’universo femminile in questo nostro Mediterraneo in un percorso di affermazione dei diritti. Mensilmente abbiamo affrontato da 10 anni con i nostri seminari presso l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli i diversi contributi, le esperienze ad esempio legate ai diritti di cittadinanza delle donne del Maghreb, in collaborazione con Maria Grazia Ruggerini dell’IMED di Roma e Bernadette Rigaud e Maria Grazia Rossilli per i diritti delle donne nella comunità europea. Anche le nostre scuole estive hanno tenuto conto dei nuovi linguaggi nell’Area del Mediterraneo a partire dalla prima esperienza a Camaiore e poi a seguire a Narni dove si è svolta regolarmente la scuola estiva coordinata dalla dott.ssa Esther Basile e dove siamo al sesto anno di un Festival della Letteratura e Filosofia e Saggistica al femminile che insiste sui temi di confronto e sull’analisi di una narrazione filosofica anche di frontiera. Il Presidente Giorgio Napolitano ha dato per il festival due medaglie.
Lavorare con le donne sui loro diritti non rappresenta una forma di intervento settoriale, ma una strada specifica per entrare nel merito della democrazia, dello sviluppo e dell’inevitabile nesso che lega i due termini. Non solo infatti le donne sono ritenute, ormai anche da molti economisti, fondamentali “agenti di sviluppo” soprattutto nei paesi del “Sud del mondo”, ancor prima, l’essere riconosciute cittadine nel senso autentico della parola diviene l’unico modo per giocare a pieno tutte le potenzialità femminili e dare visibilità a ruoli e compiti per lo più gravemente sottovalutati. Per questa ragione, proprio trattando temi specifici anche in un’ottica di genere, si ha la pretesa di dare un contributo all’allargamento e al consolidamento del processo democratico nel suo insieme e di portare in tal modo un ulteriore tassello alla costruzione, anche nell’area mediterranea, della politica di mainstreaming sancita dalla piattaforma di Pechino.
Ci ha confortato in questa crescita la volontà di collegarci sempre alla storia, ecco perché abbiamo avuto vicina l’amica preziosissima Senatrice Giglia Tedesco Tatò sempre presente con noi in Istituto, ma anche Marisa Rodano e Anna Rossi Doria, Marisa Mattei donne la cui valenza aiuta la nostra ricerca.
L’obiettivo della Tela sarà quello di creare un osservatorio permanente e stiamo lavorando per tenere insieme la nostra rete già costituita a Napoli dalla collaborazione con la Biblioteca di Napoli e il direttore Mauro Giancaspro, La Soprintendenza Archivistica della Campania con la sua direttrice Storchi e l’Archivio di Stato con la sua direttrice Imma Ascione.
Stiamo lavorando con il nostro Progetto “ La Tela del Mediterraneo” anche sulle fonti e gli archivi e proprio ieri abbiamo inteso focalizzare con la direttrice di Palazzo Marigliano l’attenzione su un prossimo convegno in rete sul tema: Archivisti, filosofi e storici per un confronto sul valore delle carte
Le nostre reti sono collegate anche con Barcellona, e con studiose in Portogallo, e a Madrid, a Parigi, a Londra, e in Grecia. Al tempo stesso il progetto ci vede collocati a confrontarci anche con la Società delle Storiche e delle Letterate. La dott.ssa Basile segue e coordina in prima persona tutti i seminari anche a livello nazionale e l’Associazione Eleonora Pimentel che lei presiede da 15 anni è all’interno di un Comitato per i Diritti a Roma creato dal Console Calamai. Siamo in contatto anche con la Fondazione Basso di Roma.
Le antropologhe di Napoli continuamente lavorano ai nostri seminari in Istituto. Sono la prof.ssa Gianfranca Ranisio, la prof.ssa Fulvia D’Aloisio, la prof.ssa Mimma Borriello e la prof.ssa Amalia Signorelli. Le ospiti tantissime tutte in campo accademico come la prof.ssa Rossella Del Prete e la prof.ssa Lidia Curti registrate regolarmente negli Archivi dell’Istituto e nei nostri Archivi personali dove raccogliamo videoregistrazioni a cura della dott.ssa Maria Rosaria Rubulotta.
Con noi la storica del cinema Anna Forgione, le bibliotecarie preziose per i loro suggerimenti come Rosanna De Longis da Roma e Maria Santucci a Castel di Sangro.
Abbiamo bisogno di sponsor che ci sostengano e aiutino nel realizzare un osservatorio permanente dei diritti che troverà collocazione di studiose e reti telematiche con università straniere presso l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli
Con noi in rete realtà dalla grande valenza culturale.
Ci siamo interrogate anche sul denominatore comune tra il burqua, l’hijab e il chador per approdare al fatto che sono tutti sinonimi di quello che si chiama “l’abito islamico” quello stesso che ha suscitato e ancora suscita un appassionato dibattito in Europa..
Siamo in contatto con giornaliste a livello europeo nel tentativo di analizzare i temi concernenti la comunicazione e i diritti. (Importante il contributo di Nella Condorelli). Avremo in autunno 2014 due convegni, uno riguardante i mass media ed uno concernente la rete delle bibliotecarie in Italia. (compreso il Fondo della Soggettività Femminile presente alla Biblioteca di Napoli).
La vicinanza con la studiosa Rada Ivekovic (Autopsia dei Balcani) ci conforta nell’analisi delle modalità della progressiva disgregazione della Iugoslavia nelle loro implicazioni sociali, psicologiche e culturali.
Con la studiosa Gabriella Musetti di Trieste abbiamo presentato ed approfondito un Testo “Donne di frontiera” vita-società-cultura-lotta politica nel territorio del confine orientale italiano nei racconti delle protagoniste. (Testo presentato a Narni).
Siamo entrate in una rete di donne d’Europa con la Slovenia e Croazia attraverso la nostra Associazione Eleonora Pimentel.
Nella ricerca sul movimento delle donne in Tunisia, fatta con Maria Grazia Ruggerini e Dorra Mahfoudh ci si è posti l’interrogativo su quali orientamenti assume la vita sociale tunisina, essendo ormai esaurita la fase propulsiva della modernizzazione post-coloniale a direzione statale, simboleggiata nella regione dal modello di sviluppo avviato dalla rivoluzione nasseriana e nel paese dall’opera e dalla figura di Bourguiba. La prima specificità è quella della stessa cultura delle donne che si definisce nei confronti della cultura dominante maschile. Si tratta di un’affermazione di specificità che innanzitutto si esplicita resistendo al dominio della cultura maschile. Essa consiste poi nell’affermazione della soggettività femminile che esplicita il proprio rifiuto di sottomettersi a questo dominio. Le donne difendono così la propria soggettività e peculiarità nei confronti di un dominio i cui aspetti più caratterizzanti non sono solo di ordine culturale ma anche sociale.
Da Djerrari Benabdenhi abbiamo un’analisi dei diritti di cittadinanza e doveri di cittadina. Le donne marocchine devono affrontare scontri tra la modernità e la tradizione, dove il Medio Evo si mescola al futuro. Le disparità sono indicate da questi indicatori : -sette donne su dieci di meno di 25 anni sono analfabete con una percentuale di analfabetismo del 55%
- due donne segretarie di stato
- il 5% dei posti di direttore generale e il 10% dei posti intermedi nella funzione pubblica sono occupati da donne
- due donne alla Camera dei rappresentanti nel 2001
- due donne nella Camera dei consiglieri
- le donne coinvolte nella gestione locale rappresentano solo lo 0,34 degli eletti
- il 20% circa dei capifamiglia sono donne
- una percentuale di celibato di più del 40% che ha tendenza a femminilizzarsi soprattutto nelle città
Con atti concreti (come la creazione di centri di ascolto, di centri di accoglienza, di centri di formazione alla leadership, di cooperazione, di produzione,di strutture per il piccolo credito, di fondi di garanzia) le donne riabilitano la loro partecipazione e riconquistano la loro parte di responsabilità nel futuro collettivo.
Vorrei anche pensare alle donne italiane immigrate come abbiamo fatto nei nostri seminari con Adriana Buffardi responsabile del dialogo interculturale per la Regione Campania, con la preziosa collaborazione della dott.ssa Maria Rosaria De Divitiis pass direttrice dell’Archivio di Stato di Napoli, con la sociologa Renate Siebert. e la sociologa Donatella Barazzetti.
Inoltre non è mancata la visualizzazione nei nostri seminari dell’apporto delle letterate e delle scrittrici famose coma Dacia Maraini. Non è mancato il contributo e omaggio alla poesia di Alda Merini. Non manca ancora una rivisitazione del pensiero di Pier Paolo Pasolini con l’attualità del suo pensiero in campo sociale e culturale con la presenza in Istituto Filosofico del poeta Elio Pecora e della attrice Maddalena Crippa attenta scrutatrice della cultura del ‘900.
Non manca l’appuntamento con Lia Levi che per venti anni ha diretto al Rivista Shalom.
La tela del mediterraneo fonda le sue ragioni sul reale contributo della rete di donne-studiose che dedicano ed hanno dedicato la loro passione alla ricerca.
Negli ultimi mesi la dott.ssa Basile si è recata spesso a Firenze per un approfondimento sulla figura di Simone Weil dopo aver fatto un seminario in Istituto. È a Firenze in continuo contatto con una grande studiosa Gabriella Fiori per videoregistrare le sue analisi sul pensiero della Weil.
Le filosofe sono un osservatorio interessante per ripartire ad analizzare temi pregnanti all’interno del panorama sulla Storia delle Donne. Abbiamo inserito anche un approfondimento su Hannah Arendt insieme con Chiara Zamboni e Lidia Curti.
La dott.Basile cura altresì un Archivio di Storia delle donne, che ha già al suo attivo un lavoro in rete con gli Archivi di Stato di tutta la Regione Campania (Progetto Dracma) e con la Soprintendenza Archivistica per la Campania quando la dott.ssa Basile è stata nominata Presidente della Consulta della Regione Campania per le Pari Opportunità.
La dott.ssa Esther Basile si reca a Convegni nazionali per portare il contributo dei Lavori sulla Tela del mediterraneo come è stato a Cosenza, a Firenze, a Gaeta, a Roma, a Torino, a Narni, alla Biblioteca di Castel di Sangro, a Trieste.
Desideriamo pubblicare oltre al Materiale che abbiamo già su DVD un testo che racchiuda l’intera produzione dei nostri seminari, convinte dell’utilità del nostro progetto e della sua diffusione.
Abbiamo ideato un festival della letteratura e saggistica al femminile a Narni in Umbria
Con Medaglia del Presidente della Repubblica dal Titolo Alchimie e linguaggi di donne,
su Temi anche specifici del Mediterraneo.
In autunno inauguriamo un osservatorio sul mediterraneo in Istituto Filosofico nostro traguardo.
Molte le studiose che aderiscono al progetto e le artiste e artisti come Giovanna Piromallo, Roberta Basile, Silia Pellegrino, Simone Zaccarella, Lello Esposito etc...
Memorabili percorsi di città
di Marcella Elia
Memorabili percorsi di città
Trovo irresistibili le città, con le loro strade e gli angolini più caratteristici, i loro aspetti più intrinseci, “fisiologici”, le loro consuete frequentazioni. Quanto fascino nell’avvicendarsi delle stagioni quando si vestono dei colori che la natura gli dona o si agghindano dei luccicori più fantasmagorici di cui l’uomo è artefice. Nei giorni di festa congestionate da voci, rumori, immagini e colori cedono il posto alle atmosfere meno magiche e incantate, ma più veritiere, della consuetudine quotidiana. D’estate le meno cliccate del web si svuotano lasciando i riflettori puntati sui luoghi di vacanza, mentre le più quotate delle stagioni invernali, al primo fioccare della neve, diventano mete ambite da trepidanti sciatori.
Un cuore palpita in ogni città, con i suoi itinerari più ricercati o meno popolari, i suoi lati più allegri o più oscuri, le sue tradizioni e i suoi misteri, a volte città amica, confidente, custode di gioie e dolori, mentre altre città nemica, ostile, che ispira diffidenza e paura.
Da sempre le strade delle città hanno rappresentato una forza di attrazione inspiegabile specialmente per artisti, poeti e scrittori in cerca di ispirazione o di evasione dalla nebbia dei pensieri. Così anche i protagonisti delle loro opere hanno appreso dai loro randagi “genitori” tutto il fascino del bighellonare, lasciandosi trasportare dal rumore dei loro stessi passi sul selciato, dal vociare della calca tutt’intorno o dal roboante caos del traffico, sottofondo ossessivo e ipnotizzante che ti entra nel cervello come il ticchettio di un orologio.
Tanti sono gli esempi nella letteratura internazionale dove spesso la capitale diviene un tutt’uno con le trame e l’intreccio di poesie, romanzi e racconti, ergendosi talvolta a protagonista assoluta dell’opera. Protagonista o semplice sfondo che sia, la città con le sue zone monumentali e i luoghi più prosaici, spesso rappresenta una fuga da una dimensione privata che non ha il sapore di focolaio domestico, evasione da un nido troppo stretto e soffocante; altre volte è luogo di riscoperta dell’essenza del proprio io, e l’aggirarsi per le strade un lasciarsi trasportare dal fluire incontrollato dei pensieri, dimentichi del percorso fatto. Alla calura del sole cocente, sotto una pioggia scrosciante o nella magica e ovattata atmosfera della città sommersa dalla neve i protagonisti di opere memorabili tracciano i loro percorsi assaporando l’essenza dei luoghi e costruendo le loro storie che si intrecciano al destino della città.
Esempio straordinario nella letteratura mondiale che mi è molto caro è la città di Pietroburgo, la città voluta da Pietro il Grande, sorta come per magia sulle paludi, eroina incontrastata di volumi di storia letteraria, la città fascinosa della Nevà, dei lungofiume di granito, delle isole e dei canali, così incantevole alla luce delle notti bianche, eppure perennemente dominata della furia degli elementi e dalla presenza imponente e minacciosa del “Cavaliere di bronzo”. Quante anime ha entusiasmato o deluso, quanti figli ha accolto in seno nel labirinto delle sue sorprendenti viuzze consolandoli o portandoli alla disperazione, come il povero Evgenij di Puškin che trova la morte dopo essere stato inseguito dal verdognolo cavaliere metallico. Come non pensare all’indimenticabile protagonista di Delitto e castigo, Raskol’nikov e al suo vagare negli angoli più sordidi della città con i suoi lezzi maleodoranti e il brulichio di folle anonime, cloache, ubriachi, “folli in cristo” e suonatori d’organetto. O alla fantasmagorica e diabolica Pietroburgo di Gogol’ dove, con un gioco grottesco, il mondo si rovescia, la realtà perde i suoi riferimenti consueti e tutto può accadere alla luce arcana dei suoi lampioni: ed ecco un naso agghindato in grande uniforme passeggiare per la città, un ritratto prendere vita e il fantasma di un povero impiegato aggirarsi per le strade per rubare cappotti. Rivale incontrastata della “Palmira del nord” è l’altrettanto amata e odiata Mosca, la capitale storica della “Santa Madre Russia”, custode della più autentica anima russa, la città un tempo di legno con le sue cupole dorate da Mille e una notte e le sue stradine tortuose percorse da vecchie contadine che, con i loro fazzoletti variopinti, assomigliano a delle matrioske. Eppure la mitica e tradizionale Mosca, al tempo della Nep, ci mostra un paesaggio urbano dalle tinte sgargianti, tappezzato da cartelloni pubblicitari, vistose insegne dei negozi e panorami rosso fuoco. È la Mosca de Il Maestro e Margherita di Bulgakov visitata dal diavolo che, apparso ai famosi stagni Patriaršie all’inizio del romanzo, con tutto il suo seguito bizzarro e improbabile, genera scompiglio nei luoghi consueti della mitica “Terza Roma” rendendoli sede di eventi fantastici ed episodi di magia nera.
È tra le meandri di una Londra fuligginosa dell’epoca vittoriana che l’orfano Oliver Twist consuma le sue disavventure in quartieri malfamati, nella realtà degli slums, al baluginio di luci gas, tra i fumi e gli stridori dell’industrializzazione portatrice di ingiustizie sociali, in mezzo a bambini cenciosi, mendicanti, ubriachi e venditori ambulanti, sottobosco notturno della Londra di numerosi romanzi di Dickens. Londra è anche la città in cui amava immergersi Virginia Woolf, proprio come la signora Dalloway del suo omonimo romanzo che, nel percorrere il suo itinerario per la città scandito dai rintocchi del Big Ben, circondata da una folla eterogenea e meravigliose vetrine di negozi, non fa altro che ripercorre luoghi e tempi della sua memoria. È proprio a Londra che la mente di Dorian Gray genera il suo folle piano stringendo un patto con il diavolo. È Londra il teatro delle irrisolte efferatezze di Jack lo Squartatore
nel quartiere degradato di Whitechapel e delle acute indagini del mitico detective Sherlock Holmes, che con il suo fedele Watson vive al numero 221B di Baker Street.
Quanti autori hanno celebrato il fascino di un’altra città incantevole, Parigi, città dalle molteplici sfaccettature e dominata da uno spirito romantico tanto quanto ribelle, che, con il suo aspetto elegante, monumentale, e quello più bohemien con i caffè e i localini all’aperto, il quartiere di Montmatre, le passeggiate sul lungo Senna, ha ispirato l’arte di Baudelaire, Zola, Balzac, Hugo, soltanto per citare qualche nome; innumerevoli raffigurazioni ha ispirato la metropoli per eccellenza, New York, la Grande Mela, da quella introspettiva con il suo sapore detective dipinta da Paul Auster a quella polifonica realizzata a ritmo di jazz dalla penna straordinaria di Toni Morrison; e ancora gli incontri di Ripellino nel suo vagabondare per l’affascinante “Praga magica”…
…Infiniti gli esempi, temi e intrecci che si ripetono o si differenziano nel tempo rendendo le città letterarie immortali, ogni epoca con un suo affresco, una sua dimensione, un particolare dominante. Come sarebbe bello poterle ripercorrere tutte e leggerne i diversi volti raccontati nei testi letterari ad opera di scrittori di ogni tempo e ogni luogo riscoprendone storie, segreti, miti e leggende.
Marion Zimmer Bradley, la mamma del fantasy al femminile
di Elena Romanello
Marion Zimmer Bradley, la mamma del fantasy al femminile
Da alcuni anni imperversa in libreria, al cinema e in televisione il genere fantasy, che combina elementi del poema epico e della fiaba, creando mondi più o meno vicini al nostro dove poteri magici e lotte tra bene e male la fanno da padroni, combinandosi con altri generi del fantastico, come il gotico e l’horror.
Nato nell’accezione moderna con autori come Jr. Tolkien, di cui vedremo a Natale l’adattamento cinematografico de L’hobbit, e Robert E. Howard, il fantasy ha vissuto e sta vivendo una stagione di grande successo e considerazione sugli scaffali di librerie e biblioteche, grazie anche all’apporto di numerose autrici, di cui una delle capostipiti e delle più amate è Marion Zimmer Bradley, scomparsa nel 1999 all’età di 69 anni, ma ancora oggi letta con passione, e oggetto di molte ripubblicazioni e rivisitazioni.
Marion Zimmer Bradley è esplosa come fenomeno letterario in Italia nel 1986, grazie all’uscita del best-seller Le nebbie di Avalon, uno dei suoi più famosi e bei libri, ad opera di Longanesi che poi l’ha ristampato varie volte, in varie edizioni di lusso e economiche. Questo ha portato alla proposta in italiano, un po’ come è successo con vari altri autori a cominciare da Dan Brown, di tutti i libri che aveva scritto in precedenza (Marion Zimmer Bradley era attiva dall’inizio degli anni Cinquanta), più di tutti quelli che ha scritto fino alla sua scomparsa, e di alcuni pubblicati postumi per lo più scritti da sue amiche.
La vita di Marion Zimmer Bradley si è snodata tra la vita accademica, come insegnante a Berkeley, la militanza femminista anche nel movimento omosessuale, due matrimoni con due mariti di cui dal primo ha ereditato il cognome Bradley e dal secondo ha avuto due figli, lo scrittore David Bradley e la musicista Moira Stern.
La sua vita letteraria comincia tra gli anni Quaranta e Cinquanta, con la scrittura di alcuni racconti di genere fantascientifico e fantasy che escono sulle riviste del settore: il suo primo romanzo, a metà strada tra la fantascienza e il fantasy, è I falconi di Narabedla, del 1957, uscito da noi a metà degli anni Novanta.
Il ciclo letterario che la fa conoscere negli Stati Uniti, pubblicato da noi poi sull’onda del successo de Le nebbie di Avalon è quello di Darkover, che comprende ventisei volumi, usciti dai primi anni Sessanta a fino a dopo la sua morte, ambientati in un mondo remoto nello spazio, su cui secoli prima è caduta una navicella con alcuni astronauti terrestri. Gli astronauti si sono mescolati alla popolazione locale, creando anche nuove creature ibride, in una società in cui la magia ha un ruolo di prima importanza e dove esiste una stirpe di sacerdotesse e amazzoni. I libri della serie di Darkover sono per lo più autoconclusivi, e si svolgono in varie ere della storia di Darkover, mondo più vicino agli universi fantasy che a quelli fantascientifici, che attraversa vari periodi di pace e guerra, in una ricostruzione di un mondo remoto in cui spesso le donne sono grandi protagoniste, caratteristica di tutte le opere dell’autrice e in definitiva sua grande innovazione nello sdoganare un genere che era visto come simbolo del più bieco maschilismo.
Le nebbie di Avalon dà vita poi ad una serie di libri, che si inseriscono in una linea temporale anteriore alla vicenda narrata, che racconta in chiave femminista e matriarcale la storia di Re Artù, vista dagli occhi di Morgana, la sorella di solito vista come cattiva, che diventa una sacerdotessa della Dea Madre, detentrice di un antico sapere minacciato e in mano alle donne. Dopo Le nebbie di Avalon escono Le querce di Albion, che racconta l’incontro tra la cultura dei Celti matriarcali e dei Romani patriarcali in una leggenda che ispirò anche la Norma di Bellini, La signora di Avalon, che unisce i giorni dell’Impero di Roma a quelli di Merlino attraverso le sacerdotesse di Avalon e La sacerdotessa di Avalon, che racconta la storia di Elena, madre di Costantino. Non era direttamente legato alla storia di Avalon ma lo è diventato in una linea temporale poi stabilita dopo la morte dell’autrice Le luci di Atlantide, storia del matriarcato nell’antico continente, poi legata al mondo di Avalon da L’alba di Avalon, uno dei libri usciti postumi. In tempi recenti sono usciti due romanzi completati da Diana L. Paxon, e cioè La spada di Avalon, che racconta la creazione della spada Excalibur, e La dea della guerra, storia della regina degli Iceni Boudicca, che affrontò l’esercito romano.
Marion Zimmer Bradley si è cimentata poi in diversi altri romanzi, tutti abbastanza interessanti: diverso dalle sue corde ma avvincente risulta essere il ciclo delle Avventure del paranormale, giunto da noi negli anni Novanta sull’onda del successo di telefilm come The X-Files (citato in uno dei libri), incentrato sulle battaglie tra magia nera e magia bianca, con sempre al centro dei personaggi femminili interessanti, in un contesto di realtà fantastica contemporanea. Qui c’è qualche punto di continuità in più tra le storie raccontate e vari personaggi ricorrenti e il ciclo si può ricondurre a tre romanzi scritti tra anni Settanta e Ottanta, e cioè Dark Satanic, L’erede e Witch hill e una quadrilogia degli anni Novanta, Spirito di luce, Magia di luce, Tenebra di luce e Cuore di luce.
Un altro suo romanzo molto intrigante è La torcia, in cui racconta la guerra di Troia dal punto di vista di Cassandra, la principessa troiana veggente mai compresa, e in cui il ruolo delle Amazzoni, popolo mitico ma pare realmente esistito di donne guerriere ha un ruolo fondamentale. Curioso e in linea con un discorso di fantasy in cui le donne sono protagoniste è la serie del Giglio nero, che Marion Zimmer Bradley scrive a sei mani con le colleghe Andre Norton e Julian May, raccontando le avventure di tre principesse di un reame fantasy alla ricerca della propria identità.
L’attività di Marion Zimmer Bradley si estende anche a quella di curatrice di antologie letterarie per la promozione di autori e soprattutto autrici fantasy: queste antologie, da lei curate, sono uscite tra gli anni Ottanta e Novanta. Alcune erano incentrate sul mondo di Darkover, che l’autrice chiedeva di reinterpretare, altre, quelle della famosa serie Sword and Sorceress (reinterpretazione femminista del vecchio Sword and Sorcery, motto del fantasy tradizionale, invece che spada e stregoneria, spada e strega) raccoglievano storie di vario genere nell’ambito del fantasy e hanno rappresentato la palestra per autrici poi famose come Mercedes Lackey e Laurel K. Hamilton.
L’interesse della Bradley è stato quello di prendere un genere che era letto essenzialmente dal pubblico maschile come il fantasy, basato su muscoli e lotte e dove le donne avevano un ruolo, se c’erano, puramente decorativo e di oggetti, e di renderlo fruibile ed amato dal pubblico femminile, parlando delle tematiche forti del femminismo dagli anni Sessanta in poi, l’autodeterminazione, l’indipendenza, l’omosessualità, la riscoperta del femminino antico tra Amazzoni e streghe, ma in maniera comunque mai erudita e noiosa. Marion Zimmer Bradley ha ispirato tutta questa ondata di autrici a lei contemporanee o di generazioni più giovani, da Ursula K. Le Guin a Jacqueline Carey, e ha spinto gli autori uomini di fantasy a inserire personaggi femminili interessanti, basti pensare ai romanzi di un Terry Brooks o di un Neil Gaiman.
I suoi romanzi, ormai un must sugli scaffali delle appassionate e appassionati di fantasy, portano in mondi fantastici, metafora dell’oggi e riletture di passati gloriosi e spesso dimenticati, creando avventure e passioni con donne che entrano nell’immaginario delle eroine della letteratura popolare contemporanea. Se si vuole capire l’impatto del genere fantasy e delle sue donne non si può non leggere Marion Zimmer Bradley.
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