Letteratura
Parole di Odisseas Elytis
di Lorenzo Giacinto
La forza del linguaggio nella scrittura di questo cantore del mar Egeo. Una poetica dell'esistenza che si fa arte, letteratura. Quando scrivere diventa luogo di emozioni e sentimenti sottili nascono testi vibranti, difficili da dimenticare.
“Il sole ci scoppia dentro e noi teniamo la mano sulla bocca spaventati”.
Poeta dell’azzurro, del sole e della donna. Cantore del mar Egeo, dei muri a secco di montaliana memoria, della vita dei sensi, delle esplosioni dei colori, delle curve femminili toccate o solamente vagheggiate. Le coordinate tra le quali si muove la poetica del grande Odisseas Elytis rifluiscono come le onde del suo amato mare greco, bene illuminate da una luce implacabile e instancabile che morde le caviglie degli uomini, in una mappa interiore in cui le donne partono o si fanno rimpiangere o sono solamente una promessa lontana, quasi un brillio fugace da tenere sempre in vita come il fuoco delle Vestali. Non è sempre facile, nelle biografie dei poeti di ogni epoca e latitudine, isolare il momento ben preciso in cui il demone della poesia impone la sua tirannia ed esige una devozione alla causa e una fedeltà senza pari. Ecco, si può immaginare che per Elytis questo sia avvenuto in un pomeriggio assolato, meglio un tramonto, uno di quelli che incendiano l’orizzonte di un’isola greca, dove ogni pietra sembra raccontare un passato di miti solari e di strane prodezze umane. Un attimo di straordinaria epifania, in cui il poeta, ogni poeta, sente di dover aderire in fondo a un’altra vita, fuori dai ritmi consueti della quotidianità; un attimo di lucida e folle consapevolezza, per chi ancora crede che le vocazioni lascino segni sui polsi e sulle fronti cerchiate, così come nello sguardo degli occhi. Da qui, la certezza maturata da Elytis che “la Poesia è sempre una, come uno è il cielo. La questione è da quale parte uno vede il cielo”. Una dichiarazione di poetica, ma al tempo stesso un modo di stare al mondo, unendo le linee della mano a quelle che si fanno scorrere sulla carta. E quel cielo, sotto cui tante vite si affannano mancando spesso di contemplarlo, Elytis lo guarda “stando in mezzo al mare aperto”. Una posizione privilegiata, dunque, esclusiva, attraverso la quale la vita viene ripensata e modulata su un battito del polso regolare, e le immagini e i clamori e gli umori turbolenti del sangue si rasserenano nel ristoro della solitudine, suggerendo nuove vie all’emozione, nuove vie di fuga alla luce. Ed Elytis, come già accennato, è forse il più grande cantore novecentesco del sole, simile a un sacerdote di Apollo, che dell’astro era la divinità incontrastata. D’altronde, basta dare un’occhiata veloce ai titoli delle composizioni poetiche più importanti dell’autore, per rendersi conto dell’importanza anche linguistica e macrotestuale dell’elemento solare: “Sole il primo”, “Corpo dell’estate”, “Lì dove prima dimorava il sole”, “Piango il sole e piango gli anni che verranno”, “ Per chi il mare nel sole”. Lontano dall’essere solamente un indispensabile connubio di gas e calore in grado di conferire vita e rubare terreno alle tenebre, la sfera solare è un simbolo potentissimo insieme di un’armonia primordiale tra umanità e natura e poi di una legge morale insita nell’uomo, simile a quella che alberga kantianamente sotto un cielo stellato. Gli azzurri indimenticabili del Mar Egeo, dipinti nelle loro varie gradazioni come meglio farebbe solamente la tavolozza di un pittore en plein air, le casupole bianche greche con gli olivi di un verde intenso che sembrano avere, per dirla con Pierluigi Cappello, le radici rovesciate nell’aria, le dorature dei declivi costieri e delle chiese ortodosse: tutti questi elementi che prepotentemente entrano in molte delle composizioni di Elytis non sono immagini manieristicamente ripetute per un “décor” che suonerebbe a lungo andare falsamente autentico, ma sono al contrario i tasselli di un puzzle che trovano nella compiutezza dell’esposizione un rapporto quasi osmotico di giustezza e, oserei dire, necessità esistenziale. Quella evocata e descritta da Elytis è una luce forte ed irresistibile che detta i tempi e i ritmi della vita e delle passioni umane, che regola le pulsazioni cardiache e che lascia riscaldare a fuoco lento desideri che ancora riposano nel sonno dei nervi. Una luce che vivifica e che giustifica, sottile e implacabile come una lama affilata; ma anche una luce che, arrivando ovunque e ovunque accendendo violente consapevolezze e sommovimenti interiori, a volte suona come accusa o condanna senz’appello. Non sempre la vita ama rivelare quanto di oscuro palpita in lei, talvolta la rivelazione di quanto sonnecchiava nell’oscurità assume le proporzioni di una violenza privata.
“Spesso, quando parlo del sole
Una grande rosa rossa
Mi s’ impiglia nella lingua.
Ma tacere non mi è possibile”
Ed ecco la commistione di colori, paesaggi ed emozioni di cui prima si parlava, esemplificata in maniera superba in una delle liriche più intense del poeta greco, Autopsia
Dunque, si trovò l’oro della radice d’olivo stillato sulle foglie del suo cuore.
Appena sotto la pelle, la linea azzurra dell’orizzonte intensa per colore. E numerose tracce di celeste nel sangue.
Nel cervello niente, all’infuori di un’eco distrutta di cielo. E soltanto nella cavità del suo orecchio sinistro,poca sabbia minuta, fine, come dentro le conchiglie. Segno delle molte volte che aveva camminato tutto solo lungo il mare, con la pena d’amore e l’urlo del vento.
Quanto a quelle scintille di fuoco sul pube, mostra che davvero andava avanti per ore, ad ogni suo nuovo amplesso con una donna.
Avremo raccolti precoci quest’anno.
E ancora sale l’invito del poeta ad accogliere dionisiacamente quanto la terra, i nutrimenti terresti, per dirla con André Gide, ci offrono nell’arco della vita, rifiutando le convenzioni imposte dall’alto, le abitudini secolari che si perpetuano senza mai essere messe in dubbio, le scelte e gli atteggiamenti che vanno verso la mortificazione della sensorialità e della sensualità dei nostri corpi.
Fin da piccolo, mi hanno riempito la testa con l’immagine di una morte imbacuccata di nero, che tiene la vita come una trappola e ce la offre aperta con in mezzo l’inganno del piacere. Ma fatemi ridere. Diceva un’altra cosa chi masticava l’alloro. E non è un caso che giriamo tutti intorno al sole.
Il corpo sa.
Elytis, poeta per metà europeo, come lui stesso amava definirsi. Così fortemente radicato nella concretezza della terra greca, continuatore e rinnovatore della grande tradizione classica a cui infonde nuova linfa e luce. Ma anche, Elytis poeta di respiro internazionale, al di là dei confini della sua patria d’origine. Decisivo, in questo senso, il viaggio da lui intrapreso a Parigi, negli anni ruggenti tra i due conflitti mondiali, quando la città francese era un laboratorio di esperienze umane diversissime tra di loro, eppure tutte legate sotto il segno dell’esplosione dell’arte. Nella Ville Lumière, il poeta greco conosce i più grandi scrittori e pittori dell’epoca, frequenta Picasso e i surrealisti, da cui accoglie e poi rielabora originalmente un sodalizio tra tradizione e modernità, tra figure della mitologia e giovani rivoluzionarie del '68 francese. Il suo linguaggio si fa sperimentale e classico al tempo stesso, levigato come una figura geometrica smussata, sensuale come un corpo di una donna desiderabile, tranquillo e intenso come le correnti sottomarine del suo amato Egeo che, come un ideale confine naturale, è punto di riferimento e partenza e sicuro approdo nel tempo.
E così rifluiscono nelle poesie della maturità del poeta greco numerose immagini di donne, da sempre impareggiabili ispiratrici di composizioni artistiche. Una donna, secondo Elytis, può essere una delle chiavi di volta per l’accesso ad una realtà in cui la natura asseconda il destino individuale.
Sono nato per avere tanto. Non m’interessa strabiliare. Dal poco arrivi ovunque prima. Solo che è più difficile. Vi puoi arrivare anche dalla ragazza che ami, ma devi saperla toccare e allora la natura ti obbedisce.
Proprio il sentimento amoroso, vagheggiato o vissuto e filtrato successivamente attraverso la scrittura, suggerisce al poeta greco la sua composizione forse più bella, sicuramente quella più vibrante ed intima: “ Monogramma”. Una lirica che si snoda come una composizione di Aragon o di Éluard, accesa da toni sospesi tra rievocazione nostalgica e un’impossibilità d’amare che si radica nell’incomunicabilità.
E le nostre mani, due piccole bestie
Che furtive cercano di salire l’una sull’altra
Il vaso di brezza negli aperti cortili
E i frammenti di mare che ci seguivano
Fin dietro le siepi e sopra i muri a secco
Piango la veste che sfiorai e fu il mio mondo
Un senso di accorata malinconia percorre sottilmente la lirica, suggerito e racchiuso dentro la cornice consueta di un’isola greca, ma che diventa universalmente lamento di incomunicabilità quando il poeta si rivolge alla sua donna utilizzando quasi ossessivamente “mi senti?”, come a cercare un contatto continuo e costante, a non allentare mai la tensione emotiva tra due persone che forse si amano e temono che lo sperpero del tempo e dei silenzi del “non detto” o del “non capito” possano abbattersi minacciosi come su di un oggetto fragile e prezioso. Ma infine il canto del poeta verso l’amata si scioglie, libero e fiducioso e avvolgente, e allora diventa una sinfonia in grado di abbracciare tutti gli elementi naturali.
Sempre tu la piccola stella e sempre io l’oscuro natante
Sempre tu il porto e io il faro di destra
Il molo bagnato e il bagliore sopra i remi
Tu l’imposta accostata, io il vento che la apre
Perché ti amo e ti amo
Sempre tu la moneta e io l’adorazione che le dà valore
Con la consapevolezza amara, però, che l’umanità non è ancora in grado di accogliere e di capire un sentimento così forte e totalizzante. Da qui, come in uno sfasamento temporale tra due mondi diversi, tra due modi di sentire la vita differenti, l’affermazione che “È presto ancora in questo mondo amore mio/per parlare di te e di me.
In Elena, lirica che appartiene alla raccolta Orientamenti, abbiamo un altro esempio mirabile di lirica amorosa, per chi scrive sicuramente l’ambito nel quale il poeta greco riesce a dare il meglio di sé. Qui, la relazione con la donna è promessa di una serenità però piuttosto inquieta, e a cui farà da contraltare non la morte, bensì una calma pioggia autunnale. Da notare che il Tu con il quale il poeta si rivolge ad Elena è sempre scritto in lettera maiuscola, quasi come Elytis volesse parlarci dell’amore "tout court".
Non è la morte che ci vincerà se ci sei Tu
Se altrove c’è un vento che ti viva intera
Che ti vesta da vicino come la nostra speranza ti veste da lontano
Se altrove c’è
Una pianura verde oltre il tuo sorriso fino al sole
Che confidente gli dice che ci incontreremo ancora
No non è con la morte che ci confronteremo
Ma con la più lieve goccia di pioggia autunnale
L’odore della terra bagnata nelle nostre anime che sempre di più si allontanano
E ancora, la splendida, sensuale, provocante, giovane anticonformista e sessantottina Maria Nefeli, alter ego femminile dell’autore, attraverso il quale Elytis attualizza la sua poesia nella storia del secondo Novecento, fornendoci il ritratto indimenticabile, vivace e vitale di una giovane ribelle, tenera e pericolosa al tempo stesso. Ci si sposta dal consueto scenario di mare, sole e isole greche, ad una cornice metropolitana, per esempio a una Parigi effervescente di rigurgiti sessantottini e di cafè e bistrot nei quali si discute di nuovo e di sogno. Ed Elytis ne sonda gli umori e le sensazioni, fissandole in immagini difficilmente dimenticabili, coniugando come lui sa fare vecchio e nuovo, tradizione e modernità, in un sincretismo umano e poetico che ha la pacatezza e il sorriso tranquillo dei grandi.
Ora tenderò le mie braccia aperte
E dentro le correnti cui darò forma
Senza che ti avvicini apparirai
Iris Maria Nefeli
Verde nei grandi negozi d’abbigliamento
Viola nei caffè underground
Rossa nei funerali dei poveri
E azzurra nel sonno dei neonati.
Sei bella come un fenomeno naturale
Qualcosa in te ricorda l’anguilla e il gatto selvatico;
sei l’acquazzone tra i palazzi
l’interruzione di corrente inviata da Dio;
e l’astrologia vigilerà sul tuo letto
e fonderà le sue predizioni sulla tua disperazione;
sei bella come la disperazione
come la pittura che i borghesi detestano
e che domani compreranno per miliardi
Iris Maria Nefeli
Con il fascino dei tuoi glutei quando
All’improvviso e inaspettatamente siedono su un rasoio.
Plinio Pirilli e la religione del rapporto amoroso
di Fausta Genziana Le Piane
Da sempre l'amore affascina l'uomo. Scrittori, poeti e pittori ne hanno tessuto le lodi. Ecco un Canzoniere amoroso in cui il sentimento vola e si libra in alto, sulle nostre teste....
“Sola non cura il mio tristo languire,
e sola il può curar; ché solo a lei
il mio viver è in mano e il mio morire. »
(Matteo Maria Boiardo, Amorum libri tres)
Le parole con cui Plinio Perilli mi ha preannunciato l’invio del suo ultimo libro – questo inesorabile e inesauribile CANZONIERE D’AMORE. Tutto meritato, vissuto, sofferto o goduto in prima persona, e solo DOPO testimoniato, ricordato, seminato...sulla pagina! - ci spingono a fare alcune riflessioni sulla scrittura: si compone durante o dopo ogni esperienza vissuta? Durante, come nel caso di Isabel Allende che in Paula scrive il lucido diario - una sorta di lettera privata - della malattia della figlia, tra presente e passato, framezzati da lunghi flashback o a posteriori, come nel caso di Casanova o di Dante Alighieri: Nel mezzo del cammin di nostra vita MI RITROVAI in una selva oscura…?
Si scrive per se stessi o per gli altri? Che ruolo ha la memoria? E ancora, perché si scrive? Tabucchi sapeva bene di non poter fornire una risposta univoca: “Si scrive per stabilire una vicinanza d’altro tipo con il mondo, simile a quella del bambino che, quando gioca, assume come verità incontestabile il suo stesso gioco. Una verità espressa sul piano simbolico, per la quale la finzione supera e sconfigge l’illusione, diventando così ‘prassi’, sforzo fisico. Insomma, la scrittura è una forma di riappropriazione del mondo”.
In definitiva, Plinio si dedica all’arte dopo aver vissuto (Yukio Mishima, Lezioni spirituali per giovani samurai, p.7): L’età è volata, ed ora, vedi?, la racconti (…).
Plinio descrive molto intensamente un percorso interiore lineare e strutturato. D’altronde l’amore ha i suoi tempi, dal primo bacio fino alla sua conclusione. E noi ci immedesimiamo, ognuno con la propria storia, in questa che è LA STORIA di un amore, di tutti gli amori fioriti o sepolti dalla Storia.
Si comincia con un bacio - baciando s’insegna il bacio; labbra-dono; baciavo in te, con te, la vita, ecc. -. Come quello di Rodin? Di felicità pura, chiarezza accecante, (Com’è che ti baciai?, p. 14), con forza e piano. Bacio-fusione: quattro labbra un bacio (Desiderio, p. 45).Come non ricordare Cyrano di Bergerac che del bacio scandaglia tutti i più reconditi significati? Un bacio – ma cos’è poi un bacio? Un giuramento un po’ più da vicino, una promessa più precisa, una confessione che cerca una conferma, un apostrofo roseo fra le parole t’amo, un segreto soffiato in bocca invece che all’orecchio, un frammento d’eternità che ronza come l’ali d’un ape, una comunione che sa di fiore, un modo di respirarsi il cuore e di scambiarsi sulle labbra il sapore dell’anima. Il bacio è il momento in cui dall’”io” e dal “tu” si diventa “noi”, in cui ci si assoggetta al “noi” vincente: E il Noi così inizia, /annettendo, soggiogando l’Io - Com’è che ti baciai? p. 14). Bacio che non si rinnega mai…
L’amore nasce (Sempre amore è una nascita, p. 15) e, come nelle liriche di Charles Baudelaire, la donna è vista come un viaggio: Ti penso come un bel viaggio (Un’anima, p. 16), sospesa tra realtà e sogno, viaggio tutto interiore per Plinio, Da me in me, fino a te, esteriore, ammantato di lusso, ma tuttavia interiore, quello di Baudelaire: Fanciulla mia, sorella, / Non pensi tu alla gioia / Di vivere laggiù? / Amar senza fine / E sino alla fine / In quel paese che assomiglia a te! (Charles Baudelaire, Les fleurs du mal, Mursia, 1980, Invito al viaggio, p. 135). Perché esiste UN LUOGO per l’amore, per Plinio è il cielo.
L’amore nasce e non sa ancora di sé, non è cosciente, non è sicuro di sé, procede a tentoni: Non t’amo e t’amo – da oggi, oppure / non ancora (Nato per te, p. 30). Sarà amore?
Dopo, seguono il pensarsi intensamente, le promesse, le confessioni, le sofferenze, i rancori, le speranze di un amore eterno, di una comunione fatta di respiri reciproci, le distanze, le dolorose assenze (Mare in sogno, p. 130), le liti, i malesseri: Mi manchi, ed ora così, trasparente, / mi visiti…(Cielo della domenica, p. 53), il deserto, la fine. Noi che leggiamo immedesimandoci nella storia di Plinio, che viviamo con lui l’evolversi dei sentimenti e della passione, che, seguendo forse con un po’ d’invidia questi amanti in volo, ci rassereniamo, ci chiediamo anche: quando si arenano i colori e come? Quando dal cielo poi si tocca terra miseramente in caduta libera? Come si arriva ai deserti dell’amore? Abbiamo sufficientemente annaffiato la nostra rosa? Curato il sogno? Si può smettere di amare? O smettere di amare equivale a non aver amato mai?
Le metafore del sogno (Ma cosa sogni, e soprattutto chi?, p. 136) e del volo ricorrono spesso. Quella del volo è legata e rinforzata da una serie di allusioni che va dall’azzurro (degli amanti, contrapposto al grigio, quello di tutti) al cielo (dove solo Amore può entrare), dalla nuvola (nuvole sono sogni; sogni/nuvole) alla luce, tutto conduce all’atmosfera rarefatta in cui vive l’innamorato, proteso fuori dal mondo, in una sorta di idealizzazione della donna amata. Non tocchiamo forse il cielo con un dito quando siamo innamorati? Anzi la realtà è talmente stravolta che della casa i mobili scompaiono e il soffitto diventa cielo…
In effetti il termine azzurro è frequentissimo, è il colore degli amanti in volo, contrapposto al grigio, quello di tutti – nella lirica Al pianto è citato quattro volte! E quando non è azzurro è blu o celeste: tubando inseguono l’azzurro reso immoto e gentile (Luci della città, p. 118), Manca l’azzurro al cielo (p. 132). È l’azzurro romantico: La letteratura dell’epoca dei Lumi e poi quella del primo romanticismo riflettono la nuova moda dei toni del blu. L’esempio più notevole è costituito dal celebre abito blu e giallo di Werther, che Goethe descrive nel suo romanzo “I dolori del giovane Werther”, pubblicato a Lipsia nel 1774: “Ce n’è voluto che mi decidessi a metter via la mia semplice marsina azzurra che avveo quando feci il primo ballo con Lotte; ma ultimo era assolutamente impresentabile. Ma me ne sono fatta fare una proprio come quella, con bavero e risvolti, e anche con un altro panciotto giallo e relativi pantaloni”. Lo straordinario successo del romanzo e la “werthermania” che seguì lanciarono in tutta Europa la moda dell’abito blu “alla Werther”. (Michel Pastoureau, Blu, storia di un colore, pp.161-162).
Quando siamo innamorati non ci sembra di sognare? L’amata è essa stessa volo: Dalle tue braccia / ali riconosco/ il volo! (Dalle parole, p.21), è nata da un sogno, da un sogno di Dio, fa sognare e trascina in volo, in un mondo arioso, protetto. Donna angelo: Angelo sempre felice, pien di gioia e di luce! (Ch. Baudelaire, op.cit. p. 115). Donna-dea: Se oggi in te m’apparve una Dea, ha amato / un uomo che in cuore l’ha adorata e temuta: / gl’insegnò quell’amore immortale che dura un giorno (Cuore di sasso, p. 42). Quando non è fiore, rosa aulentissima con tanto di steli, petali, spine ecc. per esaltare attraverso la sua bellezza quella della donna amata: (…) mentre / le braccia, dedizioni di verde / che solo il rosa intarsia, celebra / di vene azzurre… Le tue spine (…) (Le ali, le spine, p. 32). La rosa è il simbolo dell’amore e più ancora del dono dell’amore, dell’amore puro…
Il tema del volo trova il suo punto culminante nella sezione intitolata: Grande Ricognizione Aerea 2/33, in Pungiluna e l’Invisibile, pp. 72-85, dedicato all’aviatore-scrittore Antoine de Saint-Exupéry che ha fatto del volo fonte di vita e di scrittura. Anche lui vola di notte con gli amanti. Delicata rievocazione della gioia pura del volo, metafora della vita: quanto costa l’alta quota? Costa quanto si è disposti a rischiare...
La vera protagonista di questo canzoniere è la parola, la parola che viene dal sogno, mima i silenzi, lega tutto, unisce, s’incarna, fa da ponte, che è figlia della Poesia: Le parole si sgranano / a ridarci un’immagine, sterile o soave / un enigma, il quesito semplice censurato / che chiede a Noi Stessi, e agli Altri / di sorriderci! (La chiamata, p. 139). Insomma, scrivere per volare… Scrivere per inseguire, direi l’azzurro, quello di Mallarmé: l’Azzurro trionfa, lo sento che canta / nelle campane (Stéphane Mallarmé, Poesie, Feltrinelli, 1991, p. 35).
Concludo con un’annotazione linguistica: Plinio predilige sostantivi, verbi e aggettivi con la “s” privativa che, davanti ad un termine, ne indica il contrario, come svagato, svelata, smagarla, svapora, sfarinato, spopolato, sbriciolato etc. (viene dal latino ex-, significa uscire da un luogo o da uno stato).
Che cosa toglie? Ma il brutto naturalmente, per lasciare solo il bello!
“Chiaro di donna” di Romain Gary
di Lorenzo Giacinto
Esistono dei libri che sprigionano una forza dirompente, che scoprono nervi esposti nella sensibilità del lettore, sollecitandola e scuotendola con l’energia di un uragano che di sé e del suo passaggio lascia un’eco inconfondibile. È questo il caso dell’opera di uno scrittore lituano naturalizzato francese, di cui ricorre proprio quest’anno il centenario dalla nascita: Romain Gary.
Raramente vicenda umana e letteraria hanno trovato una sintesi più intensa nella vita di un uomo: quel sodalizio tra sangue e inchiostro, da molti inseguito come una chimera, trova una magnifica esemplarità nella biografia di Romain, partigiano aviatore, diplomatico, viaggiatore, casanova e scrittore celato dietro vari pseudonimi, tanti quanti erano gli aspetti proteiformi di un uomo che comunque, al di sopra di tutto, professava un inesausto e sincero amore per la vita. Una foto in bianco e nero lo ritrae in divisa da pilota: una silhouette che ricorda una star hollywoodiana per la bellezza e il portamento, assieme ad uno sguardo che brucia per fierezza e vitalità, come volesse consumare tutto quello che rientra nel suo orizzonte visivo.
Quella stessa vibrante intensità che attraversa come una corrente sottomarina “Clair de femme”, breve romanzo o racconto lungo, un ispirato apologo dell’amore. Poco c’è da dire sulla trama del libro, se non che esso è il resoconto intenso e fosforescente di un incontro tra due solitudini, un uomo e una donna con alle spalle un passato doloroso, non ancora cicatrizzato, sulla pelle. Entrambi privi, per fatalità più che per negligenza, dei loro rispettivi partner precedenti. Entrambi con un disperato bisogno di amare qualcuno, anche se per pochi attimi, per misurarsi ancora con la parte migliore della vita. Amare per non sentirsi più come morti prima della sentenza finale, ma ancora magnificamente vulnerabili al ventaglio dei sentimenti umani.
Michel e Lydia si conoscono in seguito ad un urto accidentale che avviene su un marciapiede parigino, ricordando le atmosfere del bel film statunitense Crash. Lydia non è più giovanissima, ma la sua eleganza un po’ sfiorita e l’argento sulle tempie le conferiscono un suggello di fascino e tenerezza. Per semplice legge fisica di attrazione, per quel tacito e misterioso accordo che unisce due individui legati da un destino comune, i protagonisti non saranno in grado di allontanarsi l’uno dall’altra, in un crescendo emotivo in cui dialoghi, confessioni e riflessioni arrivano a ritrarre un mondo interiore governato da esigenze talora insostenibili.
Ma di tanti tipi di amore si tratta nel libro. C’è anche quello per gli animali, di cui si fa eroico portavoce un circense, che tanto sarebbe piaciuto a Luis Buñuel per la sua grande carica estraniante. L’italo-spagnolo Galba nutre infatti un affetto vivissimo per il suo cane, verso il quale non esita a prodigare cure amorevoli e a riversare quello che di meglio vi è nella sua malinconica natura di istrione decaduto. Alla morte improvvisa dell’animale farà seguito poco dopo quella del suo padrone, a suggello di un legame che il lutto, invece di allentare, rinsalda con vigore.
Il grande nodo del romanzo riguarda, però, il sentimento d’amore che si instaura in una coppia umana. Per Michel, amare una donna è la condizione necessaria per la sua sopravvivenza, un bisogno cellulare, corporeo, fisiologico, ancor prima che sociale e ideologico.
“Non posso farci nulla. Tu sei la mia condizione biologica. Il mio grido cellulare”
Un amore che levighi la soggettività e ogni residuo di egoismo, per rifondersi nella costituzione di una “dimensione terza”, che non comprenda i primi due pronomi personali: la coppia, appunto. In un’identificazione che ha radici letterarie profonde, basti pensare per esempio a Hikmet, amore e vita si fondono indissolubilmente, senza soluzione di continuità. In una visione di questo genere, la donna assume un’importanza quasi sacrale, assurgendo al rango di una divinità da venerare poiché in grado di trasferire energia vitale. La donna diventa l’unico vero antidoto all’autoestinzione e al battito irregolare del polso.
Così, non appena Michel intravede in Lydia la possibilità di un legame che vada oltre l’effimero, la sua vita riprende a scorrere più fiduciosa.
“Noi siamo stati felici e questo ci impone degli obblighi verso la felicità”
Queste sono le parole frequenti pronunciate dal protagonista, persuaso che la felicità non si può e non si deve coniugare solo al passato. Al contrario, essa deve essere la destinazione finale di una ricerca inesausta che è possibile compiere solo in virtù di una presenza femminile.
Una ricerca che diventa anche un atto di ribellione morale verso l’infelicità, la sventura, l’assuefazione al destino avverso. Diventa emblematica allora la figura di Sonia , suocera di Lydia, una nobile polacca la cui esistenza è stata sconvolta dall’esperienza del secondo conflitto mondiale prima e dalla deportazione nei lager nazisti dopo. Vicende che hanno fatto svanire in lei ogni aspirazione umana verso una sorte migliore, verso un destino che potesse in qualche modo presentare una sorta di compensazione in itinere. Così, ogni disgrazia viene vissuta con la pacifica ma anche passiva rassegnazione di un’esistenza che ha racchiuso innumerevoli difficoltà, nella ferma consapevolezza paradossale che si vive, per dirla con Leibniz, nel migliore dei mondi possibili.
Una concezione della vita, questa, che ha una sua tragica ma eloquente dimostrazione pratica nell’infermità del figlio della donna, il marito di Lydia, che a seguito di un grave incidente ha riportato, oltre alla morte della figlia, una grave paralisi fisica e locutoria. Il suo balbettio incomprensibile, ancor più drammatico perché frutto abortito di una mente ancora vigile, è il simbolo di una fatalità oscura, accettata però come una volontà divina dalla famiglia, e quindi da sopportare quasi di buon grado. Una concezione che Lydia in un primo momento sposa e asseconda, più per sensi di colpa che per intima convinzione, ma che poi rifiuta nettamente e perentoriamente in un dialogo con Sonia, tra i più intensi del libro:
“Ma la sentite? Una ribelle. Il peggiore degli insulti. Davvero meraviglioso. L’accettazione, la sottomissione, la rassegnazione. Andiamocene da qua, Michel. Se mai dovessi essere felice, Sonia, vi prometto che andrò in pellegrinaggio a Lourdes, per essere curata”
Ecco l’invito che emerge da ogni pagina del romanzo, e che diventa quasi un’implorazione accorata: occorre costruire dalla macerie, ricominciare sempre, anche se bersagliati da una sorte ancora più crudele perché tremendamente ingiusta. Gary dipinge qui una sorta di mitologia umana che, aliena da ogni retorica, tocca le corde dell’emozione e della verità:
“Noi crepiamo di debolezza, e questo ci permette di sperare. La debolezza ha sempre vissuto d’immaginazione. La forza non ha mai inventato nulla, perché si sa bastare. Sempre la debolezza sa mettersi in cammino verso ciò che è migliore”
Una debolezza che non conosce età, così come la speranza, così come la voglia di mettersi in gioco, di sentire sulla propria pelle il contatto con la vita:
“Non bisogna fidarsi dei capelli bianchi, della maturità, dell’esperienza, di tutto quello che si è imparato, di tutti i colpi bassi del destino, di quello che mormorano le foglie in autunno, di quello che la vita fa di noi quando si impegna… La speranza, la felicità, tutto resta intatto, sempre là, ed esige che si continui a credere”
In Michel, è la donna che garantisce la vita, l’alternarsi delle stagioni e delle maree, il flusso regolare del sangue nelle arterie, l’allineamento dei corpi celesti. L’amore è il senso ultimo della vita:
“Il senso della vita ha un gusto di labbra. Da là io mi sento nascere. Da là io provengo”
Lydia si rende ben presto conto però che l’amore che Michel immagina e vive è una forma mentis totalizzante che, pur presupponendo il contatto di due individui, rischia paradossalmente di allontanarsi dalla percezione reale dei sentimenti. L’adorazione della donna, che nell’uomo prende contorni ieratici, lascia infatti presupporre un amore di ordine divino, in cui viene meno la soggettività umana a favore di un culto quasi religiosamente sterile. Come dice Lydia:
“Quando si incontra in un uomo un tale bisogno di amare, non si sa neanche più se esiste per lui, se si è amate, o se si è solo uno strumento di culto… Bisogna che anche io viva. Non voglio entrare nella religione. Noi non abbiamo bisogno di adorazione, Michel. L’adorazione finisce sempre per esigere la santità e la santità ci ha già rovinati”
L’amore deve essere vivificato dal contatto quotidiano, in una dimensione che restituisca a chiunque lo viva quell’afflato di calore umano necessario per aderirvi. Al di là di questo, diventa pura astrazione, atteggiamento di posa, esigenza estetica ancor prima che esistenziale. E ancora, l’amore ha bisogno di non essere una àncora di salvezza, ma una scelta compiuta in una condizione di spirito equilibrata.
“Ho trascorso una notte con te, Michel. Ma adesso vado via. Parto perché tu sei ubriaco di infelicità e io non so in fin dei conti chi tu veramente sia. C’è troppa disperazione, troppa paura, in te… e in me. Così è troppo facile. Un giorno, quando non saremo più dei naufraghi, quando saremo veramente noi stessi, allora ci rivedremo, e faremo conoscenza”
La donna, le donne. Ecco la boa di sicurezza di Michel, il suo galleggiante in mare. Lydia partirà (“Lydia, parti tranquillamente. Vai il più lontano che puoi. Resta fino a quando non avrai smesso di dubitare. Vivi per qualche tempo di fermate di autobus. Non aver paura, non sarà nulla. Ti aspetterò al tuo ritorno”), e l’uomo, come protagonista di una quête medievale, incontrerà un’altra donna, cartina al tornasole della sua serenità, dispensatrice del senso del possibile. Consapevole, in fondo, “che le cose attorno a me cercavano di riprendermi nel loro corso, ma erano questioni di eternità, universo, anni-luce, e il cielo si tradiva, la sua immensità lo tradiva, perché il vero cielo è piccolo come una mano”.
Julio Cortázar, il topografo dei sensi
di Lorenzo Giacinto
Sia dato credito all’invisibile, ai fantasmi dello spirito, alle scosse della sensibilità, ai corto circuiti emozionali. Potrebbe essere racchiusa in questo cammeo la summa della poetica di Julio Cortázar, artista argentino tra i più grandi del secolo scorso, autore di opere immortali come Rayuela e di altri innumerevoli racconti.
Non è semplice, all’inizio, addomesticarne la prosa: essa è insieme crisalide e farfalla non classificabile, fuochi d’artificio, sisma tellurico, un purosangue lanciato al galoppo, ma tenuto allo stesso tempo con mano sicura. La penna di Cortázar esplora i fondali marini, l’orogenesi dei sentimenti, le miniere di pietre preziose da cui estrarre diamanti grezzi. Chi conosce già lo scrittore ed ha imparato ad amarlo senza riserve, non può dimenticare la musica inconfondibile che nasce dalla sua scrittura, ponendolo nell’Olimpo degli artisti di ogni tempo, accanto alle vette insuperabili.
Si cominci, per esempio, dal primo capitolo di Rayuela, nel quale viene evocato l’incontro tra Oliveira e la Maga, in una Parigi che sembra essere percorsa ancora da Breton e Nadja, nella convinzione tutta surrealista che incontrarsi per caso non è mai un caso nelle nostre vite. Si lascino cadere nell’oblio, se possibile, tutte le letture precedenti, si smarrisca la concezione di letteratura realista, si disinserisca il pilota automatico e si navighi a vista, guidati dalle immagini che il prosatore sudamericano sa ritrarre meravigliosamente.
“Ma adesso lei non ci sarebbe stata, sul ponte. Il suo volto delicato dalla pelle quasi trasparente si affacciava forse ai vecchi portici del ghetto del Marais, forse stava chiacchierando con una venditrice di patate fritte o mangiando un salsicciotto caldo nel boulevard Sebastopol. Ad ogni modo salii sul ponte, e la Maga non c’era. Adesso la Maga non era neppure sulla mia strada , e per quanto conoscessimo i nostri indirizzi, ogni vuoto delle nostre due stanze di falsi studenti a Parigi, ogni cartolina come una finestrella Braque o Ghirlandaio o Max Ernst stretta fra le povere modanature e la tappezzeria chiassosa, nonostante questo non saremmo andati a cercarci in casa. Preferivamo incontrarci sul ponte, al tavolino di un caffè, in un cineforum o curvi su un gatto in un qualsiasi cortile del quartiere latino. Camminavamo senza cercarci pur sapendo che camminavamo per incontrarci”.
Ecco un breve saggio della prosa dello scrittore, al tempo stesso nitida ed eterea, avvolgente come un mantello di seta e insieme ariosa come un belvedere di una città europea, ricca di riferimenti al cinema, alle arti visive e alla letteratura, descrittiva quanto basta per non stringere troppo le maglie della realtà, splendidamente evocativa al punto da attraversarle come il soffio di un aliseo tropicale. Difficile rimanere indifferenti di fronte a una scrittura così leggera e insieme erudita, ma mai al punto da sembrare pretenziosa o uno sterile esercizio di stile.
Per chi scrive, Cortázar è soprattutto uno scrittore che parla di amore e viaggi, di donne e di tante città. In primo luogo di Parigi, ancora vibrante e in pieno fermento dopo l’esperienza surrealista prima e quella esistenzialista poi. Una città che forse non ha più il fascino magnetico capace di attirare artisti ed intellettuali da ogni angolo del mondo, desiderosi di inseguire genio, sogni e passioni brucianti alternando al fuoco dell’assenzio l’abbraccio umido della Senna, ma che comunque porta ancora dentro di sé il risultato contraddittorio di anni in cui la vita si faceva e si disfaceva rabbiosa, come un lenzuolo disfatto dopo un lungo amplesso. Quella Parigi che lo stesso scrittore scelse come seconda casa, come una Gertrude Stein sudamericana di cui però non accolse la quiete domestica, la consapevolezza di una patente di cittadinanza: vi sono esistenze che non possono sfuggire al costante richiamo dell’esule.
Così, la capitale francese non è soltanto il contesto, per così dire, urbano che racchiude le vicende descritte nei romanzi e nei racconti, ma è anche e soprattutto un modo di stare al mondo, una certa maniera di amare, tutta improntata ad una casualità che poco o niente ha di casuale, così come gli incontri di due individui che partono da due luoghi opposti per poi ritrovarsi nel mezzo del loro cammino, all’interno di uno stesso labirinto. Parafrasando Cortázar, l’amore per Parigi è sempre, in un modo o nell’altro, l’amore a Parigi.
“Perché no, perché non dovevo cercare la Maga, tante volte mi era bastato affacciarmi, arrivando da Rue de Seine, all’arco che dà sul quai de Conti, e appena la luce cenere e oliva che ondeggia sul fiume mi lasciava scorgere le forme, subito la sua figura sottile si disegnava sul pont des Arts, giravamo da quelle parti a caccia di ombre, a mangiare patate fritte nel Faubourg Saint-Denis, a baciarci vicino ai barconi del canale Saint-Martin. Con lei io sentivo crescere un’aria nuova, i segni favolosi dell’imbrunire o il modo con cui le cose si disegnavano quando stavamo vicini”.
Tanti sono i ponti, le piazze, i viali, i quartieri parigini in cui ci accompagna Julio, al punto che si potrebbe disegnare una topografia particolareggiata di intere zone della città. Una topografia che è, mano a mano che la narrazione si distende, una mappa interiore, una geografia fisica dei sentimenti.
Dall’altra parte del mondo, protetta ai due lati dalle intemperanze degli oceani, c’è Buenos Aires, la città natale di Cortázar, dove lo scrittore si trasferì con la famiglia poco dopo la nascita e dove avvenne la sua prima formazione da artista. Tutta la seconda parte di Rayuela è ambientata nella capitale argentina, come se quest’ultima fosse lo specchio rovesciato di Parigi, una sorta d’imbuto dantesco dove ai due capi figurano le due città dagli emisferi opposti. E anche il modo di descriverle è del tutto diverso: lontana dall’ariosità e dai mille riferimenti urbani della Ville Lumière che inframezzano il testo, Buenos Aires non viene evocata che brevemente, privilegiando invece i luoghi chiusi.
Siamo ben lontani da una rappresentazione agiografica della capitale porteña: qui l’eco sensuale dei tango non giunge, l’atmosfera intellettuale dei caffè frequentati da Borges non affiora alle pagine, la passionalità argentina viene smorzata da una certa indolenza scandita da pacchetti di sigarette e mate caldi. È la condizione d’animo del viaggiatore che torna nella sua patria, il ritorno alla normalità dopo aver smaltito la sbornia del diverso e dell’ignoto. E, ciò che è peggio, non c’è ponte, non c’è comunicazione possibile, tra due latitudini differenti. Forse, questo spiega anche la ragione per la quale lo stesso Cortázar, pur vivendo quasi in pianta stabile in Francia, continuasse a scrivere in spagnolo, avvertendo come elemento irriducibile e decisivo, nella sua personalità di uomo e di scrittore, l’appartenenza al territorio sudamericano.
“Prima di sbarcare nella mamma patria, Oliveira aveva deciso che tutto il passato non era avvenuto e che soltanto un inganno della mente come tanti altri poteva permettere il facile espediente d’immaginare un futuro nutrito di giochi già giocati. Doveva continuare, o ricominciare o finire: non c’era ancora il ponte. Si rese conto che il ritorno era in realtà l’andata, e in più d’un senso”
Cortázar, grande cantore dell’amore, evocato con accenti di meraviglia, disillusione e sensualità. Indimenticabile quello che lega Horacio e la Maga, in un susseguirsi disordinato e pulsante di incontri non previsti ma segretamente voluti, di visite frequenti ai clochard della Senna e a una chiromante che predice viaggi e nuove passioni, di sessioni erotiche impetuose e minacce di abbandoni, in un repertorio umano che mai esce dai binari dello stupore e dell’emozione. Difficile dimenticare l’incipit di Rayuela, fologorante come pochi (“Avrei incontrato la Maga?”), così come è complicato che l’oblio rimuova dalla mente uno tra i passaggi più intensi del libro, in cui la relazione sentimentale di Oliveira e la Maga viene fissata in maniera indimenticabile come in una sinossi del sentimento amoroso.
“Che cosa venivo a fare io sul Pont des Arts? Mi sembra che quel giovedì di dicembre avessi pensato di portarmi sulla riva destra e di bere del vino nel piccolo caffè della rue des Lombards dove Madame Léonie mi legge il palmo della mano e mi annuncia viaggi e sorprese. Non ti ho mai portata da Madame Léonie a farti leggere la mano, forse avevo paura che scorgesse nella tua mano qualche verità su di me, perché sei sempre stata un terribile specchio, una spaventosa macchina di ripetizioni, e ciò che chiamavamo amarci forse fu che io ero in piedi davanti a te, con un fiore giallo in mano, e tu reggevi due candele verdi e il tempo soffiava contro i nostri volti una lenta pioggia di rinunce e addii e biglietti di metrò”
E ancora, pochi scrittori hanno saputo trasferire nelle loro pagine una sensualità così seducente. Si badi, non una sensualità esibita con compiacimento, ma piuttosto una tensione erotica condotta con maestria, senza alcuna caduta di stile o giro a vuoto. Ed è proprio in passaggi di questo genere che lo stile dell’argentino si fa più ardito e sperimentale, come cercando di cavalcare l’energia del momento in cui due intimità si stanno per sfiorare: la nominalizzazione delle frasi, l’uso frequente del discorso indiretto libero, addirittura l’invenzione di un nuovo lessico senza alcun significato, ma che per assonanza di suoni lascia presupporre un rapporto amoroso, sono alcuni fra gli stratagemmi utilizzati da Cortázar.
“La aiutava a togliersi il reggiseno, la bocca già sulla spalla nuda, le mani andando a caccia fra le scintille, piccola mocciosa, orsacchiotta sciocchina, a un certo punto nudi in piedi di fronte al fuoco e baciandosi, freddo il letto e bianco e improvvisamente più niente, un fuoco totale lungo la pelle, la bocca di Lina sui suoi capelli, sul suo petto, le mani lungo la schiena, perdute sulla schiena salendo come una sferzata fino in faccia, fino alla gola, Lina, non è per ringraziarmi che lo fai, vero?,le bocche, l’altro fuoco, le carezze dai rosati bordi, la piccola bolla che trema fra le labbra, fasi della conoscenza, silenzi in cui tutto è pelle o lento scorrere di capelli, ventata di palpebra, negazione e richiesta, bottiglia di acqua minerale che si beve a garganella, che passa in un’unica sete da una bocca all’altra, terminando nelle dita che tastano il tavolino da notte”
“Appena lui le amalava il noema, a lei sopraggiungeva la clamise e cadevano in idromorrie, in selvaggi ambani, in sossali esasperanti. Ogni volta che lui cercava di lequire le incopeluse, si avviluppava in un grimado lamentoso e doveva invulsinarsi di fronte al novelo…”
E ancora, oltre alla Maga, la splendida Pola, con la quale il protagonista di Rayuela intraprende un legame più sensibile ai richiami della sensualità dei corpi. Il capitolo 76 della seconda parte del capolavoro argentino è uno dei più belli del libro; due pagine evocano le mani della donna e gli oggetti che essa sfiora: una cerniera lampo difettosa della borsetta suscita “l’impressione che la chiusura impedisca l’entrata in una casa zodiacale” . E le mani, descritte come forse nessun altro prosatore o poeta o chiromante versato alla lettere abbia mai potuto fare, proprio quelle mani per le quali Oliveira:“sentiva la necessità di toccare, di passare le dita su ciascuna falange, esplorare con movimenti di cinesiologo giapponese la via impercettibile delle vene, rendersi conto delle condizioni delle unghie, indovinare chiromanticamente linee nefaste e monte propizi, udire il fragore della luna appoggiando contro l’orecchio la palma di una piccola mano un po’ umida a causa dell’amore o di una tazza di tè”.
Un transistor in grado di amplificare la corrente elettrica di una prosa regolata ad arte, un sismografo che registri ogni moto tellurico che avviene prima nella vita e poi nella pagina, una lente d’ingrandimento posata su ogni entità visibile ed invisibile, o all’inverso un microscopio che dissezioni ciò che si manifesta con l’illusione della grandezza e dell’irriducibilità. La Maga, Pola, Gekrepten, Talita, e attorno al corteo di queste e tante altre donne Parigi, Buenos Aires, Copenaghen, Verona, Madrid, come tante cartoline indimenticabili mandate da un mittente invisibile, a dispetto della forma di gigantismo di cui soffriva Cortazár, il caro Cortázar, vecchio orsacchiotto, a cui mai sarebbe sembrato strano sentir parlare, a proposito di una donna, di cose come la schiuma della birra, le occhiaie al risveglio, il cotone struccante, un mappamondo illuminato, i satelliti intorno alla terra, tutti i biglietti del metrò usati, un comune atlante geografico.
Gli ultimi giorni di Cesare Pavese
di Marina Brunetti
Ogni abisso ha una profondità nota e definita, ma se ci sei dentro, questo spazio, questo “gorgo muto” diventa infinito. La dimensione dello spazio è nota soltanto ai desideri intimi e sinceri di chi affronta la discesa. Tale abisso è sostanza delle implosioni e soggettive reazioni a cui ogni essere vivente deve sottostare: “Ogni momento accade due volte, dice Zadie Smith, all’interno e all’esterno, e sono due storie diverse”. Diverso è il peso che ciascuno dà a ciò che dice, diversa la risposta emotiva interiore di chi assorbe quanto detto. In rete circolano tanti frammenti attribuiti a Pavese, utilizzati spesso come aneddoti, il più delle volte decontestualizzati e piuttosto funzionali al discorso di chi li impiega che non rappresentativi del pensiero pavesiano. In quella torrida estate, in quella notte tra il 26 e il 27 agosto del 1950, quando Pavese ebbe la quieta forza di vergare, a modo e con le pause dovute, la sua ultima firma, in un estremo guizzo d’orgoglio per quanto avrebbe comunque lasciato di sé, in fondo a se stesso aveva trovato solo spavento, e non azione, (parafrasando Malraux), se non quella irreversibile del congedarsi dal mondo. Cosa spinse dunque Pavese al gesto estremo, inevitabile finale di un pensiero sotteso ad anni di vicissitudini interiori e non, mai superate: una grande codardia o un moto di limpido coraggio? Non l’odio per qualcuno, la refrattarietà per il mondo e chi lo abita, non la ripugnanza, altrimenti avrebbe forse combattuto, invece di infliggersi “l’eterno riposo” a soli quarantadue anni:
“Il mito greco insegna che si combatte sempre contro una parte di sé, quella che si è superata, un antico se stesso. Si combatte soprattutto per non essere qualcosa, per liberarsi. Chi non ha grandi ripugnanze non combatte”.
(C. Pavese (2000): “Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950” Einaudi).
L’idea del suicidio nasce in Pavese come si genera un’abitudine corteggiata poi per una vita intera, eternamente connessa con l’amore “Ho sempre seguito impulsi sentimentali, edonistici” (ib., 10 aprile ’36), un’autodistruzione degna di essere stimata eroica, un’affermazione della “dignità dell’uomo davanti al destino” (ib., 24 apr. 1936), messa in atto da chi è innamorato della vita, a dispetto di quanto si possa credere; distrugge se stesso per “scoprire entro di sé ogni magagna, ogni viltà” e, per fare in modo che avvenga questa disposizione autodistruttiva, ricerca, come con un kafkiano coltello, dentro se stesso, s’inebria, gode di queste magagne e di queste viltà. Nel suo diario ultimo, “Il mestiere di vivere”, l’evocazione della morte è sempre presente e se non lo fa, Pavese diventa didattico, didascalico e impersonale, confonde stralci di vita intima con il lavoro, sembra essere del tutto consapevole che le sue memorie saranno poi appannaggio di molti, fruite da menti pensanti e giudicanti, dunque si astiene dall’intimo scavo rifugiandosi in uno stile foscoliano ingessato e innaturale. Il diario di Pavese si mostra come l’opera ultima e suprema dello scrittore, fino ad arrivare alla disfatta della vita e al trionfo della morte. Tramite il diario, lo scrittore diventa l’eroe indiscutibile della sua più tragica ed ultima opera esistenziale. Occorre anche dire che pochi giorni prima del suicidio aveva racchiuso il manoscritto nella cartelletta verde in cui era solito conservarlo e nel frontespizio appariva il titolo “Il mestiere di vivere”, preceduto dai termini cronologici 1935-1950 e seguito dal suo nome. L’indicazione della data finale ci porta dunque sulla soglia della tragedia: Pavese, nello scriverla, aveva ormai deciso di annullare la propria esistenza. Il verbo vivere alludeva al passato, un passato da autodistruttore, che “è soprattutto un commediante e un padrone di sé”, non trascura “nessuna opportunità di sentirsi e provarsi”. In un certo senso è un ottimista che “spera ogni cosa dalla vita” (ibidem). Al suicidio, con tale disposizione, si può arrivare soltanto per imprudenza, oppure se si cede alla “smania di costruzione, di sistemazione”, ossia ad un imperativo morale.
Parecchi sono i vizi esistenziali capaci di uccidere, il fumo, l’alcol, le droghe, ma quello di vivere è un vizio che lascia che sia tu a liberarti di te stesso, a immergerti nel mare magnum delle delusioni, delle insicurezze, delle solitudini, a soccombere nella canicola di una stanza d’albergo torinese. L’autodistruzione avvicina Pavese al suicidio, si configura quindi come una manifestazione di insofferenza nei confronti dell’esistenza umana, l’estremo gesto che necessita di coraggio, che tuttavia un uomo non “cresciuto moralmente” non possiede: “il mio principio è il suicidio, mai consumato, che non consumerò mai, ma che mi carezza la sensibilità” (ib., 10 aprile). Fa da contraltare, a questo concetto sull’autodistruzione, quello dell’atto estremo come gesto dimostrativo, “perché non si cerca la morte volontaria, che sia affermazione di libera scelta, che esprima qualcosa? Invece di lasciarsi morire? […] “E verrà il giorno della morte naturale. E avremo perso la grande occasione di fare per una ragione l'atto più importante di una vita” (ib., 30 novembre 1937). E ancora:“resta sempre che voler uccidersi è desiderare che la propria morte abbia un significato, sia suprema scelta, un atto inconfondibile” (ib., 8 gennaio 1938).
Con questa esternazione, Pavese sembra esortare l’uomo a non attendere la morte naturale e a non lasciarsi sfuggire l’opportunità di decidere da solo della sua esistenza. Attraverso il suicidio l’uomo vuole dimostrare qualcosa, esprimere la sua insoddisfazione nei confronti dell’esistere, del torto dell’esistere; questa scontentezza cade però nel momento in cui egli si avvicina alla morte e comprende la grande importanza della vita, il forte attaccamento ad essa. Un pensiero che, tuttavia, non è il movente che spinge lo scrittore a compiere l’atto fatale, perché nelle sue ultime righe lasciate: “Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Non fate troppi pettegolezzi” non vi è apparentemente risentimento, astio, sebbene abbia vergato prima “perdono tutti”, a dimostrazione che percepiva, nella sua vita, di essere stato più vittima che carnefice, perché la disposizione che noi diamo alla parola ci corrisponde nel pensiero.
“Non fate troppi pettegolezzi”; anche l’ultima lettera di Majakovskij inizia in questo modo: “Se muoio, non incolpate nessuno. E, per favore, niente pettegolezzi”. Nelle vicende di vita, molte sono le somiglianze di Pavese con lo scrittore russo: Majakovskij si uccide alla fine del primo quarto del secolo, Pavese alla fine del secondo quarto; Majakovskij era stato imprigionato dal governo zarista, Pavese confinato dal regime fascista; l’ultimo amore invocato dallo scrittore russo fu un’attrice, Veronika Polonskaia, così come per il nostro, l’attrice Constance Dowling. A differenza degli altri, anche di tutti i viaggiatori in quel giorno afoso di agosto, nel viavai di Porta Nuova, egli sapeva che cambiare luogo, spostarsi di stazione in stazione, di città in città, trascinare una valigia colma dell’illusione che mutare posto cambierà la loro fortuna, o la loro identità, non sarebbe servito. Nell’egoismo della loro fretta, gli ignari astanti calpestano fogli di giornale, urlano, patiscono solo un po’ di caldo estivo, mentre poche decine di metri più in là, di fronte a loro, un uomo ha deciso di addormentarsi la vita per sempre, loro smaniosi di stendersi al sole vacanziero, lui di raggiungere una pace mai intravista: “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”.
Gli occhi sono proprio quelli di Constance Dowling, l’ultimo amore non corrisposto, una goccia cinese nella testa che farà traboccare il vaso depressivo con cui faceva i conti da sempre, per la quale prova una passione quasi adolescenziale, un desiderio di matrimonio, ma che in seguito si tramuterà in un tentativo di rassegnazione ed in tragedia; l’amore risulta così inappagante e impossibile, incapace di dare una risposta al senso di solitudine e di emarginazione. Non è propriamente una donna a spingerlo al suicidio, la sua mancanza, la sua impotenza che lo rende limitato nell’unione con l’altro sesso, a suo dire ignobile e illegittimo alla vita, ma una condanna perpetua ad essa: ”Non ci si uccide per amore di una donna. Ci si uccide perché un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, inermità, nulla” (ib., 25 marzo 1950). Tuttavia, negli ultimi tempi antecedenti il fatale giorno, i suoi scritti si configurano sempre più come la risultanza di una scelta a carattere dimostrativo e in un certo senso vendicatorio, nei confronti della Dowling: “Il coraggio. Tutto starà nell’averlo al momento buono - quando non le nuocerò - ma che lo sappia, che lo sappia” (ib., 27 maggio 1950); il suicidio si presenta come manifestazione della volontà: “sempre gli è allacciata [all’amore] la volontà di morire, di sparirci: forse perché esso è tanto prepotentemente vita che, sparendo in lui, la vita sarebbe affermata anche di più?” (ib., 23 marzo 1950) o come una vendetta (“I suicidi sono omicidi timidi. Masochismo invece che sadismo”, (ib.,17 agosto 1950).
La battaglia portata avanti per una vita da Pavese è quella che vede contrapposte l’esistenza alla letteratura, e lo dimostra anche l’ordine prestabilito di quelle che saranno poi le sue reliquie, a cominciare dall’ultimo passaggio del diario: ”Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più” (ib.; 18 agosto 1950).
“[…] Non scrivere più, nell’ultima parola del diario, significa anche, con le pagine messe ben in ordine, la copertina, il titolo e il sottotitolo, un’ulteriore precisazione: dire, cioè, che la recita della tragedia esemplare è stata interamente compiuta nella battaglia fra la vita e la letteratura. La fine è eroica: il protagonista ha affrontato gli dei crudeli che gli hanno imposto un destino (l’inettitudine a vivere, ad amare nella forma piena e appassionata), l’ha sopportato, l’ha portato avanti fino a offrire come alternativa l’altro aspetto dell’esistenza, che è la scrittura, e il valore che egli è riuscito a fissare esemplarmente, imponendosi fra gli altri scrittori, i lettori, i giudici, come il migliore del suo tempo: "Sei consacrato dai grandi cerimonieri. Ti dicono: hai quarant’anni e ce l’hai fatta, sei il migliore della tua generazione, passerai alla storia, sei bizzarro e autentico... Sognavi altro a vent’anni? Ebbene? Non dirò ‘tutto qui e adesso?’ Sapevo quel che volevo e so qual che vale ora che l’ho. Non volevo soltanto questo. Volevo continuare, andar oltre, mangiarmi un’altra generazione, diventare perenne come una collina” (Pavese 2000: 326 in “L’eroe della tragedia. Pavese e il «Diario»”, G. Bàrberi Squarotti, Cuadernos de Filología Italiana 2011, Volumen Extraordinario, 33-48).
Poiché ancora le ultime battute del Diario rappresentano la battaglia interiore fra la pazienza e la disperazione, la morte e la sopportazione anche della sconfitta più radicale, che è la perdita di Constance per la propria inettitudine, il fatto che Il mestiere di vivere venga consegnato ai posteri nella forma definitiva di opera compiuta per la stampa significa, a ben vedere, la vittoria della scrittura sulla vita sbagliata. Dice: "La mia parte pubblica l’ho fatta – ciò che potevo. Ho lavorato, ho dato poesia agli uomini, ho condiviso le pene di molti” (Pavese 2000: 326; 16 agosto 1950).
È possibile (necessario) morire dopo aver riconosciuto che il destino è fatale e immutabile, ma anche dopo aver proclamato il valore e l’autenticità delle proprie opere: per quel che riguarda Pavese, dopo aver dato poesia agli uomini, cioè dopo aver scritto i libri che valgono a confortare, a illuminare, a far comprendere come è il mondo, la storia, soprattutto la vita contro cui si è battuto fin dalla giovinezza. L’uccidersi, allora, significa non già la verifica del fallimento, ma, al contrario, la giusta risposta di resistenza, di valore e di esemplarità al destino maligno e nemico. Forse un atto di sfida, un darsi inerte al mondo dopo aver eviscerato il meglio e il peggio di sé e averlo messo su pagina, attraverso anfratti interiori studiati, impossibilitato a spiegarne i meccanismi, stanco di non riuscire a cogliere, negli occhi altrui, specie in quelli femminili, quel bagliore interessato, quella magica vis che porta ad amare l’intera creatura in sé e per sé, senza autocompiacimenti. Pavese ci ha lasciato un patrimonio eterno di cui andare fieri e grati, grazie alla sua straordinaria profondità, ma è proprio quest’ultima che spinge una mente, qualunque mente dai profondi pozzi, a cercare di più, a colmare di più, e più spesso inutilmente, gli immensi crateri interiori.
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