Letteratura

Uscite dalla fossa – un incubo di Amelia Rosselli

di Anna Bertini

rosselli
Foto: Dino Ignani

Amelia Rosselli muore suicida a Roma l’11 febbraio del 1996. La poetessa e traduttrice è figlia di Carlo Rosselli, fondatore di Giustizia e Libertà, ucciso per volontà dei fascisti a Bagnoles-de-l’Orne nel 1937 insieme al fratello Nello, quando Amelia ha sette anni. La Rosselli, che già da tempo esterna alle persone a lei vicine intenzioni suicide e manie di persecuzione, si fa spontaneamente ricoverare presso la Casa di Cura Villa Giuseppina nei giorni precedenti alla sua morte, che avviene nello stesso giorno in cui, nel 1963, si tolse la vita la poetessa statunitense Sylvia Plath, di cui Amelia tradusse l'opera in italiano. Nel racconto che segue i fatti relativi alla biografia della Rosselli e i cenni storici sono da considerarsi veritieri, mentre sono mera fantasia dell’autore l’incontro della Rosselli con il personaggio di Bruno Giambruni e tutto ciò che a lui è riferito.

 


Ecco father, sai perché mi dava sui nervi?  Scambiava voi, tu e lo zio, per i morti di Reggio Emilia. Si chiamava Bruno Giambruni. Questo scambio mi era insopportabile. Un fatto degli anni sessanta, quattro giovani operai. Morti in una manifestazione, comunisti, caricati dalle forze dell’ordine del governo Tambroni, un governo fascista. Erano ancora al potere sai, in quegli anni. Uno ci ha fatto una canzone, un certo Amodei. Era suo cugino. Bruno la cantava quando mi incontrava.

Morti di Reggio Emilia, uscite dalla fossa. C’era tuo padre vero?

E tu Carlo Rosselli…  Diceva così la canzone.

- No - lo smentivo io - era Afro Tondelli, non c’entra niente mio padre, mica era comunista. Mio padre è morto nel trentasette in Francia, era un laburista, social-liberale come si diceva un tempo.

Gliel’ho ripetuto non sai quante volte.

- A casa dei Rosselli è morto il Mazzini. È morto perseguitato e ricercato, ma di malattia. Mio padre invece lo hanno ammazzato! È tutta la vita che ci spiano, che ci braccano. E anche me sai, i fascisti sono sempre stati al potere. Ci hanno sempre braccato a noi Rosselli.

 

Mi dava sui nervi, stava nella prima camera del reparto maschile, in cima al corridoio dopo l’androne, a pochi metri dalla mia. Sono andata dalla direttrice.

- Non lo posso sentire, lo fa per perseguitarmi. Canta quella canzone, magari gliel’ha detto qualcuno di farlo. Me lo cambi di camera il Giambruni. E’ bello e musicale, ha una voce così ricca di armonici ma quando attacca "Morti di Reggio Emilia" non so, mi viene voglia di strangolarlo.

Lei mi dava la colpa, diceva che sono un artista, sono insofferente. Che sono teatrale, faccio di tutto teatro.

- Ma lo lasci perdere, è un uomo solo, gli son capitati un mucchio di mali, la sorella l’ha accompagnato qui a Villa Giuseppina perché da ultimo era confuso.

Mi ricordava Rocco Scotellaro nel volto: la forma triangolare, un’onda di capelli sulla fronte. Aveva circa la mia età - qualche anno meno forse - ma aveva capelli di pece.

Ora mi hanno rimandato a casa. Leggo traduco scrivo leggo. Sai cosa diceva?

- A forza di amare ti si è fatta roca la voce, troppa passione fa male alle corde vocali. Tutta quella poesia, quella erre rolla, da straniera. Hai troppa passione Amelia, finirai male.

 

Una notte nel mezzo di un sogno si svegliò di soprassalto il Giambruni. Uscì nell’androne e cominciò a chiamare il mio nome. Rimbalzava tra le mura del corridoio il nome.

- Amelia, Amelia, è morta. È morta Silvia.

Accorsi. Era sudato, spettinato.

- Amelia! È morta mia figlia Silvia, è morta davvero.

L’ho riaccompagnato a letto, aveva la camicia del pigiama aperta. Ho cercato di calmarlo.

- Si chiamava Silvia tua figlia?

- Sì, mia figlia. Silvia Giambruni. Era infermiera nel reparto lungo-degenti. Ha contratto un’infezione del sangue, una setticemia mortale. Era giovane, era… Vorrei mostrarti la fotografia, prendila nel cassetto.

Feci finta di prenderla, non mi alzai neppure.

- Proprio bella, altera. Come la mia Sylvia. Anche lei è morta giovane, la mia Sylvia Plath. Ma vive nei versi. Io li ho tradotti, le resto legata così, me la porto dentro nella lingua dei padri, sono un po’ lei. L’hai letta tu Sylvia Plath, la conosci? Anche tu sei un po’ Silvia, tua figlia. La porti nel sangue, e io la Plath la porto nei versi. Ce le portiamo dentro e siamo morti un po’con loro noi due, Giambruni.

Sembrava si fosse calmato.

- Ah, sei tu Amelia, Amelia dei Morti di Reggio Emilia.

 

Per fortuna sono venuta fuori da Villa Giuseppina, father. Ora sono qui. Leggo traduco scrivo leggo, mi incazzo coi piccioni che mi cacano il terrazzo. Mi incazzo con la porta che cigola. Esco poco. Non chiama nessuno, non mi leggono più. Mi braccano, dicono che sono un’esibizionista. Che i fascisti non ci son più. Certo che ci sono, ci sono sempre stati. Tra poco viene febbraio. Ma perché ti parlavo dell’uomo? Alla fine mi è rimasto nei timpani il suo nome, Bruno Giambruni. Mi è rimasta nei timpani la voce. Da giovane forse me ne sarei invaghita.

- Uscite dalla fossa! Amelia, tu con la tua erre rolla finisci male.

 

Febbraio è un mese difficile. È breve ma per attraversarlo ci vuole scorza. Ci vuole decisione. Mi sono sognata il Giambruni che cantava “Morti di Reggio Emilia”. Mi sono sognata i morti usciti dalla fossa. Anche tu e zio Nello. Anche Afro Tondelli, il Mazzini. Mi venivate a prendere. C’erano anche Sylvia, la mia Sylvia Plath, e anche l’altra Silvia, la figlia del Giambruni, e c’era lui, il Bruno morto pure lui. Potrei telefonare a Villa Giuseppina, magari è successo davvero, ma no, non lo voglio sapere. Ad averlo vicino mi dava ai nervi ma poi a casa mi mancava. Ho scritto una litania, father. Per tutti quelli che sono mancati e presto non più sentirò mancarmi. Non più a dolermi, mai più.

 

 

Uscite dalla fossa

 

Giorni grevi e asciutti, come fianchi di selce, mancano pochi scatti, pochi forse venti, e verranno undici. Venite pure a prendermi, non servirà la falce, venite in corteo, senza aspergere, né celebrare. Io il cerimoniere colui che capovolge forma e riforma il tempo, col cero acceso legge; poi brucia le carte. Smettete, di parlare così forte, uscite dalla fossa in silenzio, io non vi sento, non più vi sento. Non più io a dolermi, non più voi a mancarmi, non il mondo a celebrare, celebrare per me, io il cerimoniere

 

L’ULTIMA STELLA DI LISBONA

di Lorenzo Giacinto

 

Un ritratto dello scrittore portoghese Fernando Pessoa e della città dove visse la sua breve vita

PessoaLisbona è una città che invita al ritorno e insieme promette lunghe fughe oltre il vasto orizzonte, un tempo territorio di conquista di esploratori ambiziosi. Chi vi è stato già una volta avrà avvertito forse un dolce ma inevitabile abdicare anche a se stessi. Una sorta d’incanto, una fascinazione rara ed inspiegabile legano alcune città elette agli atomi d’ossigeno che vi si respirano. Accade che si perdono i confini tra le strade di un luogo e la propria fisicità di individuo, la mappa diventa anatomia. La città diventa chi la percorre in un preciso momento storico.

Una mattina assolata o un pomeriggio sonnolento si può decidere allora di arrampicarsi per le strade ripide della capitale portoghese, e ritrovarsi come se si venisse portati da una forza esterna in un caffè chiamato A Brasileira, dove l’immaginazione può scendere dai propri nidi d’aquila e planare tranquilla sulle tegole e le case in calce bianca che risplendono di luce. Una statua posta di fronte al locale, bersaglio di selfie rapinosi, ricorda che il più importante scrittore lusitano, Fernando Pessoa, vi aveva eletto la propria seconda dimora. Lo si immagini allora, con la sua bombetta calata su un viso refrattario agli occhi curiosi, dei timidi baffi neri triangolari a custodire timidamente la bocca, un paio di occhiali che gli danno un’aria di uno studente troppo cresciuto.

Apre il suo taccuino, e in quel gesto non c’è nulla di snobistico o comandato. Scrive. Probabilmente si sente un piccione un po’ goffo. In fin dei conti la letteratura è l’occupazione degli oziosi, un po’ di senso di colpa non guasta. Però bisogna fare i conti con una cosa che si chiama vocazione, si attacca al sangue e fa il giro del corpo, lo sapeva bene anche Flaubert. Continua a scrivere dunque, a volte smette quando qualcuno gli passa accanto. Poi ricomincia. Si trova a Lisbona, ma pensa alla sua infanzia in Sudafrica. Ecco, il destino lo ha voluto mettere di fronte agli oceani, precario sulla terraferma, mosso da un vento interiore che spira dalle profondità dei fondali oceanici. A Durban passa l’intera giovinezza : doppia diverse volte il Capo di Buona Speranza, studia l’inglese e i classici della letteratura, avverte il richiamo di casa dall’altra parte dell’Equatore.

Ad eccezione di questa parentesi in Africa, la biografia di Pessoa non registra grandi sussulti. I movimenti, le oscillazioni, gli smottamenti e le ricomposizioni sono tutte interiori. In fin dei conti qualsiasi biografia è un violare le imposte chiuse, un indovinare quello che succede nell’intimità nella penombra. I sismografi, però, testimoniano quello che si produce nelle viscere della terra, non quello che vi accade in superficie.

« Se dopo la mia morte volessero scrivere la mia biografia,

non c'è niente di più semplice.

Ci sono solo due date – quella della mia nascita e quella della mia morte.

Tutti i giorni fra l'una e l'altra sono miei. »



Lasciamo inviolata all’uomo la sua gelosa navigazione nelle acque avventurose dell’esistenza.



Torniamo a Fernando, al suo pomeriggio speso al caffè, mentre la luce di Lisbona si sposa con l’azzurro del Tago. Scrive ancora, soprattutto poesie. Sono tante, molte delle quali disperse, disseminate come arcipelaghi su fogli di carta, riviste, lettere. Il genio tiene poco a se stesso, ecco un’altra verità da almanacco. Ordina una, due, tre, chissà quante Ginjinha, il liquore dolciastro alla ciliegia. Forse l’accompagna con un buon pastel de nata aromatizzato alla cannella. In quel momento nella Sé, la cattedrale della città, suonano svogliate le campane, disperdendo nugoli di gabbiani nell’aria.

Fernando non è sposato, vive di innamoramenti estetici e fulminee rivelazioni. Non sa cosa sia la passione carnale, forse non lo saprà mai. Più dei corpi avvinghiati lo interessa il puro sentimento d’amore.

Quel pomeriggio non si firma come Fernando Pessoa. Alla fine di un foglio stiracchiato, dove minuscola si stende la sua scrittura simile ad una colonna di formiche, si legge Ricardo Reis.

La data riporta il 2 luglio del 1930. Con un po’ di invadenza, avvicinandosi a quel pezzo di carta che è diventato depositario di un cielo azzurro e insieme di una vita troppo breve, si legge :



“Quel che sentiamo, non quel che è sentito,

è quel che abbiamo. Certo, l’inverno stringe,

Come destino accogliamolo.

Ci sia inverno sulla terra, non nella mente,

e, amore ad amore, o libro a libro, amiamo

il nostro fuoco breve”



Ecco avanzare l’oraziano Fernando, l’invito a godere quanto più possibile ciò che la vita ci concede in maniera effimera. Non si abbia paura del fuoco, non si abbia timore della fiamma che lambisce i polpastrelli, pare dirci l’ultima coppia di versi. E una donna non nominata, Lidia, che sarà l’interlocutrice di tante altre poesie, diventa l’immagine che convoglia un amore per la vita non strozzato da ansie metafisiche o religiose. Ma sì, che tuoni pure Giove nei cieli coperti, nelle vette insuperabili e inaccessibili, che lapidi pure Nettuno con le onde le spiagge levigate e le ripide scogliere : bisogna ignorare, cara Lidia, ciò che non parla la lingua degli amanti.



A che serve scalare l’Himalaya, se si addomestica la vita in un giardino moresco di Lisbona. Ad altri lidi e ad altre latitudini s’ingorghino le nuvole pesanti : qui la leggerezza a volte sembra essere una docile promessa. Libertà, s’affanna a dire Fernando, che per un gioco di dadi il 2 luglio del 1930 è Ricardo, libertà anche a costo dell’amore :



“Non voglio, Cloe, l’amore tuo, che opprime

e amore esige. Voglio esser libero.



La speranza è un dovere del sentimento.”



Si dice che la letteratura è vita che non basta a se stessa. Vita che esce dai canali, dagli argini, che rompe le dighe e spezza i bastoncini dello shangai. Quale miglior argomento allora per spiegare gli eteronimi di Fernando Pessoa? Ricardo Reis, Bernardo Soares, Alvaro de Campos, Alberto Caeiro, ognuno con una propria biografia inventata, ognuno con la sua bibliografia ragionata, ognuno con il proprio lasciapassare per il mondo.

Solo dopo la morte di Pessoa si verrà a sapere che tutti quei personaggi erano nati da una sola penna, da una sola multiforme sensibilità in grado di misurarsi camaleonticamente con la complessità della vita. Il Pessoa romantico, il Pessoa lucido pessimista, il Pessoa avventuriero e funambolo che tutto ha visto e sentito : uomo nel quale si agitano e si sciolgono le contraddizioni, dentro cui tutte le città rumoreggiano e tutte le onde crepitano. Troppa vita, caro Fernando, per una persona sola. Troppo da dire, da fare, da immaginare, da avvertire, troppo peso su quel fegato che ti darà la morte a soli 47 anni, approdo finale di un’ode incompiuta.



Ma quel termine è lontano ancora, lontano quanto possono esserlo 5 lunghi anni. Pessoa è ancora seduto alla A Brasileira, come quasi fa tutti i giorni. Il pomeriggio diventa sera, già le acque del Tago si indorano, i panni stesi nelle ore più calde svolazzano tra i palazzi dell’Alfama, più ad Est. Pochi giorni prima ha rinunciato a vedere una sua ammiratrice, una poetessa in trasferta a Lisbona, perché l’oroscopo di quel giorno lo sconsigliava. Le ha fatto recapitare nella stanza d’albergo la copia di un suo libro e un biglietto di scuse. Anche questo è Fernando Pessoa.



Si alza all’improvviso, raccoglie le sue cose, saluta in un portoghese non più sobrio i volti noti e si avvia verso la Baixa, il quartiere di Lisbona ricostruito interamente dopo il terremoto devastante del 1755. Là, dove si apre imponente la Praça do Comercio, gli sembra di rifiatare alla vista dell’azzurro. Davanti a sé il fiume, ma i portoghesi lo chiamano mar, questi indomabili sognatori.

Gli giunge all’orecchio lo svagato sferragliare del tram 28 che come una serpe sinuosa scala i colli di Lisbona, ma sono le navi attraccate al molo poco distante che catturano la sua attenzione.



Subito il senso dell’avventura, l’attrazione innata tutta portoghese per le mappe e i viaggi, si fanno strada impetuosi nel suo animo dove il sentimento casalingo non ha mai dissipato quella sete ancestrale dell’altrove, quella giostra inesausta di derive e approdi e ripartenze. Diventa allora Alvaro de Campos, l’ingegnere futurista che ha fatto della sua vita un inesauribile viaggio. Alvaro è emblema dell’uomo che vuole diventare il compendio di tutte le passioni e di tutte le esperienze dell’esistenza. Egli è vissuto in tutte le città, ha solcato tutti i mari conosciuti, si è accompagnato con principi e puttane, saltimbanchi e intellettuali, ha sofferto e gioito ad un tempo, offrendo il suo corpo come un campo di battaglia nel quale tutti gli scontri sono avvenuti con fragorose perdite e vittorie. E infine, amara, la capitolazione finale :



“Ah non poter essere io tutta la gente e tutti i luoghi”.



Di nuovo allora sale l’invocazione, simile all’Invitation au voyage di Baudelaire :



“Viaggiare! Perdere paesi!

Essere altro costantemente,

non avere radici, per l'anima,

da vivere soltanto di vedere!

Neanche a me appartenere!



Andare avanti, andare dietro

l'assenza di avere un fine,

e l'ansia di conseguirlo!

Viaggiare così è viaggio.”



Così forse medita Fernando Pessoa, mentre torna con le ultime luci verso la parte alta della città. Dall’oceano giunge una brezza che porterà pioggia all’alba, e forse per pochi giorni. A Lisbona piove sempre troppo o troppo poco. Prima però una deviazione verso la sobria chiesa della Graça. Là esiste ancora un miradouro, uno dei tanti belvedere della città, forse uno dei più belli. A destra, imponente e solitario, si vede il castello di São Jorge. Intorno i tetti dell’Alfama evocano atmosfere arabe. Un ultimo sguardo sulla città prima del congedo. Di fronte il bianco delle case si scioglie come zucchero filato nell’azzurro del Tago.





L’Emma flaubertiana e quella freudiana

di Marina Brunetti

Con Madame Bovary, Flaubert dissacra l’ideale dell’eroina romantica, che viene trasformata in una comune e mediocre donna di provincia, persa dietro sogni illusori e irrealizzabili dettati dal suo incoercibile Es, e inaugura uno stile oggettivo e documentaristico che influenzerà in seguito il realismo di Guy de Maupassant (1850-1893) e il Naturalismo di Émile Zola (1840-1902).

 

huppert

“No, non creda più donna ad uom che giura,

Né mai speri trovar fidi i suoi detti,

Ma come prima le sue voglie ha sazie,

Finch’ei cupido alcuna cosa agogni,

Non più parole né spergiuri ei teme”.

Non perdona a promesse o a giuramenti.

(Gaio Valerio Catullo)

 

 

Nella storia della letteratura vi sono date importanti, coincidenze a cui ci piace credere.

Il 1821 è l’anno in cui morì Napoleone, il dominatore d’Europa, a Sant’Elena, ma è anche l’anno in cui videro la luce due grandi scrittori e un poeta, artisti che incisero il tessuto letterario dell’era moderna: Dostoevskij, Flaubert e Baudelaire.

A distanza di più di centocinquant’anni, la figura di Emma Bovary, nata Rouault, è più vivida e attuale che mai: non si è affatto trasformata nell’appassita damina che potremmo immaginare, ma ci ha lasciato in eredità una strana e contagiosa malattia, il bovarismo, che si manifesta con una diffusa insoddisfazione sul piano affettivo e sociale, riscontrabile tra giovani, velleitarie donne magari un po’ nevrotiche e si traduce in ambizioni vaghe e smisurate, in fuga costante verso l’immaginario e il romanzesco. Mi sono dunque chiesta quanta impronta di Flaubert ci fosse in codesta definizione, a conferma del suo celebre rivendicare “Madame Bovary c’est moi!” e quanta eco potremmo tributargli in coro, dopo un leggero e pudico esame di coscienza collettivo.

Al di là della facile ignominia di cui si sarebbe macchiata Emma Bovary, con il suo apparente ruolo di borghesuccia adultera e meschina – etichetta divenuta prototipo nel tempo – il mio modesto interesse analitico si è spostato su un piano squisitamente psicologico e sulla tutt’altro che semplice risposta, considerata la complessità del personaggio, a tre quesiti naturali che la trama ci sussurra: perché Emma fallisce nel trovare l’amore ideale, quali sono le ragioni che la spingono a commettere adulterio e quali quelle che la muovono a congedarsi dal mondo per sua stessa mano. Se capiremo tutto questo avremo lo sguardo riconoscente di Flaubert, poiché capire Emma equivale a leggere l’anima flaubertiana come un enigma svelato. Un’anima, la sua, tanto affine a quella della sua passionale eroina da riuscire a descrivere, con particolare finezza ed empatia, alcuni aspetti proprî dell’anima femminile, seppur miseramente contraddittorî:

“Un uomo è almeno libero; passioni e paesi sono aperti dinanzi a lui, può ignorare gli ostacoli ghermire le felicità più remote. Una donna, invece, è continuamente impedita. Inerte e flessibile nello stesso tempo, ha contro di sé le debolezze della carne e i dettami delle leggi. La sua volontà, come il velo del cappello, trattenuto da un cordone, palpita a tutti i venti; per ogni desiderio che alletta, v’è una convenienza che trattiene”.

(Gustave Flaubert, Madame Bovary, ebook pos.1392)

Flaubert, quale visionario dell’animo femminile, aveva il dono profondo d’indulgere nell’anima di donna a tal punto da saper tratteggiare, con maestria e sorprendente verosimiglianza, una delle figure più indelebili e complesse della storia letteraria; questo femmineo quadro, incapace di resistere alla tentazione degli oggetti, per cui un bell’abito o accessorio non soddisfacevano il primario bisogno di protezione o quello di decorazione, men che meno di pudore, ma assurgevano a ruolo di “costume”, di salvacondotto, in grado di aprirle le porte eleganti dei palazzi, così come di riscattarla da una provincialità mal tollerata.

Emma pagherà un caro prezzo alla facondia d’impulsi creati dal suo Es freudiano, primitivo e animalesco, un vasto ambito mentale, il luogo dei contenuti psichici rimossi – cioè scartati dalla coscienza attraverso il processo di rimozione – territorio delle pulsioni contrastanti e della continua pressione rivolta incessantemente al soddisfacimento del piacere e dei bisogni egoistici. L’Es viene così identificato nell’inconscio, i cui contenuti – seppur latenti – sono determinanti per l’attività psichica dell’uomo. Nell’Es non vigono le leggi della logica, dunque se la vita ti offre un semplice ufficiale sanitario, sembra illogico appellarsi alle velleità e agli utopistici sogni di un mondo patinato; nell’Es non esistono giudizî di valore, al punto che se Emma cederà alle lusinghe lussuriose, sdegnando l’altrui opinione, parimenti trascurerà il richiamo di madre sorda e indifferente al filiale accudimento. Nell’Es non funzionano i meccanismi della memoria, a tal punto che i contenuti di tale sfera non risultano modificati nel tempo, dunque la romantica ricerca del “cavaliere dalla scintillante armatura” ch’ella aveva carezzato e affinato in anni d’illusorie letture, continua ad essere il suo precipuo miraggio, in cui il romanticismo, con il suo culto delle emozioni, sormonta la banalità del quotidiano:

“Anche se lo amava non era felice e non lo era mai stata. Da cosa dipendeva questo vuoto che esisteva nella sua vita, questa putrescenza istantanea delle cose che le stavano più a cuore?” (Ibidem, pos.4426)

Di fatto, la storia di Emma ci appare come un chiaro esempio d’insoddisfazione cronica mitigata da rari momenti d’esaltazione, una condizione mentale che, letta in chiave moderna, verrebbe etichettata con il marchio di bipolarismo: depressione, accensioni passionali, delusioni. Eviterei le ideologie femministe e le paludi nosografiche, per non cadere nell’incomprensione del fenomeno e analizzerei in modo più complesso questa condizione: credo fortemente che le donne sentano, più e più intensamente degli uomini, lo scarto che esiste tra la finitezza individuale e l’infinito. Questa sensazione è tanto più viva quanto più vasto è il pozzo in cui versiamo le emozioni di una vita e come donna, spero scevra da scontati preconcetti, avverto la sensibilità femminile come più viva, rispetto a quella maschile. È come se la donna dovesse vivere la propria vita in uno stato tensivo estremo, nel tentativo di azzerare tale scarto, per cui spesso si spende nell’estenuazione dei lavori domestici, così come nelle passioni amorose, nel virtuosismo estremo, frutto di un’ideologia religiosa fagocitante e mortificante i suoi desiderî, come nelle accensioni passionali; in pratica, nel disperato tentativo esperienziale di soddisfare il suddetto iato. L’ideologia e l’organizzazione sociale borghese, allora molto più sentita, ha approfittato in questo senso di una naturale predisposizione e propensione della donna, per far gravare su di lei la responsabilità della virtù domestica e morale; non sorprende, dunque, che a questo peso interiore faccia spesso da contraltare un compenso inconscio che si traduce nel sogno di una vita di segno opposto: la necessità di “voler vivere la propria vita” –  come ho sentito dire ad una donna che aveva abbandonato anni prima figli e marito – talvolta non implica quella fase condivisa con qualcuno in un vissuto precedente, quanto piuttosto una forma incoercibile di evasione dalla stessa. Quindi l’opposto del perfezionismo morale, a cui dovrebbe assoggettarsi la donna per definizione, non è neppure la libertà da quello, ma il perfezionismo trasgressivo.

In Madame Bovary, il personaggio di Emma appare chiaramente dominato dall’Es: è il cuore che, non senza un poco di utilitarismo, la rende insaziabilmente vorace di emozioni:

“Amava il mare soltanto per le sue tempeste, e la vegetazione solamente se cresceva a stento e rada in mezzo alle rovine. Era necessario per lei trarre dalle cose una specie di utile personale e respingeva come superfluo tutto ciò che non appagasse la brama immediata del cuore. Era più una sentimentale che un’artista, cercava emozioni più che paesaggi”. (Ibidem, pos. 4416)

In virtù di questo, tutto il romanzo flaubertiano è apparentemente costellato, a più riprese, dalla descrizione doviziosa e dettagliata di tutti i desiderî che l’Ego, il mediatore tra Es e Super Io, pressoché assente in questo caso, esprime quasi incessantemente. In realtà, è un paradosso, ella non vuole nulla, non può volere, o meglio, vuole solo ciò che non avrà mai: è il fantasma dell’isterica, rimanere ancorata a un desiderio impossibile che la condanna all’insoddisfazione come unica forma di godimento, perché ciò che “l’isterica” Emma vuole è la speranza, la promessa, la possibilità di poter rimandare nel futuro la conclusione, la tensione verso l’infinito di cui detto sopra:

“Era innamorata di Léon e cercava la solitudine per poter a suo agio dilettarsi con l’immagine di lui. Vederlo di persona significava turbare la voluttà di tal meditazione. Il suono dei suoi passi faceva palpitare il cuore: poi, la sua presenza faceva svanire ogni emozione e in seguito in lei restava soltanto un immenso sbigottimento che si trasformava in tristezza”. (Ibidem, pos. 584)

L’isteria di Emma appare dunque come una forma di feticismo, che si consuma al motto di “l’attesa del piacere è essa stessa piacere” e tanto basta: il pensiero fisso di un amore che non c’è prende il posto di feticcio. Emma dovrà accontentarsi dell’oggi, o meglio, l’oggi insoddisfacente serve a mantenere in vita l’amore-feticcio, l’obolo consolatorio, dove l’oggetto d’amore pensato si tramuta in materia prima, poiché ciò che interessa a Emma è il godimento nell’immaginare un desiderio, non realizzarlo e per questo fa obiezione al modus recipiendi, al ricevere da un altro. In pratica, la nevrosi di Emma, con il trascorrere del tempo, si attesta e si consuma su una linea di confine tracciata dall’indecisione, almeno nei prodromi dell’adulterio, per cui, come sostenne Lacan, “il nevrotico non fa che preparare i bagagli per un viaggio (nel caso di Emma, verso il proprio desiderio) che non farà mai”:

“Sì, affascinante! Affascinante! ... Amerà una donna?” si domandò “E chi? ... Può amare soltanto me!”. In un lampo, tutte le prove di ciò si spiegarono davanti a lei e il cuore le balzò nel petto”. (Ibidem, pos. 1614)

Perché, dunque, Emma fallisce nella sua ricerca del vero amore?

Gli uomini correlati al fallimento, li abbiamo citati, sono tre: il primo è il marito, Charles Bovary, il secondo è Rodolphe Boulanger e il terzo Léon Dupuis. Charles è un uomo semplice e mediocre, profondamente innamorato della moglie, ma incapace di capirne la psicologia complessa e le mondane richieste. L’inettitudine di Charles a incarnare l’ideale romantico di Emma, forgiato anche da anni di letture in tema e da una certa dose di misticismo religioso, le offrono il pretesto per l’adulterio, quale riscatto dall’insoddisfazione coniugale, una condizione che neppure la nascita della figlia potrà risanare. L’eziologia del tradimento inizia qui: l’anarchia morale della Bovary, inizialmente tenuta a freno dall’Ego – anche grazie alla morale religiosa di cui era infarcita per educazione – e dal richiamo mistico, (risorse a cui s’affida in seguito all’abbandono di Rodolphe, cosi come in punto di morte), non è espressione della potenza degli istinti prepotenti affrancati dal controllo morale. Questa anarchia morale in crescendo costituisce piuttosto una difesa soggettiva contro i valori mortificanti interiorizzati a cui accennavo sopra, quelli da lei oltraggiati e i sensi di colpa che essi, nel suo Ego, fermentavano. È a questo punto che fa il suo ingresso il Super Io, il censore della propria coscienza: per metterlo a tacere, evitando la depressione e l’onta psicologica derivanti dalla sua condotta, non può far altro che commettere infrazioni sempre più contrarie alla pubblica decenza, in uno stato di coscienza anestetizzato e sordo ai richiami del Super Io. Anche per questa ragione la conclusione del percorso di vita di Emma, che si attua con il suicidio e il pentimento mistico è significativa: darsi la morte manu propria azzererà i problemi, pacificherà i sensi di colpa e la disperazione da deminutio di sé che da viva non avrebbe saputo, né voluto affrontare.

Se non le è dato avere l’esistenza che vagheggia da una vita intera, potrà almeno apporre una data alla sua dipartita.

Alla pienezza di vita e ricchezza di ideali a cui tende Emma per tutta la sua vita, seppur oscillante tra la mutilante virtù e la passione amorosa, fa da contraltare la mediocrità dei personaggi maschili che ne popolano il mondo fatato: Charles, non solo per l’amore che nutre per lei, appare il personaggio più autentico, sebbene ammantato di banalità piccolo-borghese, complici un padre gaudente e narcisista e una madre ambiziosa e invasiva. Invano Emma tenterà di aprire l’anima di Charles verso orizzonti più vasti e invano tenterà di renderlo affine a sé: “come può uno scoglio, arginare il mare…”:

“Intanto, seguendo le teorie nelle quali credeva, ella cercò di crearsi l’amore. In giardino, al chiaro di luna, recitava tutte le rime amorose che sapeva a memoria e sospirava romanze malinconiche, ma non sentiva agitarsi dentro di sé nessuna passione, e Charles non sembrava né scosso né più innamorato”. (Ibidem, pos. 692)

Léon è un personaggio contraddittorio, anche lui divide con Emma una finezza di orizzonti, la ama poi di autentico amore, platonico, prima che erotico. Inizialmente il Super Io riesce a fare la sua parte controllando l’Es, poiché vuol essere una donna virtuosa. Nonostante questo, ad un certo punto, poiché tutto ha una fine e spesso contraria al proprio volere, arriva a sentirsi fagocitato dall’intensità passionale di Emma al punto da disamorarsene:

“Come il più modesto libertino ha sognato harem, così ogni notaio porta celati in sé i frantumi di un poeta. Léon si sentiva infastidito adesso quando Emma d’improvviso si metteva a singhiozzare sul suo petto, e il cuore di lui, simile a quelle persone che si stancano se ascoltano per lungo tempo la musica, si assopiva nell’indifferenza alle manifestazioni clamorose di un amore del quale non apprezzava più le raffinatezze”. (Ibidem, pos. 4532)

Quando poi Emma lo implora di aiutarla a far fronte ai debiti, gioca la spontanea carta del vigliacco: non le nega il suo aiuto, ma non lo concretizza affatto.

Ma sicuramente Rodolphe è la figura maschile più sgradevole di tutto il romanzo; uomo di mondo, intuisce la fragilità di Emma e ne approfitta a piene mani, celando sotto enfatiche dichiarazioni d’amore un calcolo da cinico séducteur che, essendo tale, non può, per definizione, tollerare il linguaggio eterno della passione e men che meno l’assoggettamento:

“Si era sentito dire tante volte tutte queste cose che ormai non avevano per lui più niente di originale. Emma non era diversa dalle altre amanti, e il fascino della novità, cadendo a poco a poco come un abito, metteva a nudo l’eterna monotonia della passione, che ha sempre le stesse forme e lo stesso linguaggio” […] “È necessario” pensava “ridimensionare i discorsi esagerati che spesso nascondono sentimenti mediocri: come s e talora la passione eccessiva non traboccasse dall’anima servendosi delle più vuote metafore, perché nessuno, mai, può dare l’esatta misura delle proprie necessità, delle proprie concezioni, o dei propri dolori, dato che la parola umana è simile a un calderone incrinato da cui è facile trarre una musica adatta per far ballare gli orsi quando vorremmo commuovere le stelle”. (Ibidem, pos. 3014)

Il cinismo di Rodolphe rasenta confini insopportabili, riducendola alla docilità più assoluta, alla più convinta corruzione, fino a farle credere di voler fuggire con lei in un progetto di vita insieme, per ritirarsene poi all’atto finale, incapace di assumersi un impegno tanto vincolante legandosi a una donna impegnativa e sfaccettata, Emma, questa storica figura dal valore universale.

 

Castello di ghiaccio, di Tarjei Vesaas

di Valentina Masotti

Nel Castello di ghiaccio, Tarjei Vesaas ci trasporta in un mondo intriso di simbolismo e magia. Gli incantevoli paesaggi dell’inverno norvegese, la foresta irrigidita dal gelo, la cascata trasformatasi in una fortezza di ghiaccio sono in realtà i nostri luoghi più intimi, che rimangono perlopiù inesplorati. Ma le emozioni confinate nel profondo a volte spingono con prepotenza per emergere in superficie, scalfendo quelle corazze ordinarie e banali che costringono a una normalità spenta, inespressiva. Questo libro racconta del doloroso ritrovamento di queste emozioni, in una lotta estenuante tra scoperta e paura, tra rifiuto e arricchimento.

imgUnn è giunta da poco in un nuovo villaggio. La madre è morta da qualche mese ed è stata accolta dalla zia, l’unica parente rimastale, che vive in una casetta appartata ai margini della foresta. La rigida stagione invernale è ormai alle porte e lei, undici anni appena, timida e riservata, si ritrova a doversi ambientare in una nuova scuola. Unn è schiva nei confronti dei suoi compagni e si tiene ai margini dei momenti di gioco durante le ricreazioni e nei pomeriggi liberi. Ma questo non impedisce il suo incontro con la coetanea Siss, allegra e vivace, amata da tutti, costantemente al centro dell’attenzione. Si piacciono sin dal primo istante, Siss e Unn, e quando i loro sguardi si incontrano diventano perfettamente consapevoli del fatto che tra loro sta per nascere un’amicizia importante, un sodalizio destinato a durare nel tempo.

Un raggio di luce da chissà dove. Si girò e incontrò il suo sguardo. Si guardarono nel fondo degli occhi. Strano. Di più non sapeva, di più non poteva neanche pensarci. (p. 16)

Così Vesaas ci descrive l’incontro con l’altro, con il diverso. Due ragazzine dalle personalità diametralmente opposte che si trovano, capendo all’istante di non poter più fare a meno l’una dell’altra. All’età di undici anni la curiosità fluisce spontanea, libera da preconcetti e costrizioni, e le differenze non spaventano. Conducono invece per mano attraverso le vie tortuose che portano all’affermazione della nostra individualità. Nell’altro ci specchiamo, scorgendo la nostra immagine riflessa, e ritroviamo la diversità nelle pietre preziose che disseminano il nostro cammino, elementi essenziali al completamento di noi stessi.

Unn tiene però dentro di sé un segreto, un nodo che deve essere imperativamente sciolto, prima di farsi coinvolgere in uno scambio incondizionato in cui si accoglie e ci si lascia accogliere senza riserve. Deve ritrovare le sue emozioni, ormai sedimentate sul fondo degli spazi interiori più reconditi e ripercorrerle una ad una, rielaborarle e metabolizzarle, per poter radunare le forze necessarie a compiere il passo decisivo verso un nuovo inizio.

Non è ancora pronta per Siss, deve attendere. Una mattina decide così di non andare a scuola e di avventurarsi invece nella foresta alla scoperta del Castello di ghiaccio, di cui tanto ha sentito parlare al villaggio. Il Castello di ghiaccio: una fortezza provvisoria, una meraviglia della natura scaturita dalle correnti di una cascata con la complicità dell’intenso gelo invernale.

No, c’era solo un pensiero, oggi: Siss.
Questa è la strada che porta a lei.
Questa è la strada che porta a Siss.
Non posso vederla, solo pensarla.
Non pensare all’altra cosa, adesso.
Solo a Siss che ho trovato.
Siss e io nello specchio.
Raggi e luccichii.
Non pensare che a Siss (p. 41)

Unn riuscirà a intrufolarsi all’interno di quella scultura apparentemente inespugnabile e ne esplorerà coraggiosamente ogni ambiente. Sì, deve armarsi di coraggio, per visitare il Castello di ghiaccio, perché si tratta in realtà del suo mondo interiore, di sentimenti, impulsi e sensazioni con cui si costringe infine a un confronto aperto e sincero. Deve farlo per Siss, per la loro amicizia, che non deve trovare ostacoli sul lungo percorso che la attende.

Giunta nella sala piangente si ritrova circondata da tutta la tristezza che ha portato dentro di sé fino a quel momento. Ora è lì, di fronte a lei, al di fuori di lei. Unn può vederla, può persino toccarla.

Le gocce cadevano sul suo cappotto e sul suo berretto di lana. Non le importava, ma il suo cuore era pesante come piombo. La sala piangeva. Ma perché piangeva? Doveva smetterla. Non smise. Al contrario sembrò aumentare. L’acqua le cadeva addosso in maggior quantità, il gocciare si fece più fitto, e il pianto più disperato. (p. 57)

Lungo il suo percorso, si imbatte anche nella gioia più pura, autentica. Ma dopo il primo istante di meraviglia prosegue la sua visita. Il Castello non deve avere più segreti per lei, deve esplorarlo in ogni sua parte, conoscerne ogni segreto.

Accede così a quella che per lei sarà l’ultima sala, quella in cui il suo viaggio intimo giungerà al termine senza che lei abbia neppure il tempo di rendersene conto. Il pressante rombo della cascata sotto i piedi, tante lacrime, ancora una volta, ma prive di quella profonda tristezza che aveva sperimentato in precedenza. Un’ondata di smarrimento la investe totalmente. È in questa stanza che Unn è chiamata a operare una sintesi tra le molte emozioni contrastanti che abitano la sua dimensione interiore, a riemergere grazie a una nuova consapevolezza di sé che le permetta di aprirsi finalmente all’altro. Ma qualcosa va storto e il gelo pungente prende il sopravvento sul suo corpo, sulla sua mente, su di lei. Tornare indietro non è più possibile, è troppo tardi ormai. Sconfitta da un isolamento invalicabile, si accascia rassegnata contro la parete piangente, e il freddo finalmente scompare. Al suo posto, una luce infuocata che si diffonde travolgente, intensa, da cui si lascia accogliere a braccia aperte, senza opporre alcuna resistenza.

I disegni sulla parete di ghiaccio danzavano nella stanza, la luce divenne più forte. Tutto era capovolto, tutto era luce accecante. Non pensò neanche per un attimo che ci fosse qualcosa di strano; era come doveva essere. (p. 64)

La scomparsa di Unn risveglia tra gli abitanti del villaggio quel patto solidale che tacitamente unisce le piccole comunità appartate nella loro piccola porzione di mondo, lontane dai luoghi caotici della frenesia urbana. Tutti contribuiscono a loro modo alle ricerche affrontando le notti gelide tra i boschi, stretti attorno a uno scopo comune che si impone sulle esigenze individuali di ciascuno di loro. Ma nonostante tutto, lei non si trova. Nessuna traccia della ragazzina introversa e taciturna ancora così poco conosciuta in paese, e l’energia collettiva iniziale lascia pian piano posto a una mesta rassegnazione.

Solo Siss non si dà pace, si impedisce di crogiolarsi nel rimpianto del ricordo, si ribella con forza alla resa dei suoi coetanei e degli adulti. Eclissa il suo modo di essere per far emergere quello dell’amica perduta e si chiude a riccio, si fa silenziosa e riservata come lo era lei. È la sua promessa solenne. Unn deve continuare a vivere, non può essere dimenticata. Lei è Unn.

Soltanto un’intima conversazione con la zia di Unn durante una passeggiata serale la convincerà a sciogliere i nodi del patto univoco che si è imposta. Siss deve riprendere a ridere, a correre, giocare, a vivere. Solo così potrà veramente rendere giustizia al grande regalo che le è stato fatto, alla parte di Unn che porta ormai indelebilmente dentro di sé.

Torna infine dagli altri, Siss, si riappropria del legame con i genitori, delle sue amicizie, del mondo che è suo. L’inverno si appresta a lasciare posto alla primavera, che già si affaccia sui paesaggi cristallini, e un giorno Siss si unisce ai suoi amici per una gita sugli sci. La meta è ancora il Castello di ghiaccio, che merita di essere ammirato un’ultima volta prima che il fiume in piena se lo porti via per sempre. Diversamente dalle notti alla ricerca di Unn, ora il Castello non fa più paura. I ragazzi si arrampicano lungo le pareti, si divertono a saltellare sulle cime tra urla giocose, quasi a voler demitizzare quel luogo di misteri che mai saranno svelati e destinato presto a dissolversi con l’arrivo della bella stagione.

Siss ce l’ha fatta. Ha rielaborato il trauma ed è riuscita a riallacciare i fili con ciò che la circonda, a guardare oltre la sua intima sofferenza. Per Unn invece è stato diverso. È rimasta imprigionata nella roccaforte delle sue emozioni, schiacciata dal peso di ritrovarsi inerme, senza difese, di fronte alla forza di sentimenti tanto intensi. In questo senso, Vesaas pare invitarci a una riflessione sul valore dei rapporti che intratteniamo con gli altri, sugli effetti che producono sui nostri atteggiamenti, la nostra personalità, ma anche sulla nostra vera essenza, che può sembrare apparentemente insensibile agli influssi della società e delle sue tante norme non scritte. Siss riesce a salvarsi grazie a una fitta rete intessuta sin dai primi anni della sua infanzia, una rete sociale fatta di rapporti, scambi, persone. Forse proprio questo mancava a Unn per trovare l’uscita dal suo Castello. È riuscita ad entrarvi, a esplorarlo, a confrontarsi con ogni stanza, con ciascuno degli aspetti del proprio sé, ma ha dovuto soccombere nel momento in cui si è ritrovata a dover rielaborare il suo vissuto negativo, ad accettarlo e integrarlo come parte di lei. La sua vita interiore era isolata al punto tale da impedirle di acquisire lo slancio necessario a riemergere dall’abisso in cui era sprofondata. Così, da questo romanzo affiora la valenza del legame con l’altro, il bisogno imprescindibile di rapporti profondi e autentici come nutrimento per la nostra interiorità.

Una notte primaverile. Il Castello di ghiaccio si crepa, cede e poi crolla, si disgrega in cocci e schegge nella cascata, portandosi via tutto ciò di cui Unn non riusciva a liberarsi, ciò che lei non voleva essere. I suoi sentimenti e le sue emozioni più belle restano invece custodite da Siss, libere di risplendere e rivelarsi a chiunque si mostri desideroso di accoglierle.

Dalla parte di Gregor

di Teresa Merone

img“Uscirono dall’appartamento tutti e tre insieme, dopo mesi e mesi che non l’avevano più fatto, e andarono col tram fuori città, in aperta campagna. La vettura in cui si trovavano soli era tutta illuminata dai caldi raggi del sole. Comodamente seduti sui loro sedili discussero le future prospettive, e risultò che, a guardarli bene, non erano affatto malvagie, perché tutti e tre i lavori, di cui non avevano mai parlato tra loro, erano vantaggiosi offrivano possibilità di miglioramento. Il miglioramento più grosso e immediato si sarebbe conseguito comprando casa; avrebbero preso un appartamento più piccolo e più a buon mercato, ma ubicato meglio e più pratico dell’attuale che era stato scelto da Gregor. Mentre conversavano, il signore e la signora Samsa notarono quasi nello stesso istante, osservando la figlia che si faceva sempre più vivace, come, negli ultimi tempi, - malgrado tutte le pene che le avevano scolorito le guance - fosse sbocciata trasformandosi in una bella e florida ragazza. Più silenziosi e con sguardi d’intesa quasi involontari, pensarono che fosse ormai tempo di trovarle un bravo marito. E fu come una conferma dei loro nuovi propositi, che alla fine del tragitto la figlia si alzasse per prima stirando il suo giovane corpo.”

Tre lavori soddisfacenti, una figlia in età da marito, la prospettiva di una casa in centro: gli ingredienti del più moderno “...e vissero felici e contenti”, un finale fiabesco che però fissato nel contesto de “Le metamorfosi” non lascia quel senso di gioia, la certezza che ogni cosa alla fine trovi sempre il modo di andare nel verso giusto.

L’ideale borghese in cui si trovano proiettati i Samsa comporta una stretta al cuore, che non ha niente a che vedere con la speranza in un Mondo migliore. Non è poi stato davvero superato alcun ostacolo, non è stato sconfitta alcuna Matrigna. Si è solo aspettata una morte, che un intralcio, una deviazione di percorso, decidesse finalmente di togliersi di torno. Iniziare dalla fine mi sembra il modo migliore per sottolineare lo sgomento che ho provato durante tutta la lunghezza del racconto.

Perché io, sinceramente, non mi sento affatto rincuorata dalle belle prospettive del futuro.

Manca la vera miccia, colui che con la sua “malattia” ha permesso che la famiglia Samsa avesse, per la prima volta, degli obiettivi e che li perseguisse contando sulle proprie forze.

In questo finale, Gregor Samsa dov’è?

“<< Morto? >> disse la signora Samsa guardando interrogativamente la serva, sebbene potesse osservare tutto da sola e accertarsene anche senza bisogno di controlli. << Vorrei ben dire >>, disse la serva e per dimostrarlo spinse con la scopa il cadavere di Gregor. La signora Samsa fece un gesto come se volesse trattenere la scopa, ma si fermò prima. << Ora >>, disse il signor Samsa, << possiamo ringraziare Iddio>>. “

Ma conviene che io proceda con ordine, anche se mi preme, soprattutto nei confronti di chi si fosse distratto in questi ultimi cento anni e non avesse letto una delle pietre miliari della Storia della letteratura, fissare delle idee ben precise: il protagonista muore e per questo la sua famiglia avrà un lieto fine pieno di nuove speranze.

Questo non è un racconto per cuori deboli.

Gregor è un commesso viaggiatore, che lavora più del doppio dei suoi colleghi per poter pagare i debiti del padre, per far vivere la sua famiglia in una grossa casa, con cuoca e servitù e, più di tutto, per poter mandare sua sorella al Conservatorio dove potrà diventare una grande violinista. Gregor, volendo riassumere, fa una vita che odia, un lavoro che odia per amore della famiglia.

Tre vite dipendono da lui e lui lo sa, sbagliare non è contemplato.

Ma, se fosse stato tutto così semplice, non avremmo mai ricordato Kafka per “Le metamorfosi”.

Gregor “[...] si risvegliò una mattina da sogni tormentosi si ritrovò nel suo letto trasformato in un insetto gigantesco: giaceva sulla schiena dura come una corazza e sollevando un poco il capo, poteva vedere la sua pancia convessa, color marrone, suddivisa in grosse scaglie ricurve; sulla cima la coperta pronta a scivolar via, si reggeva appena. Le sue numerose zampe, pietosamente esili se paragonate alle sue dimensioni, gli tremolavano disperate davanti agli occhi.

“Che cosa mi è successo?”, pensò. Non era un sogno. La sua stanza, una vera stanza - sia pure piccola - per esseri umani, era tranquillamente racchiusa tra le quattro pareti così familiari.”

Gregor, una mattina, apre gli occhi e si ritrova ad avere delle sembianze animalesche. Gregor, una mattina, apre gli occhi e di colpo non può più supportare economicamente la sua famiglia; non può occuparsi di loro perché ora non è in grado di occuparsi nemmeno di se stesso. Nonostante gli evidenti sintomi di un cambiamento che rendono anche il camminare una vera sfida, il giovane trova comunque la forza di rassicurare, con un discorso disorganizzato, la famiglia ed il suo procuratore, venuto per richiamarlo al senso del dovere... in fondo sono le sette e il lavoro lo reclama:

“<<Apro subito, immediatamente. Una piccola indisposizione, un capogiro mi hanno impedito di alzarmi. Sono ancora a letto. Oramai mi sono ripreso completamente. Sto scendendo dal letto. Solo un momentino di pazienza! Non va ancora tanto bene, come pensavo. Ma sto già meglio. Come possono capitare certe cose tra capo e collo! Ieri sera stavo ancora bene, i miei genitori lo sanno, o per essere più precisi già ieri sera ho avuto una lieve premonizione. Avrebbero dovuto notarla. Perché non ho avvisato la ditta! Ma si spera sempre di poter superare la malattia senza doversene stare a casa. Signor procuratore! Abbia riguardo per i miei genitori! Tutti i rimproveri che lei mi sta facendo non sono fondati [...]>>”.

Gregor è un insetto, sa di esserlo, sente cambiare i suoi gusti riguardo al cibo, si diverte a percorrere in lungo e largo la sua stanza, ama il buio e la sensazione di protezione data dal nascondersi dietro gli oggetti, eppure non è spaventato. Non ha ansia, angoscia che riguardi la sua trasformazione. Ieri era un uomo qualsiasi e oggi una sorta di blatta, ma questo non rappresenta alcun motivo di sgomento. La famiglia, ecco cosa lo preoccupa. Non può guardarli mentre rabbrividiscono alla sua vista, non può sentirli mentre ne parlano come se non fosse presente, non può comprendere il fatto che per la prima volta, dopo anni, si trovi ad avere lui bisogno di loro. Gregor ha perso il suo motivo di esistere, la sua effettiva utilità nella famiglia. Perché non era altro che questo, la sicurezza di avere una vita agiata.

La trasformazione, per giunta incontrovertibile, è un punto di svolta. Gregor rimarrà un insetto, non ci possono essere incantesimi, né baci del vero amore che lo riporteranno a camminare su due piedi.

Basta con queste sciocche fantasie, siamo realisti!

La “malattia”, oltre a sconquassare l’universo di Gregor, mette la famiglia Samsa avanti ad una decisione, quella di provvedere a loro stessi con le proprie forze:

“Ora tutto si svolgeva in maniera piuttosto silenziosa [...] la mamma cuciva biancheria elegante per un negozio di mode, piegata in avanti sotto la luce; la sorella, che aveva trovato un posto di commessa, studiava la sera stenografia e francese, per migliorare la sua posizione [...]. Per una forma di cocciutaggine il padre si rifiutava di togliersi la divisa di uscire quando stava in casa [..] egli sonnecchiava al suo posto, completamente vestito, come se fosse sempre in servizio in attesa di ricevere ordini dai suoi superiori.”

Ma doveva essere davvero questa tragedia a far aprire gli occhi all’intera famiglia? Gregor doveva avere questo “crollo” fisico per poter essere aiutato nel loro sostentamento quotidiano? Nessuno si era accorto prima della vita e dei sacrifici fatti da Gregor per mantenere casa, servitù e tenore di vita? Sembrerebbe proprio di no, perché queste riflessioni, parlandoci chiaramente, non convengono a nessuno. E conviene ancor meno mantenere un insetto in casa. Le azioni passate non hanno alcuna rilevanza. Gregor è cambiato, è un mostro che non ha alcuna utilità, quindi perché continuare a considerarlo parte della famiglia? Un mostro rimane tale anche con i migliori propositi.

“<< Via, deve andarsene via>>, urlò la sorella, << è l’unico sistema, papà. Devi solo cercare di liberarti dal pensiero che lui sia Gregor. La nostra disgrazia è di averlo creduto per troppo tempo. Ma come potrebbe essere Gregor? Se fosse stato Gregor si sarebbe già reso conto che la convivenza di esseri umani con una bestia simile non è possibile e se ne sarebbe andato spontaneamente.”

E dove sarebbe potuto andare? Gregor è un mostro agli occhi dei propri familiari, un peso, qualcosa che fa rabbrividire solo alla vista, qualcosa da sigillare dietro ad una porta, al divano sotto cui si stendeva per non farsi vedere, e nonostante tutto il solo pensiero di averlo in casa sembrava essere fin troppo. Secondo la visione di Nabokov, famoso entomologo, la descrizione fatta da Kafka sul nuovo corpo di Gregor è affiancabile ad un tipo di scarabeo sacro in grado di volare via dalla famiglia ogni volta che la serva apriva la finestra; ma se nelle mura domestiche non riceveva alcuna pietà, allora dove?

E allora perché noi, invece, ci affezioniamo così tanto ad un insetto, se poi, di norma urliamo e rabbrividiamo alla sua vista? Una parola: Kafka.

Kafka non ci ha mai fatto smettere, nemmeno per un momento, di sentirlo come un essere umano intrappolato in una corazza, un uomo che non dispera della sua condizione di diverso, ma che è dilaniato dagli occhi di chi lo circonda. Gregor è in pace con se stesso e col suo nuovo corpo, mentre gli abitanti della casa non fanno altro che ricordargli che è una bestia.

C’è un punto del racconto in cui l’autore cerca di proteggerlo per la prima volta dalle accuse di bestialità, in cui allontana noi e lui stesso dal pensiero che possa esserci davvero qualcosa di diverso in Gregor, qualcosa di così poco accettabile.

“Era davvero una bestia se la musica l’afferrava come se potesse indicargli la strada per raggiungere un nutrimento ignoto e bramato? Era deciso a spingersi ancora più avanti verso la sorella, a tirarla per la sottana facendole intendere di venire col violino nella sua stanza, lì nessuno apprezzava la sua musica quanto lui. [...] si sarebbe seduta sul divano accanto a lui ed egli le avrebbe confidato all’orecchio di aver avuto la ferma intenzione di mandarla al Conservatorio.”

La musica lo attrae, lo attrae di più di tutti gli ospiti presenti nel salotto... ma ciò che lo rende assolutamente incline ad apprezzarla è il fatto che a suonarla sia sua sorella. La stessa persona che perderà qualsiasi tipo di sentimento umano nei suoi confronti e che lo porterà alla rinuncia di continuare a vivere. Ma allora la musica, l’affetto snaturato per la famiglia... non lo rendono ancora umano? Non lo rendono ancora Gregor?

Non andare oltre l’apparenza è un sintomo della noncuranza propria della modernità. L’inabilità è il passaporto per non aver alcun altro valore, se non quello di peso. L’essere fatto da scaglie, l’abbrutimento sono il trampolino di partenza per l’esser tacciato di non provare alcun tipo di sentimento umano.

Ma io, ma noi che leggiamo “Le metamorfosi”, nonostante figli di questa modernità e dell’apparenza, non possiamo che essere dalla parte di Gregor.

 

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