Letteratura
L’utopia femminista attraverso la Lingua e il Linguaggio in The Wanderground
di Pia Elena Caprioli
Nelle utopie letterarie classiche gli autori sono soliti creare un modello sociale idealmente perfetto, concretamente perseguibile o puramente illusorio e non effettivamente raggiungibile, che critica la realtà esistente. Già alla fine del diciottesimo secolo però, si assiste all’appropriazione del genere utopico da parte delle donne scrittrici, che lo utilizzano per criticare l’ordine sociale e simbolico dominante da una prospettiva del tutto nuova, ovvero attraverso l’attacco alla discriminazione nei confronti delle donne, considerata punto di partenza di altre ineguaglianze. Sarah Robinson Scott, con l’opera Millenium Hall (1762) che critica la società patriarcale settecentesca tramite la creazione di un mondo di donne separato da quello maschile, basato su valori nuovi come l’uguaglianza, la solidarietà e l’emancipazione, è considerata la pioniera della tradizione dell’utopia femminista. I temi particolarmente cari alle utopiste si intersecano quindi con quelli del femminismo, il cui progetto si presenta di per sé come utopico. Sia l’utopia che il femminismo mirano infatti a costruire un nuovo sistema sociale riformando quello già esistente, a partire dalla re-visione dei ruoli di genere, del concetto di sessualità e del rapporto tra identità e alterità intese come norma e devianza, centro e margine. Dunque, “il genere utopico diviene per le scrittrici un mezzo per creare uno spazio di decostruzione e ricostruzione del femminile e delle sue funzioni all’interno dell’ordine sociale e simbolico e per criticare gli stereotipi femminili e i ruoli di genere” (Monticelli). I modelli letterari di questo nuovo mondo utopico femminile spaziano dall’utopia classica, di cui è riconoscibile la struttura e la dialettica spazio-temporale tra passato, presente e futuro, alla tradizione gotica, fino al romanzo femminile di formazione.
Successivamente, anche le utopie radicali degli anni Settanta del Novecento continueranno a perseguire gli obiettivi dell’emancipazione e dell’indipendenza delle donne. Alla base del pensiero femminista della differenza troviamo alcune filosofe francesi, tra cui Luce Irigaray ed Hélène Cixous, che presentano spazi nuovi per l’immaginario femminile “affinché la donna possa acquisire soggettività e possa immettere nell’ordine simbolico la propria cultura” (Monticelli). Luce Irigaray teorizza la donna divina, costruita sul modello del Dio patriarcale, ma come Dea Madre che incarna e rispecchia i valori della donna, mentre Hélène Cixous, nel suo scritto Il Riso della Medusa, rilegge il breve saggio freudiano La testa di Medusa, decostruendone il mito. Secondo Freud la testa decapitata di Medusa provoca un terrore che consiste sostanzialmente nel terrore dell’evirazione, minaccia di cui il bambino prende coscienza alla vista dei genitali femminili, la quale provoca il famoso complesso della castrazione. Hélène Cixous trasforma la terrificante e mostruosa Medusa in una figura sorridente e sovversiva, capace di minare la cultura patriarcale esaltando le potenzialità del femminile, in particolare la scrittura. “Bisogna che la donna scriva se stessa: che la donna scriva della donna e che avvicini le donne alla scrittura, da cui sono state allontanate con la stessa violenza con la quale sono state allontanate dal loro corpo; per gli stessi motivi, dalla stessa legge e con lo stesso scopo mortale. La donna deve mettersi nel testo – come nel mondo e nella storia – di sua iniziativa” (Cixous). Questi lavori critici e teorici, e in un certo senso utopici, insieme alle utopie letterarie, attaccano dunque l’ordine simbolico vigente in quanto proiezione del solo immaginario maschile e mirano alla costruzione di un’etica della differenza, partendo proprio dalla differenza sessuale. L’utopia, costruzione aperta e luogo di riflessione critica, permette infatti di analizzare dicotomie fondanti della nostra società, come natura/cultura, maschile/femminile, umano/non umano, e altre categorie quali le gerarchie sociali e alcuni valori considerati naturali o innati. In particolare, le utopie letterarie femminili degli anni Settanta propongono la costruzione di mondi paritari che diventano spazi creativi per l’esperienza femminile, tematizzano la sessualità delle donne e criticano il paradigma eterosessuale come norma, rappresentando comunità lesbiche e bisessuali. “La nozione di sessualità come naturale viene così sfidata, le istituzioni sociali che si basano sulla presunta naturalità di sesso e relazioni tra individui sostituite da diverse forme comunitarie e modi nuovi di definire l’individualità, mentre la maternità, altro tema fondamentale nelle utopie femminili, non è più assolta dalle donne, ma grazie alla tecnologia o ad un ritorno alla grande madre terra, oppure a rotazioni della funzione procreatrice e materna, o ad altri espedienti (tutti volti a slegare il femminile dalla sua mera funzione procreativa) diviene una pratica comunitaria” (Monticelli). Tuttavia, il rischio maggiore a cui sono esposte le utopie di donne scrittrici riguarda l’esclusione dell’altro dal mondo utopico, e quindi la creazione di sistemi chiusi e totalizzanti, caratterizzati da una reiterata omogeneizzazione della cultura.
The Wanderground (1979), di Sally Miller Gearhart, si colloca tra le utopie più radicali e può essere considerato il manifesto letterario del separatismo femminista degli anni Settanta. Non si tratta di un progetto concepito nella sua interezza sin dal principio, ma di un’opera che nasce in gran parte da una successiva raccolta di brevi racconti inizialmente indipendenti tra loro, pubblicati su varie riviste.
The Wanderground è ambientato in un futuro indefinito in cui un gruppo di donne è fuggito dalla città degli uomini per vivere in una comunità di sole donne, in armonia con la natura. Purtroppo però, qualcosa sta cambiando. Per le donne rimaste in città le cose stanno peggiorando e gli uomini iniziano a invadere anche gli spazi intorno alla città, compiendo stupri nelle zone di confine. A questo punto i Gentles, omosessuali che rispettano profondamente le donne e che vivono alle porte della città, chiedono un incontro con le Donne della Collina, e un grande dibattito ha inizio. Difatti, anche se i Gentles sono considerati alleati rimangono comunque degli uomini, amici e nemici allo stesso tempo. La struttura narrativa aperta tipica del genere lascia il lettore in sospeso davanti a un futuro incerto, senza sapere se questa società utopica supererà le difficoltà e trionferà su quella sessista e fallogocentrica degli uomini una volta per tutte: l’utopia non ha una conclusione, è in divenire.
Lo spazio wandergroundiano si costituisce come spazio di riflessione e di empowerment delle donne, e vuole sfidare il sistema patriarcale occidentale. Nel suo separatismo ed essenzialismo, infatti, esso si basa sulla condivisione, l’armonia e il rispetto. La struttura narrativa riflette questi valori: le numerose storie sono narrate da più personaggi e sono ambientate in luoghi differenti del mondo utopico creato dall’autrice. Quest’ultimo “diviene spazio critico per una rilettura del corpo della donna, dei ruoli di genere e della memoria” (Monticelli). Il separatismo messo in atto dalla comunità di The Wanderground è infatti necessario per sopravvivere e resistere contro la violenza degli uomini e contro le loro consuetudini, le quali hanno profondamente segnato il passato di queste donne. Ognuna di loro è consapevole di questo crudele passato, una memoria dolorosa di oppressione e sottomissione, perché è proprio il passato ad averle indotte a lasciare la città e a creare una nuova società. Questa memoria deve essere trasmessa e mai dimenticata, affinché si possa comprendere appieno ciò che accaduto, in modo che non si ripeta. “Non bisogna più che il passato determini l’avvenire. Non dico che gli effetti del passato non siano ancora presenti. Ma mi rifiuto di consolidarli ripetendoli, di prestar loro una inamovibilità che equivale a un destino, di confondere il biologico con il culturale” (Cixous). Questa trasmissione avviene in un modo del tutto nuovo, attraverso le Remember Rooms, dove i ricordi sono registrati e conservati per poi essere rivissuti nelle assemblee, affinché le nuove generazioni conoscano la storia della comunità.
“Questioni come il ruolo della famiglia, la maternità, l’eterosessualità come normative per il femminile, sono in questo testo discusse e contestate come forme di subordinazione” (Monticelli). La sessualità è pertanto omosessuale, erotica e sensuale. Le Donne della Collina possono controllare la loro fertilità e le bambine vengono cresciute collettivamente. Si tratta di una comunità in cui le lesbiche vivono al sicuro e in maniera indipendente, dotate di poteri psichici che permettono loro, tra le altre cose, anche di muoversi da un luogo all’altro. Una nuova società comporta anche il costituirsi di una nuova tradizione, che viene consolidata grazie a rituali, canti ed espressioni corali, funzionali alla comunicazione. Altro aspetto essenziale di una comunità che intende sovvertire l’ordine simbolico dominante consiste infatti nell’abilità di creare un nuovo linguaggio e una nuova lingua per comunicare e trasmettere la conoscenza.
E dunque, come comunicano tra loro le Donne della Collina? Quale linguaggio utilizzano?
Per rispondere a questa domanda in maniera soddisfacente, è necessario un piccolo accenno a ciò che in linguistica si intende prima per linguaggio, e poi per lingua. Il linguaggio è una “forma di condotta comunicativa atta a […] stabilire un rapporto di interazione che utilizza simboli aventi identico valore per gli individui appartenenti a uno stesso ambiente socioculturale” (Treccani). La lingua, invece, è solo un TIPO di linguaggio, uno dei sistemi di comunicazione esistenti. È un codice complesso, segnato o parlato, che può essere utilizzato soltanto dall’uomo. “Indica quindi una FORMA CONCRETA della facoltà umana del linguaggio […]”. La lingua è composta da significanti e significati. Il significante è la produzione verbale, l’insieme di suoni che richiamano un certo significato.
Il più delle volte le Donne della Collina comunicano tra loro, oltre che con le piante e con gli animali circostanti, utilizzando la mente. Quando non lo fanno, sono molto diffidenti rispetto a ciò che viene detto: il suono verbale costituisce infatti di per sé un filtro alla sincerità e all’immediatezza del pensiero, che non può ingannare. In base a quanto detto, mancando concretamente un significante, il linguaggio telepatico, visto dall’interno, non può concretizzarsi nel concetto di lingua in senso proprio. Perciò, nel mondo utopico di The Wanderground, la comunità femminile inventa un nuovo tipo di linguaggio, che passa comunque attraverso il corpo, ma che non è più quello verbale dell’uomo. Si tratta di un linguaggio che, al di fuori dell’utopia, e dunque dal punto di vista del lettore, può essere definito lingua ma non concepito, perché inafferrabile. Al contrario, dalla prospettiva interna all’utopia delle donne protagoniste, questo linguaggio è interamente concepito, ma non può essere definito lingua. Siamo di fronte alla totale ricostruzione di un ordine simbolico e sociale. Questa riscrittura, però, parte dall’esterno della narrazione e non dall’interno, come viene più spontaneo immaginare. Con particolare enfasi, Hèlène Cixous, nel suo saggio Il Riso della Medusa, invita tutte le donne a scrivere senza più nascondersi, a traboccare di desideri, a far sentire il proprio corpo e i suoi piaceri, facendoli esplodere nelle bellissime forme della composizione scritta: “la scrittura è proprio la possibilità stessa del cambiamento, lo spazio da cui può librarsi un pensiero sovversivo. […] È tempo che la donna sferzi i suoi colpi nella lingua scritta e orale” (Cixous). Qui avviene esattamente questo: Sally M. Gearhart scrive. È l’autrice stessa, prima ancora dei personaggi della storia, a cercare di ri-scrivere un ordine simbolico a partire dalla propria soggettività di donna. È lei che crea il linguaggio telepatico, che dal punto di vista esterno della scrittura è anch’esso lingua, grazie al suo ruolo di narratore esterno: conosce alla perfezione il passato, il presente e, volendo ipotizzare un seguito della storia, anche il futuro; si trova in più posti contemporaneamente e soprattutto penetra nei pensieri dei personaggi. Solo utilizzando la tecnica del narratore onnisciente può quindi conferire i poteri psichici alle Donne della Collina. Ecco che quest’opera, come qualsiasi testo femminile, non può che essere più che sovversiva, come aggiunge la Cixous. Questo rivolgimento deve la sua riuscita anche a un’altra tecnica, quella dello straniamento: la realtà viene messa in discussione e l’autrice ci fa vedere le donne in un modo in cui non siamo abituati a vederle, rendendo familiare ciò che non lo è attraverso l’utopia, anche dal punto di vista linguistico. Di conseguenza, anche il modo di leggere il testo diviene insolito. Dal punto di vista dell’autrice, questa tecnica rappresenta da un lato un atto volontario che risponde positivamente all’invito della Cixous di inventare “una lingua inafferrabile che faccia saltare le pareti, le classi e le scuole di retorica, le ordinanze e i codici” (Cixous), che travolga la sintassi sconfiggendo la lingua e la grammatica degli uomini, dall’altro si pone come un atto imprescindibile perché, come sostiene V.Woolf, le donne non hanno ancora le parole per esprimersi e per scrivere se stesse. Perciò, o si utilizzano diversamente quelle che si hanno a disposizione, oppure se ne inventano di altre, come fa l’autrice attraverso le Donne della Collina, “che rompono gli automatismi” della legge maschile. A questo proposito, la profonda differenza linguistica che caratterizza le diverse parti del testo salta agli occhi del lettore. Oltre al metodo di comunicazione che passa da verbale a telepatico, anche la lingua cambia nel corso del testo. Esiste un grande divario, sia a livello sintattico che lessicale, tra le parti raccontate dalla voce narrante e quelle in cui le donne comunicano telepaticamente tra di loro e con gli altri esseri viventi. Qui la lingua utilizzata si allontana dall’inglese comune: molte sono infatti le compound words, coniate dall’autrice. Questo scarto diventa meno evidente quando le donne collina non parlano tra di loro, come nei dialoghi con i Gentles e con i personaggi della Città, e quando viene usato il flashback, soprattutto negli episodi delle Remember Rooms.
Particolare attenzione va rivolta ai nomi propri, di cui parla anche la Cixous: “Anche i nomi ‘comuni’ sono dei nomi propri che sminuiscono la tua singolarità allineandola nella specie” (Cixous). Il termine specie è interpretabile in due sensi, diversi ma interconnessi. Innanzitutto come specie maschile: le Donne della Collina non mantengono gli stessi nomi che possedevano in città, perché anche adottare quei nomi propri, che sono comuni nel sistema degli uomini, significa conformarsi ad esso e seguire la sua Legge. In secondo luogo, come categoria di esseri indifferenziati: alle bambine viene dato un nome che è soltanto provvisorio, utile non a riconoscerle, ma solo a chiamarle, fino a quando non saranno in grado di sceglierlo da sé. Il nome proprio imposto da altri, infatti, non dà a ognuno l’unicità che sembra conferire. Al contrario, la sottrae. Un nome non scelto da quel determinato essere vivente, che è unico in quanto tale, lo rende chiunque. Si assiste, pertanto, a un’acquisizione e a una perdita di identità allo stesso tempo.
“È tempo di liberare, conoscendola e amandola, la Nuova dall’Antica, di allontanarsene, di superare l’Antica senza indugio, andando oltre ciò che sarà la Nuova, come la freccia lascia l’arco, unendo e separando musicalmente le onde d’un sol tratto per essere più se stessa” (Cixous).
Bibliografia
Cavarero, Adriana, Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Filosofia della narrazione, (Milano, Feltrinelli), 2011
Cixous, Hélène, “Il Riso della Medusa”, traduzione di Catia Rizzati, in Critiche femministe e teorie letterarie, Baccolini, Raffaella, Vita Fortunati, M. Giulia Fabi, Rita Monticelli (a cura di), (Bologna, Clueb), 1997
Miller Gearhart, Sally, The Wanderground, (London, Persephone Books), 1979
Monticelli, Rita, Utopia, Utopismo e Femminismo, in Histoire transnationale de l'utopie littéraire et de l'utopisme, (Parigi, Honoré Champion Editeur), 2008
Monticelli, Rita, Utopie, teorie critiche e ‘contromemorie’ dei women’s studies e degli studi di genere, in Studi di genere e memoria culturale. Women and Cultural Memory, Fortunati Vita, Golinelli Gilberta, Monticelli Rita (a cura di), (Bologna, Clueb), 2004
Nadja, il presagio di un altro mondo (im)possibile
di Lorenzo Giacinto
L’intensa rievocazione di un incontro umano che ha segnato una tappa decisiva nello sviluppo del Surrealismo e il ritratto di una donna indimenticabile
Nadja non è un romanzo e non è un racconto. Non è nemmeno una prosa poetica o uno studio di alcuni aspetti della mente umana (sebbene lo stesso autore parli, a proposito del suo libro, di un’osservazione di un caso particolare). Nadja è un ponte gettato verso una direzione difficilmente percorribile, qualcosa a metà strada tra un sentore di argini spezzati e un senso provvisorio ma irripetibile di libertà. Nadja è il resoconto di un’esperienza realmente vissuta e trasfigurata in letteratura.
Siamo nella Parigi dei famosi “roaring twentis” di Fitzgerald, nel periodo in cui la capitale francese è al tempo stesso ospite generosa del genio artistico e laboratorio unico di esperienze umane e letterarie. C’è un artista che risponde al nome di André Breton, firmatario di un Manifesto del Surrealismo che scuote profondamente i modi e i contenuti del pantheon delle lettere e delle arti. E assieme a lui vi sono figure come Max Ernst, Paul Eluard, Louis Aragon, Pablo Picasso, attenti a raccogliere qualsiasi tipo di suggestione e a riversarla con effetti dirompenti sui libri o sulle tele.
E all’improvviso, in questa Parigi che Breton percorre come un flâneur d’altri tempi, appare una donna con una luce diversa negli occhi, una carica di attrazione fortissima come esercitata da una calamita nascosta sotto gli abiti. Tutto si pone subito sotto il segno di una fatalità irresistibile, così come la intendevano i latini, cioè come una concatenazione di eventi che risulta necessaria, inappellabile e al tempo stesso non modificabile. Breton non può far altro che sottomettervisi, solo limitandosi a constatare, dacché la comprensione è spesso oscura o annebbiata, ciò che gli tocca in sorte di vivere con Nadja.
Le conversazioni, le allusioni, i vagabondaggi dei due non rientrano nel giro noto della logica, non appaiono sulle mappe dei cartografi del diurno. Nadja, “perché in russo è l’inizio della parola speranza e perché è soltanto l’inizio”, pare emergere da un mondo fatto di simboli e analogie sfrenate, di metafore e immagini che rivoltano la percezione della realtà comune. Ecco perché la si può chiamare naufraga, con nello sguardo la stessa fiamma che arde in quelli che sbarcano portando segreti noti solo a loro.
Nadja così invincibile e al tempo stesso così fragile. Invincibile perché completamente al di fuori delle strette maglie della realtà, fragile poiché non v’è posto nel mondo per le anime erranti nemiche dei casellari. E infatti sotto il peso delle convenzioni sociali finirà per essere stritolata, additata come folle per non volersi riconoscere in fondo nei gesti e nei ritmi di un altro tipo di follia che l’abitudine e l’istinto di conversazione chiamano convenienza sociale.
Nadja, questo adorabile miscuglio di leggerezza e di fervore, diamante di epifanie inspiegabili, volubile come gli elementi naturali, adoratrice di statue, di foreste metropolitane e di torri isolate in castelli di altri tempi dove aspetta la rivelazione o dove lei stessa si fa rivelazione tanto è pura, libera da qualsiasi legame terrestre, tanto poco tiene, ma in maniera meravigliosa, alla vita. Stiano alla larga gli scettici, gli uccisori di meraviglie, gli amanti del focolare e dell’alternarsi compiuto delle stagioni. Nadja è per pochi, per gli assassini di bussole come direbbe Cortázar (e quanto vi è di surrealista nella Maga e nei suoi incontri con Oliveira, in quel magnifico incipit di Rayuela), o forse non è per nessuno, essendo stata troppo anche per colui che l’ha celebrata.
Nadja, che in sé contiene tutte le avventure fino a diventarne la summa, in un continuo vagabondare misterioso, al di sopra o al di sotto o al lato della realtà, oppure nel suo centro più intimo, così profondo da bruciare come un fuoco di magma terrestre.
“Dal primo all’ultimo giorno, ho considerato Nadja un genio libero, qualcosa come uno di quegli spiriti dell’aria che certe pratiche di magia consentono di legare momentaneamente a sé ma che è impensabile sottomettere”
E questo genio libero porta con sé un nuovo sguardo sul mondo:
“Ho visto i suoi occhi di felce aprirsi al mattino su un mondo […] in cui non avevo visto, fino allora, se non degli occhi che si chiudevano”
Una creatura così irripetibile ed indefinibile, così piena di una grazia dotata di artigli per tagliuzzare la realtà, ha bisogno di trovare spazio in un libro altrettanto inclassificabile, che si serve anche di fotografie di alcuni luoghi e personaggi citati, ma soprattutto dei disegni della stessa Nadja, in cui sempre ella si ritrae come una sirena che dà le spalle, in una cornice in cui sommessamente e segretamente conversano fiori e bestie e fiamme che nascono dai polsi.
Nadja, al tempo stesso promessa e nostalgia della promessa, espansiva come un delfino e sfuggente come una lucertola, nuvola irrequieta e colpo d’ala potente, emblema di libertà, di rivoluzione e d’amore, nuova sibilla parigina e cassandra oracolare che conserva il gusto del gioco e degli smarrimenti improvvisi, Nadja “tremante come una foglia”, Nadja ingessata in una camicia di forza e sbattuta in un sanatorio dove si spegne tra le cannonate del secondo conflitto mondiale, ma dopo essere stata la musa Nadja, dopo essere stata la felce Nadja, dopo essere stata il ponte Nadja, dopo essere stata, a conti fatti, tutta la ventata d’aria del Surrealismo.
Sincronie tra morte e vita: menzogne e tempo nel maestro Bufalino
di Giusy Aliperti
Memoria e morte, memoria e tempo: la scrittura barocca di Gesualdo Bufalino, scoperta tardiva della letteratura italiana, affonda il suo fulcro nel cuore di un’esistenza vista sempre come evanescenza e fuga dalla vita. Una fuga dalla vita a cui risponde con la scrittura. Nell’ossessione inevitabile per la morte (sentita ancora di più per un siciliano, dirà Bufalino) scrivere si pone come capacità di testimoniare quel che è stato. Ma non una testimonianza politica o sociale, una testimonianza esistenziale. Quel che si è, è frutto ed innesto di ricordi che solo la scrittura può suggellare e fissare.
Così Diceria dell’untore nasce e così in uno strappo alla regola dalla scrittura come intimità diviene un caso letterario: siamo nel 1981 e maestro Bufalino ha sessantun anni. Un esordio tardivo voluto dall’editrice Elvira Sellerio e da Leonardo Sciascia che tirano letteralmente dal suo cassetto un romanzo tenuto a lungo nascosto, maneggiato, riletto con febbrile ed eccessiva dovizia di particolari ma mai pronto al pubblico.
“La scrittura mi serve come medicina, come luogo di confessione, come possibilità di dialogo con me stesso. […] Io scrivevo e scrivo per questo: la pubblicazione introduceva, avrebbe introdotto ed ha introdotto, un elemento di disturbo che ha le sue gratificazioni, è inutile negarlo, ma nello stesso tempo uccide o mortifica quella purezza di monologo di un me stesso davanti allo specchio.”[1]
A cullare il rapporto elitario tra scrittura e intimità ci pensa Comiso, paese dell’entroterra ragusano da cui Bufalino non si allontanerà mai.
Diceria dell’untore è un romanzo sostanzialmente atipico per la coscienza novecentesca perché poggia il proprio contenuto su una forma arcaica, barocca, perché si pone quindi come un voler tornare all’indietro, un retrocedere che poggia le sue basi sull’unicum letterario che è sempre e ancora la letteratura siciliana. L’autoreferenzialità narrativa degli scrittori siciliani resta tale anche nel novecento ed anzi il barocchismo di Bufalino ne è la dimostrazione. La Sicilia, prima ancora che il mondo, è il perno e il punto di riferimento per ogni suo scrittore. E pure se la scrittura è il modo per fermare lo scorrere del tempo non è però mai il modo per fuggire dalla propria terra. Sicilianità come sentire la morte in maniera continua e assidua, sicilianità come intralcio per il mondo esterno, sicilianità come sole cocente, come caldo asfissiante, come lotta continua per sopravvivere a tutto questo. Lo stesso Gattopardo, altro caso editoriale insolito nostrano, si attesta su un simile fondamento: la morte incombente e l’impossibilità di vivere e agire a pieno quando intorno a sé il paesaggio è così rovente da far smettere di pensare. Bufalino lo sa e non rifiuta tale innegabile rapporto con la sua terra: Diceria dell’untore, il suo primo figlio, vezzeggiato e gelosamente custodito, ne è l’insindacabile prova; le tematiche ci sono tutte, lo stile pure.
Il protagonista è un giovane reduce di guerra, rinchiuso nel sanatorio Conca d’oro (lo scenario è quello di una Palermo malridotta dopo la guerra): un claudicante scheletro, ingombro del corpo e del vizio di vivere che incontrerà figure emblematiche altrettanto. Morte, il sentimento della morte, come ossessione, come continuo tendere o continua fuga è il perno di questo romanzo. “Il senso della morte è profondo nelle cose che scrivo, così come è interrottamente presente nella mia coscienza”[2]. Morte del singolo come unica cosa che conta, che merita di essere raccontata. Il singolo si erge a monumento: la sua vita e la sua dipartita sono le uniche realtà che importano nel torrente e costantemente soleggiato paesaggio siculo.
“Era veramente divenuto un gioco, alla Rocca, volere o disvolere morire, in quell’estate del quarantasei, nella camera sette bis, dove ero giunto da molto lontano, con un lobo di polmone sconciato dalla fame e dal freddo, dopo essermi trascinata dietro di stazione in stazione, con le dita aggrinchite sul ferro della maniglia, una cassetta militare, minuscola bara d’abete per i miei vent’anni dai garretti recisi.”[3] Così Marta, la donna amata ha in sé tutte le stigmate della sofferenza bufaliniana. Morente, claudicante, funerea, egocentrica come la terra che la ospita, fa innamorare il protagonista; quel che le importa nella consapevolezza latente di esistere è solo la sua caduta (la storia del singolo per Bufalino è nettamente superiore a quella dell’universale, nell’ossessiva centralità di descrivere dell’uomo e della scoperta del dolore nella vita dell’individuo). Marta è magrissima, infelice, portatrice di ricordi continui sulla persona brillante che era stata (mai si capisce in Bufalino se i suoi personaggi raccontino verità o menzogne). Così come il capo del riformatorio, altro singolare personaggio, il Gran Magro, anch’egli malato, compagno di racconti e libri col protagonista.
Quel che interessa di questo romanzo è la guarigione sentita come colpa e diserzione, lo stare vivi in un mondo che barcolla. Il sentore e il puzzo della guerra inconsciamente affondano nell’animo dei protagonisti ma non svelano quel che è stato semmai quel che sarà. La coscienza fugace di non essere mai troppo vivi o vivi abbastanza. E in quell’essere vivi appena la colpa, terribile, di esserlo a discapito di altri. Il peso cristiano cruciale ed inevitabile del corpo come flagello, come limite per l’anima. “Andare fra la gente, giù in città, portarsi addosso il cencio del corpo, questa somma insufficiente di lena e di sangue, in mezzo ai sani della strada, atletici, puliti, immortali…”[4] Il limite umano in Bufalino è sopportato e raccontato in un periodo in cui la letteratura italiana si occupava di altro, in cui vi erano le memorie di guerra, i romanzi neorealisti, la poetica del frammento.
Perché diceria, perché untore? Diceria come nuga, come bazzecola, come qualcosa di raccontato ma non per forza reale, come sentito dire. E’ reale quel che si racconta? O è frutto di un innesto di sogni, di vaghi ricordi, di un passato alterato? Bufalino non confermerà mai, né smentirà: la scrittura è sempre memoria anche quando è invenzione, dirà in un’intervista. E allora l’invenzione, la diceria, ha lo stesso valore della realtà. Ne è testimonianza il terzo romanzo dell’autore di Comiso, Le menzogne della notte, opera metastorica: quattro protagonisti ai tempi della rivoluzione liberale in un’isola penitenziaria, intrecciano le proprie vite raccontandosele come espediente illusorio per ritardare la morte (inevitabile il rimando a Sharhazad delle Mille e una notte, figura amata da Bufalino). Ma ognuno di essi confonde volontariamente la realtà con la fantasia e ordisce menzogne contro l’altro. La struttura metateatrale contribuisce ad enfatizzare la sensazione della bugia, del non detto, del possibile e mai certo che è nelle opere di Bufalino.
“Un colpo di dadi non abolirà mai il caso” verseggiava Mallarmè. “Comunque vada la nostra partita con la vita finirà zero a zero”[5], tuoneggiava Bufalino, francesista convinto. Gli scarabocchi, i giochi, i calemobours: l’attestazione aulica di Bufalino che la vita dell’uomo avesse in qualche modo già perso, che fosse stata già sconfitta. Che il ticchettio della morte avesse in fondo già vinto. Ma che si potesse in qualche modo lasciar memoria di sé, del sé che si è stati ma anche del sé che si è sognati di essere.
[1] Conversazione con Sergio Palumbo, pubblicata, in parte, su Gazzetta del Sud nel 1985.
[2] Ibidem
[3] G. Bufalino, Diceria dell’untore, Milano, Bompiani, 2014, p. 8
[4] Ivi, p. 25
[5] Cit. da Il Maplensante
Destini: la saga della famiglia Buendía
di Teresa Merone
Il capolavoro di Márquez è uno di quei classici che abbiamo voglia di rileggere, sempre. Perché vibra fuori dallo spazio e dal tempo, facendoci ritrovare tutta la magia della letteratura più bella. I discendenti, la sorte, i sortilegi, le sfortunate vicende di uomini e donne che danno forma a questo romanzo che non si fa dimenticare...
Sarà per l’avvicinarsi del clima natalizio o per un semplice eccesso di nostalgia, ma il Márquez di “Cent’anni di solitudine” mi ricorda la mia famiglia negli anni in cui potevo ancora ritrovare le convinzioni di mio padre in quelle del suo. Le tavolate di venti persone in cui erano presenti cinque Ciro, tre Vincenzo, due Anna Maria, due Teresa. I Buendía mi ricordano il caos e l’ansia di dover chiedere il sale ad un individuo preciso del gruppo - anche perché il cognome non era molto d’aiuto - scimmiottando le regole della società tradizionalista del Sud, in cui nessuno può e deve essere dimenticato. Il “Bisogna ricordare” diventa dunque un ritornello, un tormentone libro ‘natural durante’.
Ricordare, che sia con un nome o attraverso uno spettro che gironzola per casa.
“Nella scuola semidistrutta dove aveva provato per la prima volta la sicurezza del potere, a pochi metri dalla stanza dove aveva conosciuto l'incertezza dell’amore, Arcadio trovò ridicolo il formalismo della morte. In realtà non gli importava la morte ma la vita, e per questo la sensazione che provò quando pronunciarono la sentenza non fu una sensazione di paura ma di nostalgia. Non parlò finché non gli chiesero quale fosse la sua ultima volontà. “Dite a mia moglie” rispose con voce alta e chiara, “che dia alla bambina il nome di Ursula.” Fece una pausa e confermò “Ursula, come la nonna. E ditele anche che se quello che deve nascere nasce maschio, lo dovranno chiamare José Arcadio, non per lo zio, ma per il nonno”.”
Nessuno può essere cancellato, perché nessuno è un “unicum”, come non lo si è in alcuna famiglia. Come gli Aureliani, taciturni e meditabondi, e gli José Arcadio, festaioli e sfrenati amanti: i due archetipi, le due facce della stessa Casa che solo il cognome e il caffè amaro rendono inscindibili e modelli per… cent’anni.
“Nella lunga storia della famiglia, la tenace ripetizione dei nomi le aveva permesso di trarre conclusioni che le sembravano decisive. Mentre gli Aureliani erano riservati, ma con discernimento lucido, i José Arcadio erano impulsivi e intraprendenti, ma erano marcati da un segno tragico.”
Fratelli sì, come lo siamo io e il mio, ma con nessuna caratteristica in comune, come me e il mio.
Il Mondo dei Buendía è “come se […] continuasse a girare intorno”, c’è sempre un rimando a qualcuno, a qualcosa, a quello che è stato detto, ai luoghi che sono stati visti, con i ritmi e l’incalzare della scrittura che riportano alla mente un motivetto familiare…
“E venne Aureliano Buendía che vide la nave nella foresta che trovò il padre José Arcadio […]. E venne Aureliano che disse a Gaston che “Tutto si sa”, che venne detto da José Arcadio […].
Naturalmente nel raccontare la vita e l’evoluzione dei membri della famiglia e della stessa Macondo, che nasce, cresce e muore in simbiosi perfetta con i Buendía, Marquez non poteva esimersi dal raccontare l’Amore e dare proprio all’Amore la colpa delle numerose e rapide morti nell’immacolata cittadina. Quel tipo d’amore che spesso fa arricciare il naso per il sapore acre che lascia in bocca.
Amore incestuoso, Amore che fa morire, Amore platonico: Amore che lascia soli.
Svariate tipologie di Amore che non possono che essere circoscritte a quel particolare nucleo familiare, come se non esistessero donne e uomini diversi da quelli che sono Buendía di sangue o Buendía acquisiti.
Certo, perché i Buendía sono un po’ come i Camden di “Settimo cielo”, a cui proprio non interessa chi tu sia o cosa tu voglia…se sei così coraggioso da entrare in quella piccola cerchia ne fai parte a pieno titolo, con tutti i problemi, i disagi e la solitudine che questo comporta.
Ovviamente il “nome” è incluso nel prezzo.
“Non si erano ancora messi d'accordo quel soffocante mercoledì in cui bussò alla porta della casa una vecchia suora che portava un cestino appeso al braccio. Quando la aprì, Santa Sofia de la Piedad pensò che fosse un regalo e cercò di toglierle il cestino ricoperto con una bellissima copertina di pizzo. Ma la suora glielo impedì, perché aveva l'ordine di consegnarlo personalmente, e sotto il più stretto riserbo, alla signora Fernanda del Carpio in Buendía. Era il figlio di Meme. L'antico direttore spirituale di Fernanda le spiegava in una lettera che era nato due mesi prima, e che si erano permessi di battezzarlo col nome di Aureliano, come suo nonno, perché la madre non aveva schiuso le labbra per esprimere la sua volontà. Fernanda si ribellò dentro di sé a quella beffa del destino, ma davanti alla suora ebbe la forza di dissimulare.”
Sul concetto di solitudine sviluppato da Márquez non vorrei proprio soffermarmi, perché l’autore scrive per più di trecento pagine senza mai menzionarla. Mille personaggi, tutti collegati, tutti taciturni o festaioli, tante Amaranta e tante Ursula e Remedios, tanto amore, tanta disperazione ma nessuno che sia in simbiosi con altri, col Mondo, con la famiglia, con sé stessi.
Marquez lascia a noi il sentore dell’amarezza, un’amarezza che nonostante tutto non ci rende completamente partecipi della vita dei personaggi. Tutto va avanti e indietro con un ritmo frenetico, tanto che nemmeno il lettore riesce ad immedesimarsi con una “specifica” solitudine. Non c'è empatia e non può esserci poiché i Buendia sono come naufraghi descritti da Lucrezio, costantemente in un mare in tempesta, mentre noi ricopriamo il ruolo di spettatori che non possono far altro che star seduti sulla terraferma. La nostra è, dunque, una partecipazione spicciola. Siamo lontani, siamo al sicuro.
No, i Buendía li lasciamo soli anche noi.
L’autore, invece, passa da un personaggio all’altro come se li avesse assorbiti in blocco e in blocco volesse “tirarli fuori”. I Buendía coesistono, quindi, vengono descritti come se fossero un unico tutto. Allo stesso modo, le tre sfere temporali vengono dispiegate contemporaneamente in un solo paio di frasi. Alcune volte, questa tecnica, mi riporta alla mente i discorsi tenuti dal mio professore di Linguistica: diceva che i napoletani, per raccontare un evento, di qualsiasi entità, procedono senza uno schema ben preciso; si parte dal principio, poi si passa ad una parte ancora più remota, poi a tutto ciò che c’è intorno perché, diciamoci la verità, centrare il nocciolo della questione non è proprio contemplato. Si perderebbe il pathos e quindi gli avvenimenti non verrebbero compresi allo stesso modo.
Márquez non solo vuol rendere chiaro il completo quadro di ogni situazione, ma decide di prendersi la responsabilità di tutto ciò che concerne quelle situazioni, in cui sono coinvolti i propri personaggi. Dico che se ne prende la responsabilità poiché oltre che narratore onnisciente, l’autore fa proprie le parole e i pensieri di tutti gli Aureliani, degli José Arcadio, delle Amarante.
Non li guarda dall’alto, differenziando le sue parole d’autore da quelle dei personaggi, ma le mescola facendo suoi sia i pensieri che le parole, riproponendoli senza filtrare nulla. Forse è davvero l’unico che non riesce a lasciare solo nessuno di loro. Marquez è e vuol essere ognuno di loro.
Ecco un pezzo tratto dal romanzo, una parte esplicativa di ciò che intendo con “assorbire” i personaggi, uno degli “stream of consciousness” diretti da Márquez (lungo tre pagine, stracolmo di virgole e nessun punto) che ho più amato, in cui Fernanda, arrabbiata con il marito fedifrago e fannullone, esplode in uno sproloquio travolgente e immaginifico:
“ Aureliano Secondo non si accorse della cantilena fino al giorno seguente, dopo colazione, quando si sentì stordito da un ronzare allora più fluido e alto del rumore della pioggia, ed era Fernanda che girava tutta la casa lamentandosi che l’avevano educata come una regina per finire da serva in una casa di pazzi, con un marito fannullone, idolatra, libertino, che sta a pancia all’aria ad aspettare che gli piovesse la manna dal cielo, mentre lei si stroncava le reni cercando di tenere a galla una casa tenuta su con gli spilli, dove c’era tanto da fare, tanto da sopportare e da rabberciare, da quando spuntava Dio fino all’ora di mettersi a letto, che finiva per coricarsi con gli occhi pieni di polvere di vetro e, tuttavia, mai nessuno che le dicesse buon giorno, Fernanda, come hai dormito, Fernanda, né le chiedevano mai anche solo per cortesia perché era così pallida e perché si svegliava con quegli occhi pesti, anche se lei non sperava, naturalmente, che qualcosa di simile saltasse fuori dal resto di una famiglia che in fondo l’aveva sempre considerata come un impiccio, come lo straccetto per sollevare la pentola […]”.
La Fosca di Tarchetti, tra delirio e caduta
di Marina Brunetti
Fosca è esempio compiuto del disperato tentativo, da parte di una creatura reietta, di attirare su di sé l'attenzione, è romanzo che ruota intorno all'amore implorato, preteso, anche a costo di diventare persecutorio e forzato: occhi e capelli che ammaliano, a dispetto di una matrigna Natura.
Nessun viso è brutto se i suoi tratti esprimono
la capacità di una vera passione
e l’incapacità di una menzogna.
(Arthur Schnitzler)
In quel gesto, frequente in età adulta, che ci spinge a tirar su l’acqua dal pozzo dei ricordi, abbiamo a volte la fortuna di scorgere noi stessi e un libro, la cui intima essenza allora ci sfuggiva, vuoi per mancanza d’esperienza diretta, vuoi per fase vitale differente. Anni dopo, la chiave di lettura ignota ci viene sussurrata dalle affinità che in parte vi captiamo, dall’inverosimiglianza con la realtà che ci circonda, dall’indulgenza per le umane miserie che ignoravamo d’avere. Il cinismo resta, in questo clima di dolore, ma rimane a noi attaccato come nera pece il senso, da taluni vagheggiato, dell’amore ideale, quel nero assoluto, come il nero deciso dei corvini capelli di Fosca, il colore del delirio senza più ritorno. Andare a ricercare l’amore di Fosca così totalizzante, dilagante, mortifero ed estraneo ai chiaroscuri, è un atto rivoluzionario: l’abnegazione a un uomo come unico mezzo d’amore percepito, simile a quello che muoveva la Sagan quando diceva di aver amato fino alla follia, ma quello che gli altri chiamavano follia, per lei, era l’unico modo di amare.
La Fosca di Tarchetti incarna appieno il fascino della creatura appassionata, volubile e incostante, trascinante e fatale, più demonio che angelo, come nella migliore tradizione letteraria della seconda metà dell’Ottocento, in contrapposizione alla prima, che vedeva le figure femminili, nei romanzi più convenzionali, stereotipate nella loro angelicità (fatta eccezione per lo spessore di Lucia, nei Promessi Sposi). Queste donne sono belle, seduttive, tragiche, raffinate ammaliatrici, non più vincolate da un ruolo prestabilito, che le vedeva custodi del focolare domestico; ora sembrano imporre i loro desideri, causando spesso, con questo, la rovina degli uomini che hanno la sfortuna d’incontrarle. Si tratta di amori-passioni a volte devastanti, che non mirano al matrimonio, alla legittima procreazione, ma sono vissuti dolorosamente, da ambo le parti, nella consapevolezza dell’emarginazione sociale, dell’isolamento, avulsi come sono dai valori convenzionali. Anche l’arte si avvale della rappresentazione di codeste figure, in numerose variazioni, specie attraverso le immagini di eroine bibliche, un ammaliante coacervo di sensualità, crudeltà, forza, capace di far “perdere (in ogni senso) la testa”: basti pensare a Salomè che aveva piegato Erode, di lei invaghito a tal punto da omaggiarla della testa del Battista, o a Giuditta, che decollò, manu propria, il generale assiro Oloferne, dopo averlo sedotto, poi splendidamente immortalata dal pittore austriaco Gustav Klimt.
Numerose sono anche le cosiddette donne-vampiro, dalla bellezza oscura, orrida e irresistibile come le Gorgoni (il cui potere era quello di pietrificare le loro vittime con il solo sguardo), alcune delle quali s’ispirano proprio a Fosca di Tarchetti, tra queste alcune figure femminili di Verga, “Una peccatrice”, “Tigre reale” e la protagonista de “La lupa”, quale incarnazione della sensualità incontenibile e distruttiva. E arriviamo a noi, o meglio, alla nostra creatura che brandisce, unitamente alla pietà che ispira, lo scettro della donna psichicamente disturbata, simile a quello di Malombra di Antonio Fogazzaro: entrambe baciate dal fascino enigmatico, ma nel contempo dall’indole patologica e distruttiva, esasperata, fino a lambire i tremendi e spietati esempi dannunziani con Elena Muti in “Il piacere” e Ippolita Sanzio, votata all’erotica esperienza nel “Trionfo della morte”.
Iginio Ugo Tarchetti, esponente di spicco della Scapigliatura milanese, seppe tratteggiare una delle figure letterarie più intense e perdute che la memoria ricordi, la rappresentante idealmente perfetta della dedizione totale all’oggetto d’amore. A onor del vero, Tarchetti non creò l’immagine di Fosca dal nulla, ma s’ispirò a una sua storia personale con una certa Carolina o Angiolina, parente d’un suo superiore quando, a novembre del 1865, a Parma, prestava servizio nel commissariato militare, per poi abbandonare quella carriera dando libero sfogo al suo istinto da scapigliato e scrittore. Questa donna, come sarà poi Fosca, era epilettica e malata, prossima alla morte: con lei condivideva anche il sembiante, contraddistinto da occhi grandi e nerissimi e da capelli color ebano. Prima dell’incontro con Carolina, Tarchetti aveva intrattenuto una relazione di sette mesi con una donna sposata conosciuta a Milano, che gli fornirà poi lo spunto per il personaggio dell’amata Clara.
Il romanzo gravita ininterrotto attorno all’amore folle di Fosca, finanche dopo la morte della stessa, per Giorgio, giovane ufficiale che ama, riamato, una signora milanese, Clara, sposata, da cui è costretto a staccarsi a causa del proprio trasferimento; Fosca è malata, ma ancor prima del mortifero morbo, ciò che l’offende come donna è la sua indicibile bruttezza, lievemente mitigata dalla folta chioma corvina e dai vivi occhi neri:
Cristo lo ha detto: «Beati coloro che piangono perché saranno consolati». XV Il mio desiderio fu esaudito: conobbi finalmente Fosca. Un mattino mi recai per tempo alla casa del colonnello (vi pranzavamo tutti uniti e ad un’ora, ma per la colazione vi si andava ad ore diverse, alla spicciolata) e mi trovai solo con essa. Dio! Come esprimere colle parole la bruttezza orrenda di quella donna! Come vi sono beltà di cui è impossibile il dare una idea, così vi sono bruttezze che sfuggono ad ogni manifestazione, e tale era la sua. Né tanto era brutta per difetti di natura, per disarmonia di fattezze, — ché anzi erano in parte regolari, — quanto per una magrezza eccessiva, direi quasi inconcepibile a chi non la vide; per la rovina che il dolore fisico e le malattie avevano prodotto sulla sua persona ancora così giovine. (*277-78)
Fosca è il simbolo della malattia e della morte, che contagia l’altro e ne assorbe le forze vitali; così epilettica e isterica incarna l’alter ego femminile di Tarchetti, poi morto per tisi e impossibilitato a terminare il suo manoscritto, impugnato dall’amico Salvatore Farina. Il contrasto netto tra Clara e Fosca non attiene solo all’aspetto fisico, ma anche alla realtà che le circonda: Clara (nomen omen), ha un aspetto florido e sano e l’amore con Giorgio ha tutte le peculiarità del perfetto e del romantico, idilliaco. Clara rappresenta la luce e la vita, è forza e dolcezza che risana. Fosca, suo malgrado, rappresenta il contrario: il morbo oscuro e indefinito, l’inquietante mistero ancor prima dell’apparizione, i prodromi di una follia che si manifesta nelle grida…orribilmente acute, orribilmente strazianti e prolungate che echeggiano nella sala da pranzo e a cui Giorgio associa, per la prima volta, l’idea della morte. Il tema del dualismo è assai sentito durante il periodo della Scapigliatura, basti pensare alla poesia di Arrigo Boito, “Dualismo” che rappresenta, appunto, la scissione, nell’animo umano, l’anelito all’angelico e la spinta verso il satanico, il paradiso e l’inferno, la purezza e il torbido. Fosca è indubbiamente brutta, poiché la vissuta afflizione (un matrimonio sbagliato, un aborto e la perdita dell’agiatezza) le si riverbera sul viso - imago animi vultus - così magra e provata dalla malattia, con gli zigomi sporgenti al punto da rimandare all’idea di un teschio, con le ossa a vista; tuttavia la sua persona ha una grazia e un’eleganza sorprendenti:
Un lieve sforzo d’immaginazione poteva lasciarne travedere lo scheletro, gli zigomi e le ossa delle tempie avevano una sporgenza spaventosa, l’esiguità del suo collo formava un contrasto vivissimo colla grossezza della sua testa, di cui un ricco volume di capelli neri, folti, lunghissimi, quali non vidi mai in altra donna, aumentava ancora la sproporzione. Tutta la sua vita era ne’ suoi occhi che erano nerissimi, grandi, velati — occhi d’una beltà sorprendente. (ibidem)
Una lupa consapevole di risultare repulsiva, tuttavia dal suo volto strano e imperfetto promana un fascino che finirà per se-ducere Giorgio, il suo simulacro d’amore, vivo e vitale finché non verrà contagiato della sua stessa malattia e provato dall’abbandono repentino di Clara; un corto circuito emotivo, questo, che finirà per aprirgli, seppur tardivamente, gli occhi sulla meritevole abnegazione di Fosca, e che lo porterà a concederle il tanto agognato atto d’amore. È di questa morbosa passione che Giorgio scriverà nel romanzo: “Più che l’analisi di un affetto, più che il racconto di una passione d’amore, io faccio forse qui la diagnosi d’una malattia – Quell’amore io non l’ho sentito, l’ho subito”. Anche in questo sta la modernità e attualità dello scapigliato Tarchetti: la sua donna brutta rinfaccia, a noi lettori, l’ingiustizia di una società che impone alle donne il ruolo di seduttivi “oggetti d’amore”, perché il copione si ripete:
Tu non sai cosa voglia dire per una donna non essere bella. Per noi la bellezza è tutto. Non vivendo che per essere amate, e non potendolo essere che alla condizione di essere avvenenti, l’esistenza di una donna brutta diventa la più terribile, la più angosciosa di tutte le torture.
Fosca appartiene, coesiste in Giorgio, molto più di quanto lui non creda: le due donne della sua storia, Fosca e Clara (il buio e la luce), rappresentano la dicotomizzazione della sua personalità o, metaforicamente, l’etico dilemma del buono e del diavolo, come visto in Dr. Jekyll e Mr. Hyde, la teoria dell’ombra, dell’altro. Esiste, a mio avviso, un leitmotiv che ricorre nel romanzo e che attiene all’universo femminile e mi riferisco, nello specifico, alla chioma, ai capelli, nella fattispecie a quelli di Fosca: innanzitutto la “s-capigliatura”, la corrente letteraria a cui apparteneva Tarchetti, altro non significa che “disvelamento della chioma” e questa sorta di “tricomania sottile” è già ben evidente nella presentazione che lo scrittore fa della malata, come nel passo sopra riportato. Fosca possiede ciocche di capelli che, rigogliosamente folti e lunghi, diventano un ricorrente segno di pericolo del “disordine” che lei scatena. La chioma, forse sintomo più tenue degli altri quali la bruttezza e l’isteria, resta qualcosa d’intrattabile, perché è una manifestazione fisica del disordine psichico di cui entrambi, Fosca e Giorgio, soffrono. Poco dopo il loro primo incontro, Giorgio mette infatti grande enfasi nel descrivere la testa e i capelli di Fosca:
Ella stessa non mi parve in quel momento sì brutta, come mi era sembrata nei primi giorni della nostra conoscenza […] i suoi capelli neri, folti, lucentissimi, le scendevano scomposti per le spalle e ne incorniciavano il viso, la cui pallidezza e la cui magrezza erano estreme. (318)
Cosa c’è nei capelli di Fosca che cattura Giorgio in questo modo? Il leitmotiv dei capelli non è certo peculiare della Scapigliatura, porta con sé una ricca storia letteraria ed è un modo per mettere a fuoco una visione panoramica della letteratura del diciannovesimo secolo: poiché i capelli coprono la testa, ma sembrano crescere da questa e in una valutazione esterna della regione cerebrale, essi comprensibilmente finivano per essere una parola-chiave, coessenziale a molte culture e letterature. Essa sostiene sia una presenza dinamica intratestuale, riaffiorando attraverso la narrativa di Tarchetti, che una intertestuale, riapparendo nei lavori di altri Scapigliati e nelle opere di autori stranieri, come Poe, Baudelaire e Rossetti. Nel diciannovesimo secolo il corpo - soprattutto i capelli, gli occhi e i piedi - è diventato un simbolo importante dell’onirologia freudiana. Lo sviluppo di Freud della psicanalisi e il suo lavoro con la sessualità erano essi stessi un riflesso delle trasformazioni del progresso, così come loro influenzavano il corpo e la psiche. Le parti del corpo divennero, come Freud provò, simboli molto leggibili e dicibili, una voce somatica per la psiche. Il topos della chioma, simbolo della Scapigliatura, è ravvisabile anche in un’altra opera di Tarchetti, “Le leggende del Castello Nero”: il narratore racconta di uno strano evento occorsogli durante la sua giovinezza quando, dopo aver ricevuto un misterioso pacco a casa sua, fece due sogni, in uno dei quali una donna che egli sa essere la “dama del castello nero” che correva “ sola per gli appartamenti coi capelli neri disciolti, col volto e coll’abito bianchi come la neve […]”, la cui descrizione appare molto simile a quella che Giorgio fa di Fosca al momento del loro primo incontro.
In Fosca, il finale e più decisivo evento del leitmotiv dei capelli costituisce un preludio alla scena catartica in cui Fosca tenta di tagliarseli:
Mossi un passo verso Fosca. Ella rivolse il capo con un moto sì risoluto che i capelli, appena trattenuti da una reticella, si sprigionarono e caddero sulle spalle e sul collo. Mi guardò colle pupille scintillanti di passione . . . i capelli nerissimi ed abbondanti che contornavano il suo volto come in una cornice d’ebano… Poi con una specie di civetteria che contrastava stranamente colla sua natura, si accostò alla toletta, si lavò la faccia, aruffò bizzaramente i capelli . . . (415-18);
E ancora:
Si levò d’un balzo, corse ad uno stipo, prese un paio di forbici: poi venne a me, e me le diede; trasse innanzi i suoi capelli, li raccolse in un fascio colle mani, e mi disse sorridendo: “Recidili, mio bello, mio amore, recidili; sono tuoi. E siccome io mi ritrassi, afferrò le forbici e fece atto di reciderli ella stessa. Una parte dei suoi capelli le era sfuggita, tentò di riafferrarli e fu vano; io ebbi tempo di trattenerla. Hai ragione—mi disse ella—hai ragione; più́ tardi”. (422)
Per molti popoli antichi i capelli erano simbolo di forza vitale, quasi emanazione della potenza del cervello: un esempio di questa credenza, a tutti noto, è l’episodio biblico di Sansone, la cui forza si concentrava nella capigliatura. Quando Fosca implora Giorgio di tagliarle i capelli, lei gli sta anche pronosticando una fine, - ché lei li taglierà prima o poi - lasciandolo a meditare sulle sue parole agghiaccianti. Giorgio sa anche che quando Fosca avrà tagliato i capelli, lei morirà, perché lo spirito di ribellione (sessuale) è la sua unica forza vitale. Una particolare simbologia, infatti, connette i capelli al dolore e al lutto: tagliarsi i capelli, lasciarli incolti, cospargersi la testa di cenere o semplicemente coprirsi per un certo periodo i capelli sono atti simbolici stereotipati, di diffusione largamente attestata, con cui si manifestavano in forma visibile il dolore, l’amore non ricambiato o la disperazione. Ancora oggi la locuzione ‘strapparsi i capelli per il dolore’ indica una situazione estrema di sofferenza, tale da spingere l’individuo all’autodegradazione.
Sebbene Fosca non partecipi direttamente al duello tra Giorgio e il colonello, la sua assenza da tutte le altre scene restanti conferma il suo sospetto che, indipendentemente dall’esito del duello, è lei che sarà, in effetti, la perdente e inevitabilmente sottoposta alla soppressione imminente. La sua unica soluzione e ultima risorsa è, forse, il più potente di tutti i gesti per la libertà, vale a dire il non vivere affatto; un gesto incompiuto, questo, poiché il morbo scelse per lei.
(*Tarchetti, Igino Ugo, Tutte le Opere. Ed. Enrico Ghidetti. 2 vols. Bologna: Cappelli, 1967)
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