Letteratura

Amori che restano, malgrado noi

di Fausta Genziana Le Piane

Marguerite Duras sa raccontare le tensioni dei sentimenti, sempre caratterizzate dai contrasti, dalle contrapposizioni, dai giochi di ombre e luci. L'amore diventa esplorazione che si incide dentro, senza essere mai graffiata dal tempo...

 

 

"Gli occhi blu e i capelli neri dell’amore"

DurasNon storia di un amore, più d’uno in realtà nel romanzo, ma storia dell’amore tout court. La scrittura di Marguerite Duras in Occhi blu, capelli neri, Feltrinelli, 2001, oscilla come sempre tra contrari: gioia/angoscia, luce/buio, interno/esterno, parola/silenzio, sonno/veglia, giorno/notte, chiuso/aperto, dimenticare/ricordare, fuggire/offrire, sorridere/piangere, inizio/fine.

Non indugia la scrittrice nella descrizione degli ambienti, sì, c’è il mare, una sera di fine estate di eccezionale bellezza, l’hotel des Roches, molto probabilmente in Normandia, una stanza, la stanza dell’amore, quello che tormenta, lacera, insegue: “Una sorta di sala di ricevimento, arredata in modo austero con mobili inglesi, comodi, molto lussuosi, in mogano scuro. Vi sarebbero sedie, tavoli, alcune poltrone. Sui tavoli, lampade, diverse copie dello stesso libro, portacenere, sigarette, bicchieri, caraffe d’acqua. Su ogni tavolo, un bouquet di due o tre rose. Sarebbe come un luogo abbandonato da poco, funebre.

A poco a poco, si diffonderebbe un odore, all’inizio sarebbe stato quello descritto qui, d’incenso e di rosa, poi sarebbe diventato quello, inodoro, della polvere di sabbia. Perché molto tempo dovrebbe sembrare essere trascorso dalla prima diffusione dell’odore.

La descrizione dell’ambiente, dell’odore sessuale, quella dei mobili, del mogano scuro, dovrebbe essere letta dagli attori con lo stesso tono usato per raccontare la storia. Anche se, a seconda dei diversi teatri in cui il dramma sarebbe rappresentato, gli elementi di questo sfondo non coincidessero con l’esposizione che qui ne è fatta, essa resterebbe immutata. In questo caso, spetterebbe agli attori fa sì che l’odore, i costumi, i colori si adeguino allo scritto, al valore delle parole, alla loro forma.

Si tratterebbe sempre di un luogo funebre, della polvere di sabbia, del mogano scuro (pp. 21-22).

Ecco un’altra caratteristica della scrittura di Marguerite Duras: la storia nella storia, la storia vista e vissuta nel presente, raccontata in prima persona e poi osservata dall’esterno con la telecamera e narrata in terza persona. La storia vissuta e la storia riferita. La storia vissuta tutta nell’attimo, nell’istante.

Nella stanza vuota, che dà sul mare e sulla spiaggia, non vi sono sedie, al centro, solo lenzuola bianche direttamente sul pavimento, la donna - una donna - dorme, oppure rimane sveglia, e l’uomo - un uomo - è seduto accanto e la guarda. Un lampadario dalla luce gialla come un faro illumina i volti.

La donna è descritta fisicamente, ma sommariamente, poiché è tutta nella voce, nelle parole e nello sguardo: “E’ giovane, porta scarpe da tennis bianche. Si vede il suo corpo lungo e flessuoso, il candore della sua pelle in quell’estate di sole, i capelli neri. Il volto non lo si potrebbe vedere che controluce, da una finestra che desse sul mare. Porta degli short bianchi. Intorno ai fianchi, una fascia di seta nera, mollemente annodata. Fra i capelli, un nastro azzurro cupo dovrebbe far presentire il blu degli occhi che non si può vedere. Lui è il giovane straniero (…)” (p. 12). Anche l’uomo è alto, sottile, elegante (…) Come lei, deve aver fatto sport a scuola, quand’era molto giovane (…) Era vestito di bianco (p. 25).

Nessuno dei due chiede all’altro il nome né il cognome, non si domandano nulla, accettano l’incontro senza sapere il perché. Nascono le emozioni. Come nel film “Ultimo tango a Parigi” del 1972 di Bernardo Bertolucci i protagonisti si esplorano e si interrogano l’un l’altro nel ritmo di incontri stabiliti, scanditi dallo scadere del tempo. E come per l’uomo e la donna del film ci sarà un futuro per i personaggi del libro? Hanno aspettative? Sanno già cosa ricorderanno, è la scrittura a dare il senso.

Entrambi portano con sé fantasmi di amori precedenti che l’uno vorrebbe ritrovare nell’altro ed è anche per questo che hanno la sensazione di essersi già conosciuti. Lui, lei nient’altro che la coppia che si cerca, si studia, si dilania, s’incontra, si lascia nell’eterno gioco dell’amore. Perché quegli occhi blu e quei capelli neri si sono già incontrati…: ”lei aveva visto – insieme a quella differenza di destinazione fra quel volto e il tutto dell’universo – l’uguaglianza della sorte che era loro riservata, e cioè che erano travolti insieme e annientati allo stesso modo dal moto del tempo, e questo fino alla ricostituzione della trama liscia dell’universo” (p. 122).

Guardare senza vedere, guardare attraverso la seta nera, il fazzoletto, che copre gli occhi o il volto significa ascoltare il suono delle parole, seguirne il flusso, e lasciare andare la fantasia: guardare con gli occhi chiusi, guardare senza sguardo, coprirsi con le lenzuola e scoprirsi accresce il mistero innescato dallo sguardo nascosto. Mistero e potere: ”Attraverso lo sguardo lo prende, lo tiene chiuso in lei fino a sentire male” (p. 94).

L’intero libro è dominato dal leitmotiv del pianto al quale entrambi i protagonisti si abbandonano per sostituire la parola, insufficiente ad esprimere talvolta la disperazione, lo struggimento mortale vissuto: proprio come quest’ultimo, le lacrime muoiono evaporando, dopo aver testimoniato: “…l’emozione che si prova a volte nel riconoscere ciò che non si conosce ancora, all’impaccio in cui ci si trova nel non poter esprimere questo impaccio a causa della sproporzione delle parole, della loro povertà davanti all’enormità del dolore (p. 133)”. I singhiozzi rivelano i protagonisti a se stessi: “Lui scopre che in vita sua, fino a quel momento, non ha pianto abbastanza. E’ stato necessario che s’incontrassero perché questo fosse possibile” (p. 99). Simbolo del dolore e dell’intercessione tra il cielo e la terra, la lacrima è spesso paragonata alla perla o a gocce d’ambra: quelle delle figlie del sole, che, alla morte del fratello Fetonte, si trasformarono in gocce d’ambra. Presso gli Aztechi, le lacrime dei bambini condotti al sacrificio per chiamare la pioggia simboleggiavano già le gocce d’acqua.

 

L’importanza di non capire tutto: Grace Paley, un incontro

di Anna Bertini

 

La letteratura non nasce da ciò che sappiamo, ma da ciò che non sappiamo. Ciò che ci incuriosisce. Che ci ossessiona. Che vogliamo conoscere

 

Paley

Ho incontrato Grace Paley grazie al meccanismo del riconoscimento. La prima volta che mi sono imbattuta in una sua poesia, leggendola, ho trovato la stessa risposta che spesso do a chi mi chiede come mai ho cominciato a pubblicare (quel poco) e produrre visibilmente così tardi. Ho sempre risposto: perché succede che tra scrivere e fare crostate per i miei cari, finisco a fare crostate.

Così quando ho letto le seguenti strofe (da Begin Again: Collected Poems), ho avuto la certezza che dovevo incontrarla più da vicino, senza bisogno di sapere molto di piu`, di lei:

 

 

Alternativa episodica del poeta

 

Stavo per scrivere una poesia

invece ho fatto una torta ci è voluto

più o meno lo stesso tempo

chiaro la torta era una stesura

definitiva una poesia avrebbe avuto

un po' di strada da fare giorni e settimane e

parecchi fogli stropicciati

la torta aveva già una sua piccola

platea ciarlante che ruzzolava tra

camioncini e un'autopompa sul

pavimento della cucina

questa torta piacerà a tutti

avrà dentro mele e mirtilli rossi

albicocche secche tanti amici

diranno ma perchè diavolo

ne hai fatta una sola

questo non succede con le poesie

a causa di una inesprimibile

tristezza ho deciso di

dedicare la mattinata a un pubblico

ricettivo non voglio

aspettare una settimana un anno una

generazione che si presenti il

consumatore giusto

 

The Poet's Occasional Alternative

 

I was going to write a poem
I made a pie instead it took
about the same amount of time
of course the pie was a final
draft a poem would have had some
distance to go days and weeks and
much crumpled paper

the pie already had a talking
tumbling audience among small
trucks and a fire engine on
the kitchen floor

everybody will like this pie
it will have apples and cranberries
dried apricots in it many friends
will say why in the world did you
make only one

this does not happen with poems

because of unreportable
sadness I decided to
settle this morning for a re-
sponsive eatership I do not
want to wait a week a year a
generation for the right
consumer to come along

 

Ho sentito quindi il bisogno di scrivere di Grace Paley, non un articolo di approfondimento sulla sua vita e la sua arte, che altri hanno restituito ai lettori con sensibilità e precisione. Tra le più profonde indagini in questo senso è da citare la prefazione a Fedeltà nell’edizione di Minimum Fax a firma di Paolo Cognetti che potete trovare a questo link:  http://www.minimaetmoralia.it/wp/ricordando-grace-paley/.

 

Mi è concesso questo spazio per parlare invece dell’incontro che succede a un autore con l’opera e la personalità di un maestro di pensiero e di scrittura. Questo tipo di incontro, non fisico ma nondimeno reale e tangibile  per la personalità, diventa un fondamento della propria capacità di espressione, e soprattutto, si offre come modello nella ricerca di una forma di scrittura consona al proprio sé. Da questo momento di stupore e meraviglia per l’altrui cifra letteraria, si riparte rinnovati e arricchiti, più consapevoli della propria strada.

Grace Paley, la figlia di emigrati russi ebrei in America, l’attivista per la pace e i diritti civili e della donna, per l’ecologia e contro il nucleare, la scrittrice, la newyorkese, la fine osservatrice dell’umano che la circonda, e dell’inumano che la minaccia. Per gradi l’ho incontrata e la reincontro, e ne scrivo quindi, pur non avendo neppure finito di leggerla. Ma proprio di questa incompletezza è fatto il mio parlare di lei.

Paley usa la parola come uno scalpello, per tracciare con poche linee sicure solchi,  come farebbe lo scultore su una forma, conferendo plasticità, dando vita.

Una vita, quella che traccia la Paley, fatta di strade, di luoghi di tutti i giorni, di relazioni profonde e di incontri fuggenti, di piccole cose della quotidianità fatte in coscienza dei grandi rivolgimenti della storia, e soprattutto, una vita vissuta in contatto continuo con la propria interiorità. Il suo mondo interiore è una lente che schiarisce i nodi neri dell’esistenza e li porta in superficie, che partecipa a tutte le esperienze, anche le meno spirituali.

Grace Paley ha fede nell’evoluzione e ragiona sul fato, direi, come rivela poi il nome dell’alter ego da lei scelto, Faith Darwin, protagonista di molti suoi scritti. Scritti che hanno fatto della brevità e intensità una dimensione precisa e perfetta. Il metro del suo scrivere mi è sembrato una misura quasi irraggiungibile, tale da lasciarmi, sin dal primo assaggio, veramente deliziata. Forse perché ho sempre considerato la dimensione del racconto appartenermi, e mi sono da sempre avvicinata a questa narrazione convinta che la sua brevità avesse in sé grande valore. Ho sempre guardato ai maestri che avevano scelto consapevolmente questa forma, come Antonio Tabucchi, per esempio, per restare ai nostri tempi e a coloro che li hanno vissuti.

La raccolta di tutti i racconti della Paley è pubblicata in Italia da Einaudi, con il titolo Piccoli contrattempi del vivere. Questi racconti hanno suscitato in America, e non solo, grande interesse e ammirazione, e diventando oggetto di studio e approfondimento.

L’autrice stessa dev’essersi stupita in vita dell’interesse del mondo letterario per la propria scrittura, che arrivò tardivamente al centro dell’attenzione generale; non se ne sentì mai lusingata e, nonostante le numerose richieste, non volle mai abbandonare la via del suo scrivere sintetico per avventurarsi su quella del romanzo, che non riteneva le corrispondesse.

Potrei citarne molti, per il forte impatto che hanno avuto sulla creazione della mia scala di valori stilistici ed espressivi; tuttavia, non volendo aprire un trattato sulla sua scrittura, mi limiterò a trarre un esempio dal racconto Desideri (titolo originale Wants dalla raccolta Enormous Changes at the Last Minute, del 1974 ). E’ di una brevità estrema, giusto due pagine:

La Paley tratteggia una vita di donna a partire dalla mancata riconsegna di alcuni libri in biblioteca, avvenuta per indolenza e per l’incapacità di decidere conclusa la rilettura dei volumi: nell’incontro con l’ex marito sulle scale della biblioteca stessa, l’episodio della mancata riconsegna diventa espediente per analizzare il fallimento del matrimonio, e la scala di valori, la forbice interiore che ha portato la coppia alla distanza emotiva.

E qui si mette in azione sapiente il cesello dell’autrice che, con poche frasi scolpite, profonde nei contenuti e lievi nella forma, tratteggia in queste due pagine il carattere e la sensibilità della protagonista, il suo passato e lo sguardo presente, la progettualità di vita, e la capacità di autoanalisi.

E’ un racconto folgorante, esemplare, di assoluta modernità eppure consono a tutta l’eredità del racconto non solo americano, ma anche mitteleuropeo.

Alcuni passi dal racconto Desideri:

Il mio ex marito mi seguì fino al banco della restituzione. Interruppe la bibliotecaria, che aveva ancora da dire. Per tanti versi disse, attribuisco la colpa del fallimento del nostro matrimonio al fatto che tu non abbia mai invitato a cena i Bertram.

Epossibile, dissi io. Daltra parte, se ben ricordo: primo quel venerdì mio padre stava male, poi sono nati i bambini, poi ho cominciato ad andare a quelle riunioni del martedì sera, e alla fine è scoppiata la guerra. Dopo, mi sembrava di non conoscerli più, i Bertram. Comunque hai ragione, avrei dovuto invitarli a cena.

(…)

 

Io volevo una barca a vela, disse lui. Ma tu non volevi mai niente.

Non prendertela, dissi io. Non è mai troppo tardi.

No, disse lui, con molta amarezza. Può darsi che me la comperi, la barca. In realtà (...)

Per te invece è troppo tardi. Tu non vorrai mai niente.

()

 

Quello che voglio dire è che mi sedetti sui gradini, e lui se ne andò.

Diedi un occhiata alla Casa della gioia, ma avevo perso dinteresse. Quellaccusa gravava pesantemente su di me. Ora è vero, io non ho desideri o bisogni assoluti. Ma anche io voglio qualcosa.

Per esempio, voglio essere una persona diversa. Voglio essere la donna che riporterà questi due libri alla biblioteca tra due settimane. Voglio essere la cittadina efficiente che cambia il sistema scolastico e interpella il consiglio comunale sui problemi di questo amato centro urbano.

Avevo promesso ai bambini di far finire la guerra prima che diventassero grandi.

()

 

Un modello di cui prendere coscienza, da tenere a portata di mano per la crescita personale, la Paley mi è venuta incontro prima con le sue opere, poi nelle atmosfere di strade e luoghi di una città americana nella quale, sin dal primo istante, mi sono sentita a casa. Com’era di casa lei, che faceva parte, nel Greenwich Village, quasi dell’arredo urbano. La sua newyorkesità, un amore dichiarato e un distintivo di riconoscimento, come lei stessa esprime in una sua poesia:

 

sorrido alluomo sorridente lui

annuisce cortese noi

riconosciamo nellaltro la newyorkesità.

 

I smile at the smiling man he

nods his head courteously we

know each other our newyorkness

 

( da Fidelity, 2008 )

 

La raccolta Fidelity che contiene questi versi è stata pubblicata postuma alla sua morte, e fu completata dall’autrice negli ultimi anni di vita.

Ad un’attenzione più vasta, questa raccolta è giunta soprattutto grazie a un paio di poesie dal tema scottante, prima fra tutte la oramai famosa Grazie a Dio non c’è nessun Dio. Versi che molti hanno voluto interpretare come un inno all’ateismo, ma che di fatto sono molto più di una semplice bandiera agnostica. Sono una riflessione profonda sulle colpe delluomo per i mali del mondo, e una diffida ad usare la fede in modo consolatorio ed utilitaristico.

 

Grazie a Dio non c'è nessun Dio

Grazie a Dio non c'è nessun Dio

o saremmo tutti perduti

se fosse Lui che ci fa gridare

di angoscia feroce di fronte alla tortura

all'odio tre o quattro volte per generazione

non ci sarebbe speranza e seppure Lui permettesse

alla pace di apparire allora un giorno grandi lastre

di pietra sotto i frutteti e il mare potrebbero

muoversi piano una contro l'altra terremoto

 

se fosse stato Lui a costruire così stretto il ponte

su cui siamo esortati a passare

senza paura mentre intorno a noi

i vecchi gli zoppi i maldestri i

bambini scalpitanti ruzzolano giù

e a volte vengono spinti nell'orrido

precipizio se fosse Lui certo saremmo perduti

 

se fosse Lui a offrire il libero arbitrio ma

solo ogni tanto strano dono

per un popolo che abbia appena distinto

la mano destra dalla sinistra

ma se siamo noi i responsabili con-

sideriamo il nostro assiduo amore uno per l'altro

perché questo è il giorno d'oggi ora possiamo

guardarci negli occhi

a grande distanza questo è il tele-

fonico elettronico digitale giorno d'oggi

celebre per il denaro e la solitudine ma noi

 

abbiamo sconfitto Babele accettando parole

straniere in gloriose traduzioni se

 

sappiamo essere responsabili se siamo

diventati responsabili

 

 

Thank God there is no god

 

Thank God there is no god
or we'd all be lost

if it is He who sends us howling
in murderous despair at torture
hatred three or four times a generation
there'd be no hope and if He permitted
peace to appear then one day great plates
of stone beneath the orchards and sea may
move slowly against one another earthquake

if it is He who built that narrow a bridge
across which we are invited to walk
without fear while all around us
the old the lame the awkward the jumping-
up-and-down children are tumbling off
or sometimes pushed into the hideous
gorge if it is He then we are surely lost

if it is He who offers free will but
only sometimes a peculiar gift
for a people who have just distinguished
their right hand from their left
but if we are responsible con-
sider our frequent love for one another
because this is nowadays we may be able
to look over great distances into
each other's eyes these are the tele-
phonic electronic digital nowadays
famous for money and loneliness but we

have defeated Babel by accepting the words
of strangers in glorious translations if

we can be responsible if we have
become responsible

 

Oltre a praticare fedelmente la poesia e il racconto, la Paley, già ricercata da importanti editori e testate, raccolse nel volume Just as I Thought ( da noi tradotto con il titolo Limportanza di non capire tutto ) del 1998 scritti quali lezioni, pezzi giornalistici, politici, saggi, interventi orali, relazioni, e prefazioni a sua firma.

È in questa raccolta che ho trovato la citazione con cui inizio questo pezzo e che, davvero contiene punto per punto il mio modo di sentire sul valore letterario.

Queste scritture ci consegnano un ampio spaccato del mondo intellettuale della scrittrice, e ce la fanno conoscere più da vicino nella sua biografia, nel suo impegno sociale, politico, civile, nei suoi interessi. Li ho presi in mano da non molto e così, fino a poco tempo fa, il mio rapporto con questa autrice - questa intimità intellettuale che percepisco e che vuole essere l’oggetto di questo mio scritto - era più o meno basato esclusivamente sulla sua produzione strettamente letteraria.

Spulciando in questa raccolta ho sorprendentemente trovato ulteriori punti di contatto con lei. Tra i molti, il riscatto della cosiddetta struttura debole, concetto che ha atterrito molti narratori costringendoli a costruire scatole cinesi di trama, spesso vuote.

Tutti dicono che i miei racconti non hanno trama, e questa cosa mi manda fuori di testa. La trama non è niente; la trama è solamente tempo, una linea temporale. Tutte le nostre storie hanno una linea temporale. Una cosa succede, poi ne succede unaltra.

Oppure il tema molto caro della responsabilità, che per la Paley non appartiene a chi narra, in virtù dell’essere persona pubblica, o tantomeno di un eventuale successo, o qualsivoglia altro riflettore puntato, ma solo in virtù della propria urgenza espressiva, della propria forma di pensiero, del proprio coraggio umano. Soprattutto se donna. Essere responsabile della poiesis per antonomasia.

Concetto che, d’altronde, Grace ha cantato anche in versi ( ancora da Begin Again: Collected Poems):

 

Responsabilità

 

È responsabilità del mondo lasciare che il poeta sia poeta

È responsabilità del poeta essere donna

È responsabilità del poeta stare agli angoli delle strade

a distribuire poesie e volantini scritti

meravigliosamente

e anche volantini che non si possono guardare

per la loro retorica altisonante

È responsabilità del poeta essere pigro perdere tempo

e fare profezie

È responsabilità del poeta non pagare le tasse di guerra

È responsabilità del poeta entrare e uscire da torri davorio

bilocali su Avenue C

campi di grano saraceno e basi militari

È responsabilità del poeta uomo essere donna

È responsabilità del poeta donna essere donna

È responsabilità del poeta dire la verità al potente come

affermano i Quaccheri

È responsabilità del poeta imparare la verità da chi non

ha potere

È responsabilità del poeta ripetere sempre: non esiste

libertà senza giustizia cioè giustizia economica e

giustizia in amore

È responsabilità del poeta cantarlo su melodie originali e

su quelle tradizionali degli inni e dei poemi

È responsabilità del poeta ascoltare ogni diceria e

riportarla come i narratori diffondono la storia della vita

Non esiste libertà senza paura e senza coraggio non

esiste libertà a meno che terra e aria e acqua sopravvivano

e con loro sopravvivano i bambini

È responsabilità del poeta essere donna tenere docchio

il mondo e gridare come Cassandra, ma per essere

ascoltato questa volta.

 

Responsibility

 

It is the responsibility of society to let the poet be a poet

It is the responsibility of the poet to be a woman

It is the responsibility of the poet to stand on street corners

giving out poems and beautifully written leaflets

also leaflets you can hardly bear to look at

because of the screaming rhetoric

It is the responsibility of the poet to be lazy

to hang out and prophesy

It is the responsibility of the poet not to pay war taxes

It is the responsibility of the poet to go in and out of ivory

towers and two-room apartments on Avenue C

and buckwheat fields and army camps

It is the responsibility of the male poet to be a woman

It is the responsibility of the female poet to be a woman

It is the poet's responsibility to speak truth to power as the

Quakers say

It is the poet's responsibility to learn the truth from the

powerless

It is the responsibility of the poet to say many times: there is no

freedom without justice and this means economic

justice and love justice

It is the responsibility of the poet to sing this in all the original

and traditional tunes of singing and telling poems

It is the responsibility of the poet to listen to gossip and pass it

on in the way storytellers decant the story of life

There is no freedom without fear and bravery there is no

freedom unless

earth and air and water continue and children

also continue

It is the responsibility of the poet to be a woman to keep an eye on

this world and cry out like Cassandra, but be

listened to this time.

 

 

Procedendo nella lettura de LImportanza di non capire tutto, ho avuto una vera rivelazione. Tanto più perché avevo già organizzato molto tempo prima che questa mi si palesasse, un reading per l’associazione Saffo e le altre* (Movimento per la diffusione del patrimonio delle Donne) in seno al quale, dovendo proporre due nomi di poetesse storiche che mi fossero particolarmente vicine, avevo fatto cadere la mia scelta su Karoline von Gùnderrode e Grace Paley, appunto. La prima incontrata nel libro di Christa Wolf Nessuno luogo, da nessuna parte (Kein Ort, Nirgends), e frutto di un lungo processo di associazione intellettuale e riconoscimento negli anni più acerbi della mia vita, soprattutto della mia vita di emigrata in terra tedesca. Così, poco prima di Natale, proseguendo nella lettura di quella raccolta, verso la fine, mi sono imbattuta nella prefazione, a firma della Paley, all’edizione americana di Che cosa resta, (racconti di Christa Wolf, 1992). E qui ho scoperto una fortunata coincidenza: la Paley fece visita alla Wolf a Berlino Est, per intercessione di un’amica comune. Racconta lei stessa:

 

Quello che mi interessava era la donna, lo scrittore appassionato, dedito alla letteratura, che credeva al tempo stesso di dover avere un rapporto lavorativo - così come una certa responsabilità - con la società. Sembrava esattamente lo scrittore che volevo conoscere: non ce ne sono molti come lei, nonostante alcuni mi siano comunque cari.

In questa prefazione la Paley si confronta direttamente con la stoffa di Nessun luogo da nessuna parte, e con la protagonista femminile Karoline von Gùnderrode, dando anche una sua definizione dello scritto: lo considero un lavoro teatrale sul dolore (lutto) degli scrittori romantici dei primi anni del diciannovesimo secolo.

In questo mio non sapere, quindi, avevo fatto un’associazione in qualche modo coerente col sentire della Paley oltre che col mio, nel portare a confronto il suo nome con quello della Gùnderrode.

E così, sperando di avervi trasmesso il mio affetto per lei, vi invito a leggerla e a seguire anche, quando e se scrivete, i suoi consigli:

il povero scrittore - che presumibilmente svolge un lavoro intellettuale - non dovrebbe sapere di cosa sta parlando (), a un scrittore di invenzione, io suggerirei una cosa del genere: quali sono gli aspetti di una situazione che davvero non capite?

Jane Austen svelata

di Federica Colantoni

Una delle romanziere più apprezzate di tutti i secoli. E la volontà di raccontarla è forte in chi la studia e la ama. Come sempre, le biografie riescono bene quando si mescolano competenze e passione. E questo è un felice esempio di questo connubio...

 

IerolliJane Austen si racconta è la biografia di una delle romanziere più amate scritta, come suggerisce il titolo, in parte di suo pugno. Con questo non si deve presumere che Jane Austen abbia avuto la voglia e l’intenzione di ritrarsi, ma qualcuno ci ha pensato al posto suo. Giuseppe Ierolli, traduttore ed esperto della scrittrice, ci trasmette un pizzico della sua conoscenza organizzando in questo libro parte della corrispondenza tra Jane Austen e i suoi familiari, in particolare con la sorella Cassandra, in cui letteralmente si racconta e ci racconta i particolari della sua vita quotidiana.

Uomo raro Ierolli, che si confessa amante della letteratura austeniana. Questo amore così travolgente, che nasce nel periodo universitario, lo porta alla traduzione dell’opera omnia di Jane Austen. Ma non è stato un colpo di fulmine. Nell’intervista a un Janeite d’eccezione, pubblicata sul blog Old Friends and New Fancies nel 2013, Giuseppe Ierolli confessa di aver abbandonato a metà Orgoglio e Pregiudizio la prima volta che l’ha preso in mano. Ma come tutti i grandi amori anche questo aveva bisogno di tempo per maturare. Per scoprire in seguito quello che ogni lettrice (o lettore) della Austen scopre: leggere Jane Austen è leggere la sua vita e, io aggiungo, la nostra.

Quante giovani Catherine Morland vivono l’eccitazione di ogni istante vissuto lontano da casa, desiderose di scoprire il mondo che le circonda. Quante Elizabeth Bennet che, con ammirevole impudenza, non si lasciano intimidire da persone più autorevoli. Innumerevoli le Anne Elliot, che troppo facilmente si fanno persuadere a rinunciare a un amore o a un sogno o al sogno di un amore e, altrettanto facilmente, se ne pentono subito dopo, ma che proprio grazie a quell’errore riescono a raggiungere la consapevolezza di sé. E le Emma Woodhouse, belle e acute, che rimangono deluse quando scoprono che il proprio ingegno è nullo se non viene accompagnato dal buon senso… Per ogni eroina della Austen ci sono migliaia di ragazze e donne moderne che non solo si immedesimano, ma si riconoscono in loro. Il riconoscimento è la vera essenza di una storia, di una buona storia. Capire chi siamo leggendo le parole che hanno contribuito a far diventare una ragazza una donna, diventando donne a nostra volta.

Sette capitoli, dunque, coscientemente suddivisi in base ai trasferimenti e alle fasi salienti della vita di Jane Austen, che ci trasportano per qualche ora indietro di duecento anni, nella campagna inglese di fine Settecento, tra la società borghese, nei salotti e nei balli.

“Il trascorrere del tempo, la sensazione di un tempo irrevocabilmente perduto anche quando l’amore perduto viene ritrovato, e con l’amore la perduta bellezza, è un tema fondamentale del romanzo”, queste parole di Anna Luisa Zazo, curatrice e autrice della prefazione dell’edizione Oscar Mondadori del 2011 di Persuasione, focalizzano l’attenzione su un tema ricorrente nel romanzo e nell’esperienza di Jane Austen: il tempo.

Elemento che si riscontra anche nella raccolta di Ierolli, in maniera meno poetica e romantica ma comunque funzionale alla lettura. L’autore, infatti, propone una frammentazione della vita di Jane Austen in primo luogo attraverso i luoghi visitati e vissuti, in secondo luogo scandendo in modo accurato il tempo. Volendo essere riduttivi Jane Austen si racconta non è solo una raccolta epistolare ma anche una raccolta cronologica, un approfondimento della biografia della Austen che è stato fatto seguendola, per quanto possibile, nei momenti più significativi della sua vita fino al giungere della malattia e dell’inevitabile morte. Insieme a Ierolli, e con il suo aiuto, possiamo diventare spettatori.

Seguire la famiglia Austen in tutti i suoi spostamenti non è impresa da poco. In pochi anni si sposta da Steventon a Bath, a Southampton, a Chawton, e ognuna di queste residenze ha una forte influenza sulla Jane Austen ragazza, donna e, ancora di più, scrittrice. Giuseppe Tomasi di Lampedusa scrive “la Austen è uno dei pochi romanzieri che ha davvero creato un mondo […]”, questo mondo è quello che conosce, quello di cui scrive. È i posti che visita, in cui vive. È le persone che incontra in un attimo fugace, e quelle che conosce da tutta una vita. Ierolli ci dà la possibilità di conoscere meglio questo mondo. Modestamente fa capolino tra una lettera e l’altra, spiegandoci il contesto e introducendoci le lettere seguenti. Dai suoi interventi capiamo come la Austen abbia preso ispirazione dai luoghi visitati per ambientare i suoi romanzi, o come il dettaglio di una catenina regalata a Jane Austen dal fratello Charles sia diventata la catenina regalata a Fanny Price dal fratello William:“[Charles] Ha ricevuto 30 sterline come sua parte di ufficiale e se ne aspetta altre 10 – ma a che serve avere un premio se lo usa per fare regali alle Sorelle. Ha comprato due catenine d’oro con Croci di Topazio per noi; – bisogna fargli una bella lavata di capo. –” [Ierolli, G. Jane Austen si racconta, Utelibri, 2012, p. 68].

Piccolezze dunque, trascurabili dettagli, quelli che nei romanzi si leggono con disattenzione, ma che nella realtà sono stati fondamentali.

Non eccediamo, però, in un assoluto biografiamo. Non presumiamo, dopo questa lettura, di conoscere Jane Austen. Poco si sa della sua intima persona. Sappiamo, certo, che fu una donna con spiccata ironia, legata alla famiglia, di vivace intelligenza, in perfetto equilibrio tra serietà e frivolezza, ma tutte cose superficiali. Le lettere alla sorella Cassandra sono gioielli rivelatori, ma non dimentichiamo che la maggior parte furono bruciate dalla stessa Cassandra, forse per mantenere privato quel profondo legame che si può instaurare solo tra sorelle.

Ciò non toglie che una dopo l’altra le lettere di Jane Austen si leggono proprio come i suoi romanzi, d’un fiato e con un sorriso. Da quando era la ragazzina che scriveva i racconti per divertire la famiglia, a quando diventa una giovane donna che cerca il suo stile, fino ad arrivare alla scrittrice matura e affermata, con questo piccolo libro possiamo accompagnarla nel suo viaggio…come ombre silenziose che viaggiano nel tempo e seguono la loro beniamina.

Noi donne moderne abbiamo bisogno di diventare lady ogni tanto, e per un momento solo ci sentiamo gentildonne che vengono delicatamente corteggiate, che parlano di quale pizzo indossare e quale merletto comprare. Giuseppe Ierolli ci aiuta in questo, e che fosse o meno la sua intenzione lo ringraziamo.

 

"Jane Austen si racconta", Giuseppe Ierolli, Utelibri, 2012

 

Il mio incontro con Murakami

di Stella Larotonda

murakami

Leggere uno scrittore a volte diventa un'esperienza che lascia una traccia particolare in cui la carne e le parole si incontrano. E si intreccia un destino speciale che lega autore e lettore....


Sono anni che ho voglia di cimentarmi nella lettura di Murakami. Mio padre è un appassionato, ho diversi libri a casa sua e potrei iniziare senza alcuna difficoltà, nemmeno economica. Ma c’è qualcosa che mi blocca. In realtà un incontro c’è già stato. Avevo più o meno tredici anni e mi trovavo in quel periodo in cui si legge tutto ciò che capita, pur di leggere qualcosa che hai a portata di mano, che non devi sforzarti di cercare e che qualcun altro – che magari ammiri anche – ha già sfogliato prima di te. È con questo stato mentale che ho affrontato la lettura di On the road, Il Giovane Holden, Il Maestro e Margherita. Libri che ho amato, ma che a ripensarci adesso… cosa ho capito? Cosa mi ricordo? Ho dovuto riaprirli, rileggerli e quindi riscoprirli. Non erano più loro, erano nuovi.

Ho tredici anni, sono nella mia stanza, non so cosa leggere e decido di iniziare a sfogliare le pagine di un libro dal titolo curioso e dalla copertina rossa, un colore invitante. Il libro si chiama Norwegian Wood, l’autore ha un nome orientale mai sentito prima e a me non piace leggere libri ambientati in Oriente. Ho difficoltà a ricordare i nomi, a memorizzarne i volti. Ma inizio e porto a fondo la lettura. Quello che mi resta non è la trama, non è l’intreccio; è un’atmosfera, una sensazione, quasi un odore. E ancora oggi se ripenso a quel libro c’è solo un’immagine che mi torna alla mente: due ragazzi, un uomo e una donna, che passeggiano in silenzio tenendosi per mano. Il resto l’ho scordato.

Per un po’ di anni mi sono dimenticata di quell’autore, l’ho ritrovato poi, tempo dopo, nella libreria della casa dei miei genitori. Ho iniziato a sentirne parlare molto, da tutti. I miei amici ballerini hanno danzato sulle immagini di un suo libro, ma io non volevo saperne. Le cose che avevo sentito sul suo conto mi bastavano a pensare che la lettura di altre opere non mi avrebbe entusiasmato. In fondo, a parte l’atmosfera, a parte l’immagine dei due ragazzi, Norwegian Wood non era entrato nel mio cuore.

Passa qualche anno e nella mia vita accade qualcosa: inizio a correre. Non sempre, non costantemente, ma ogni tanto sì, ogni tanto corro. Non sono una maratoneta, non corro due ore di seguito. Non sono una che corre, io sono interessata alla corsa. E tra i tanti libri trovo un saggio, si chiama L’Arte di correre e l’autore è Murakami Haruki. Inizio a leggere, così, quasi svogliatamente, in uno di quei momenti in cui hai cinque minuti e non sai come riempirli. E inaspettatamente mi accorgo che ho voglia di andare avanti e che quella sarà la lettura che mi accompagnerà per i prossimi due giorni. Mi appassiono all’autore, alla sua vita. Sono colpita da alcuni episodi; il lavoro di barista, il fatto che abbia cominciato a scrivere a trentatré anni e che quell’inizio coincida con la sua attività di corridore. Murakami corre per scrivere: la disciplina, la perseveranza e la costanza, necessarie nella corsa, lo aiutano a mantenere una stabilità nella scrittura.

“Correre per scrivere”, mi piace. L’arte della corsa come l’arte della scrittura, entrambe si compiono in solitudine, l’uomo a contatto con se stesso, coi propri pensieri, col raggiungimento dei propri obiettivi. Mi appassiono allo scrittore – o al corridore – e, al termine del saggio, decido che è il momento per tornare a noi, a me e Murakami.

Da cosa inizio? Kafka sulla spiaggia, il titolo mi affascina. È ancora estate, posso leggerlo al mare, quel titolo è coerente.

E così il denaro sei riuscito a trovarlo? – chiede il ragazzo chiamato Corvo. Il modo di parlare è il solito, un po’ strascicato. Come di uno che si è appena svegliato dopo una lunga dormita e ha i muscoli della bocca ancora intorpiditi. Ma il suo è solo un atteggiamento: in realtà è perfettamente sveglio. Come sempre. Io annuisco.

L’inizio mi cattura. Adoro quando un libro si apre con una conversazione avviata, giri la prima pagina e ti ritrovi testimone di un dialogo di cui non sai nulla. Sei disorientato, spiazzato, ma privilegiato. Ti rendi conto di essere ospite gradito, ma sai che devi ricorrere a tutta la tua sensibilità per non essere invadente. Occhi curiosi e discreti, ben aperti, occhi che si aprono e chiudono tentando di catturare, di visualizzare. Chi è il ragazzo dal nome affascinante? E con chi sta parlando? Avverti un piccolo tremore che somiglia quasi alla felicità e ti chiedi come tu possa ogni volta dimenticarti di quella sensazione di benessere che provi all’inizio di una storia, e provi pena e poca comprensione per chi non sa che farne di un libro tra le mani. Da subito capisci che questa volta sarà diverso, che quello che resterà non sarà solo un’immagine, che sei davanti a una storia. Sei sdraiata sulla spiaggia e pensi: “Avrei voglia di sognare. È un po’ che non sogno. È un po’ che non ricordo quello che sogno”.

Il regalo della settimana: eccolo lì il tuo sogno. Il tuo corpo è fermo, il respiro regolare, c’è silenzio intorno a te, ma sei sveglia, gli occhi sono aperti, un po’ stanchi ma aperti.

E allora cosa sono tutte quelle immagini che arrivano nella mente? Quei personaggi sfocati che danzano davanti ai tuoi occhi? Quell’atmosfera che se ti chiedessero di dipingere useresti un colore chiaro, quasi grigio, quasi ghiaccio? Quasi. Perché, nonostante i dettagli, niente in questo libro è definito, non lo sono i personaggi, non lo sono i confini. Nemmeno i nomi.


Tamura Kafka, – ripete Sakura. – Che strano nome. Però facile da ricordare.

Annuisco. Non è semplice diventare un’altra persona. Ma cambiare nome è un gioco da ragazzi.

Tamura Kafka ha 15 anni, è scappato di casa per sfuggire all'agghiacciante profezia scagliata dal padre: “Ucciderai tuo padre e giacerai con tua madre e tua sorella”. Il suo amore per i libri lo ha portato a scegliere come proprio rifugio e luogo di salvataggio una biblioteca. È qui che conosce Oshima, un bibliotecario androgino, di una sensibilità fuori dal comune, guida fisica e spirituale di Kafka.

A causa del tipo di persona che sono, ho subìto discriminazioni in varie circostanze, - dice Oshima. – Che cosa significhi essere discriminato, e quanto profondamente si resti feriti, sono cose che solo chi le ha subite può capire. Ogni dolore è unico, e anche le cicatrici hanno una forma diversa per ciascuno. Perciò nel combattere la discriminazione e l’ingiustizia, credo di non essere secondo a nessuno. Ma se c’è una cosa che mi indegna ancora di più, sono le persone prive di immaginazione. Quelle che T. S. Eliot chiamava “gli uomini vuoti”. Persone insensibili che coprono questa loro mancanza di immaginazione, questo loto vuoto, con un ammasso di segatura, e senza rendersene minimamente conto, se ne vanno in giro per il mondo a tentare di imporre a tutti i costi questa loro ottusità agli altri, mettendo in fila parole vuote e senza senso.

Nella biblioteca c’è anche la Signora Saeki, una donna misteriosa resa immobile da una storia d’amore dalla tragica conclusione, sottomessa a un tempo che scorre solo all’esterno. Il suo tempo interiore è quello dei quindici anni, un passato eterno che sopravvive solamente in una dimensione tra il sogno e la realtà. Nel corpo della Signora Saeki sono racchiuse le pulsioni sessuali di Kafka adolescente, il cui desiderio inconfessabile coincide con quello da cui sta scappando: uccidere suo padre per giacere con sua madre. Una madre che lo ha abbandonato quando era un bambino e che potrebbe corrispondere, come età e aspetto, alla figura della Signora Saeki.

Buongiorno, – disse il vecchio.

Il gatto sollevò appena la testa, e a voce bassa, di malavoglia ricambiò il saluto. Era un grosso gatto maschio nero, anziano.

È una bella giornata, non è vero?

Hmm, – fece il gatto.

Non si vede nemmeno una nuvola.

Pensa che questo tempo non durerà?

Verso sera si dovrebbe guastare. Si sente nell’aria, – disse il gatto nero, allungando lentamente una zampa. Poi socchiuse gli occhi e osservò di nuovo l’uomo in viso.

Nakata è un vecchietto, da bambino è stato vittima di un misterioso incidente che lo ha reso incosciente per giorni e lo ha privato della sua intelligenza. Adesso è un po’ stupido, non sa né leggere né scrivere, si rivolge a se stesso in terza persona, ma ha un dono: sa parlare la lingua dei gatti.

Nakata e Tamura non si incontrano, ma il loro viaggio percorre le stesse tappe.

Le frasi sono brevi, vanno dritte al punto. Ai dialoghi, utilizzati come spunto per riflessioni profonde sulla condizione umana, seguono azioni descritte in modo chiaro e dettagliato. È lo stile che mi colpisce: il paradosso che alla trasparenza della forma non corrisponda un contenuto altrettanto limpido. Nella dimensione in cui scorre la storia non c’è possibilità di definizione, tutto potrebbe accadere e infatti tutto accade. Ma tutto si ricompone, torna ad essere chiaro, come la sua forma.

I personaggi sorvolano sulla storia, come fossero nuvole. Ognuno col suo viaggio, ognuno col suo destino. Li vedo sfocati, poco definiti, proprio come fossi in un sogno, dove si ha la libertà di essere se stessi e anche qualcos’altro, di essere contemporaneamente in luoghi diversi, così come Tamura, che dopo essere svenuto, si sveglia con le mani macchiate di sangue. La stessa notte muore suo padre e teme di essere stato lui ad ucciderlo. Nella realtà, delimitata da rigidi canoni spazio temporali, non sarebbe possibile, perché Tamura si trova in un altro luogo ed è incosciente. Ma nella dimensione del sogno, della metafora, della paura, dell’ossessione – o dell’inconscio – tutto si fa plausibile.

Mi ricordo dei miei sogni sfocati, delle volte in cui qualcuno è morto nei miei sogni, dei miei desideri inconsci, di tutte le volte che non sono stata in grado di stabilire il confine tra sogno e realtà e ne ho provato terrore. Penso che ci è voluto coraggio a uscire da quell’intricato viaggio adolescenziale, che è stato necessario fare i conti con il dolore, con la perdita e l’abbandono, proprio come Tamura.

Il mio pensiero va a Tamura, ai suoi 15 anni, a me e ai miei 15 anni. In fondo, Tamura è un adolescente qualunque e se la penna che narra fosse quella di un uomo qualunque, ci racconterebbe di un ragazzo alle prese con i problemi adolescenziali: l’amore, il dolore, la ribellione verso i genitori, l’amicizia e la scoperta della sessualità. Ma la penna non è quella di uomo qualunque, e io, dopo tanti anni di resistenza, finalmente l’ho capito.

Il tempo grava su di te con il suo peso, come un antico sogno dai tanti significati. Tu continui a spostarti, tentando di venirne fuori. Non ce la farai, a fuggire dal tempo, nemmeno arrivando ai confini del mondo. Ma anche se il tuo sforzo è destinato a fallire, devi spingerti fin laggiù. Perché ci sono cose che non si possono fare senza arrivare ai confini del mondo”.

Dino Buzzati: “Un amore” (di psiche)

di Marina Brunetti

Ci sono autori che andrebbero sempre riletti, perché, come pochi altri, hanno la facoltà di scavare nelle faccende del mondo, raccontandone anche le asperità. Leggendoli si ha la sensazione di penetrare nei recessi più remoti dell'uomo e della sua condizione. Senza timori, senza pudori...

 

Ogni cosa del mondo congiurando con le altre cose del mondo in complotto sapientissimo per promuovere la perpetuazione della specie”.

Dino BuzzatiNella Milano, definita da Buzzati “un inferno moderno”, ipocrita, piena di false credenze e inquietudini, si ambienta e si celebra “Un amore”, il capolavoro senza tempo di Buzzati, ove l’innamoramento di un uomo maturo per una giovanissima viene vivisezionato attraverso la trama del romanzo, paurosamente imbibito di dialoghi interiori ossessivi e morbosi, magistralmente tratteggiato negli psicologici risvolti.

La città incarna la complessa psiche del protagonista o forse anche quella della giovane amante, ma anche una certa decadenza spirituale che accoglie l’esperienza personale di un architetto cinquantenne, vittima non solo dei pregiudizi e degli odiosi canoni della rispettabilità sociale ma anche del potere di uno sguardo, un semplice, breve ma fatale incontro di occhi. Lo sguardo che si fa, complice l’immaginazione, dapprima desiderio erotico per poi annegare nel delirio, nella malattia d’amore. Freud nel suo “Tre saggi sulla teoria sessuale” (S. Freud, Opere. Volume IV: Tre saggi sulla teoria sessuale e altri scritti. 1900-1905, Bollati Boringhieri, Torino 1989), sottolinea l’importanza del guardare, definito in una prima fase come “contemplazione” nei processi ricostruttivi dell’oggetto sessuale, che si basa in buona parte sull’immaginazione: “L’impressione ottica rimane la via attraverso la quale più spesso è risvegliato l’attaccamento libidico” (Freud 1905, p. 469). Per mezzo dello sguardo, più che attraverso il tatto dunque, la sessualità costruisce l’oggetto del suo desiderio sopravvalutandone parti del corpo, ma anche accrescendo a dismisura le componenti caratteriali, fenomeno questo che coinvolge un po’ tutti, poiché tutti siamo, in diversa misura, in parte voyeur, masochisti, narcisisti, esibizionisti e finanche sadici. Capita tuttavia, ed è il caso di Dorigo, che alcuni di codesti tratti, in forma esasperata, siano la proiezione delle proprie neurosi.

Per questa ragione, Antonio Dorigo dovrà sacrificare la propria libertà in virtù di uno sguardo di donna che aveva incrociato tempo prima, un incontro distratto che sarà tuttavia una testimonianza fondamentale per lui: “Come se quell’incontro avesse importanza nella sua vita, come se il coincidere rapidissimo degli sguardi avesse stabilito fra loro due un legame che non si sarebbe spezzato mai più, a loro stessa insaputa” (Buzzati, op.cit., pos. 973). Buzzati, fin dalle prime descrizioni, sembra dipingerci il caso Dorigo all’interno di un ambiente narrativo sottilmente caratterizzato da richiami psicoanalitici: la memoria, i ricordi, le oscure impronte. Anche il fatale incontro sembra una metafora topografica dell’umano inconscio: “Un angolo dimenticato, un labirinto di viuzze, anditi, sottopassaggi, piazzuole, scale e scalette dove si annida ancora una densa vita” (ib., pos. 919).

Cosi, nel momento in cui conosce Laide, la giovane prostituta che si vende nella casa d’appuntamenti che è aduso frequentare, la crede una ragazza qualunque o si sforza di farlo, convinto di averla già incontrata, appunto, in quel fortuito e significativo segno del destino dell’incontro casuale pregresso, “Ma in quel preciso momento ci fu nelle profondità di lui uno scatto, una specie di misterioso rintocco, come quando in una grande solitaria campagna si sente una voce lontanissima che chiama” (ib., pos. 896), sviluppando l’impressione “di quelle intuizioni dell’animo, apparentemente assurde, che magari al momento non ci si bada ma rimangono dentro per poi ridestarsi a distanza di mesi e anni, quando il meccanismo del destino scatterà…” (ib., pos. 972).

La frequentazione postribolare, per quanto praticata in un ambiente apparentemente non volgare e camuffato da sartoria, non sembra affatto essere motivo di rimorso per il protagonista, che la considera piuttosto una pratica pulita: “perbene, il ricorrere alla prostituzione: razionalizza, […], il problema dell’amore a un problema di letto e di gusti sessuali. Ma la moralità della storia - che è la morale della vita - lo colpisce proprio nella persona di una delle ragazze, che si impadronisce dei suoi sensi e dei suoi pensieri e apre un po’ alla volta ai suoi occhi un inaspettato panorama. Laide diventa il simbolo positivo, vitale, di un’esistenza altrimenti perduta. Attraverso di lei si allontana da Dorigo il senso della morte le giornate trascorrono sì piene di angoscia, ma di un’angoscia positiva, poiché dipende dall’amore e dal bisogno della persona amata” (Antonia Arslan, Invito alla lettura di Buzzati, Mursia, Milano 1997, p. 48). E, per autoassolversi, si dà una spiegazione che metta a tacere sia la coscienza che l’atteggiamento ipocrita della borghesia del tempo: “C’era del male nel fare questo? Non mancavano a Dorigo gli scrupoli morali. Ma per quanto ci avesse pensato a lungo non era riuscito a trovare il punto debole. Se tutti facessero come me, sarebbe peggio o meglio? Si chiedeva. E non vedeva il possibile danno. Eppure c’era dentro qualcosa di turpe. La prostituzione forse lo attraeva proprio per la sua crudele e vergognosa assurdità. La donna, forse a motivo dell’educazione familiare, gli era parsa sempre una creatura straniera, con una donna non era mai riuscito ad avere la confidenza che aveva con gli amici. La donna era sempre per lui la creatura di un altro mondo, vagamente superiore e indecifrabile. All’idea che una giovanetta di diciott’anni, per guadagnare quindicimila lire, andasse in letto, senza preamboli di sorta, con un uomo mai visto né conosciuto, e si lasciasse godere l’intero corpo […]. Da questo pensiero aspro e dolente, da questa incapacità di ammettere, nasceva però il desiderio… Ogni volta, quando la prostituta si spogliava nuda dinanzi a lui gli pareva un fatto quasi inverosimile, stupendo, paragonabile ad una fiaba”. (op.cit., pos. 824). In virtù di quello scambio di sguardi, Dorigo, stordito anche dal riemergere di certe sensazioni, finirà per mutare l’iniziale indifferenza per Laide in ossessione, delirio e conseguente assoggettamento alla di lei persona.

La tensione iniziale verso la giovane Laide (nome per nulla casuale, sebbene diminutivo di Adelaide) passa anche attraverso la contemplazione estetica, un aspetto assai importante nell’opera buzzatiana, che lo scrittore veicola, nel caso di “Un amore”, attraverso la psiche complessa di Dorigo: la passione di quest’ultimo si spinge a comparare la giovane a celeberrime opere d’arte, una Madonna di Antonello da Messina e le ballerine di Degas. Il talento di Buzzati ci porta dunque a un’analisi psicologica inevitabile, che si snoda attraverso quella testuale, mediante l’impiego enfatizzato di ambientazioni, quadri, teatro e case di tolleranza; la visione del protagonista passa da una fase voyeuristica, cioè nell’osservare senza essere visti, a una contemplativa, dapprima religiosa (la Madonna) e successivamente carnale, la ballerina di Degas. Dunque i piani entro i quali si sposta tutta la trama del romanzo sono proprio tre: il voyeuristico, il contemplativo e il carnale.

Il primo aspetto è interamente ravvisabile nel passo del libro che tratta dell’incontro fugace e fatale con la giovane sconosciuta, l’irraggiungibile creatura osservata per strada a sua insaputa, contemplata ed enfatizzata nei suoi aspetti sconosciuti, nella fascinazione del mistero: “A parte i fuggevoli sguardi alle vetrine, procedeva tenendo la testa dritta e ferma, come se guardasse diritto davanti a sé, senza neppure vedere coloro che le venivano incontro. Antonio rallentò il passo, per poter continuare a seguirla” (ib., pos. 940). Dorigo è il classico voyeur che ama contemplare nella penombra, deciso a non agire di fronte all’oggetto del desiderio, anche in vizio della sua pregressa e consapevole incapacità di approcciare le donne in modo sano che non sia quello, rassicurante e scevro da complicanze, del mercimonio. Subito dopo, confortato dalla diretta conoscenza con Laide, il suo sguardo interiore ricerca una sorta di giustificazione moralmente più alta, quando decide di concentrare le sue attenzioni per nulla casuali sulla giovane prostituta, vestendola dell’abito mistico e paragonandola a un’icona sacra: “La bocca era ferma e tesa, molto piccola in proporzione alla faccia, ma importante. Tutta la faccia era compatta per la tensione estrema della giovinezza […] Lui si ricordò di una Madonna di Antonello da Messina. Il taglio del volto e la bocca erano identici. La Madonna aveva più dolcezza, certo. Ma lo stesso stampo netto e genuino” (ib., pos. 848)

L’oggetto sessuale di Dorigo, incarnato da Laide, assume le sembianze mistiche, sacre e rassicuranti di una Madonna prima e, attraverso la dissezione del corpo della giovane, la successiva assimilazione alla ballerina di Degas. Si tratta di una messa in atto psicologica atta a trasformare un oggetto fittizio in un qualcosa degno di essere amato, una sopravvalutazione mentale che muti una prostituta qualunque in un essere all’altezza dell’amore; Dorigo/Buzzati, per avvalorare la tesi freudiana della “sopravvalutazione dell’oggetto sessuale” (Le Aberrazioni sessuali, 1905, p. 464) mette in atto tutte le tecniche possibili per riportare il tutto su un piano estetico, essendo lui stesso architetto ed artista: via libera dunque al seduttivo escamotage di collocare Laide sul palco del Teatro alla Scala come ballerina, poco importa se poi il protagonista cercherà invano di avvistarla alle prove e resterà fino alla fine con il dubbio di averla davvero veduta. Il Teatro resta comunque simbolo ottico d’esibizione per eccellenza, con i suoi arredi, lo scenario, le corde, le complicazioni meccaniche e le passerelle, tutta una simbologia trasposta del complicato reticolo amoroso e la danza una delle armi seduttive per antonomasia, perché “il ballo […] è un meraviglioso simbolo dell’atto sessuale” (Buzzati, op.cit., pos.1046). Tuttavia la seduzione non è mero soddisfacimento carnale, quanto piuttosto messa in atto del gioco che ne regola l’incantesimo e, in questo, la danza sposta il “se ducere” a un livello superiore; infatti, come sostenne Baudrillard: “Sedurre allora è far giocare tra loro delle figure, far giocare tra loro dei segni caduti nella loro stessa trappola. La seduzione non dipende mai da una forza di attrazione tra i corpi, da un legame affettivo, da un’economia di desiderio: è necessario l’intervento di un effetto illusionistico che mescoli le immagini” (J. Baudrillard, Della seduzione. Saggi e documenti del novecento. Milano, 1997. (Titolo originale: De la Séduction. Edition Galilée, 1979, p. 108). Dorigo è ormai coinvolto mente e corpo nella vischiosa trama speculativa ordita da Laide; tenta, in vari modi e situazioni, di legare a sé questa giovane restia e insofferente al controllo e ai divieti, simbolo d’inafferrabile possesso, di ciò che la donna stessa incarna, per ricordare Recalcati: “Una donna per un uomo non è solo l’incarnazione del limite, ma è anche l’incarnazione di tutto ciò che non si può mai disciplinare, sottomettere, possedere integralmente di cui la gelosia, più o meno patologica, può offrire, negli uomini, solo una vaga percezione […]” (Massimo Recalcati, Quel maschio fragile che non accetta limiti, «La Repubblica», 5 maggio 2012). L’ansia di Dorigo che permea l’intero romanzo ci è restituita non solo dalle immagini buzzatiane ma anche da una mancanza d’aria vera e propria dal punto di vista sintattico, senza pause né virgole, dritta al pensiero estremo, alla supposizione continua, all’insano delirio, al soliloquio ossessivo.

Laide fa e Laide disfa, imprendibile, ingestibile, imprevedibile, finanche perfida, Dorigo accetta e subisce, cronica vittima in attesa del gesto mancato, seppur meditato. L’attesa che sfianca, la mente che elabora, il “tumulto d’angoscia suscitato dall’attesa dell’essere amato in seguito a piccolissimi ritardi (appuntamenti, telefonate, lettere, ritorni)” (Roland Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, Einaudi, Torino 1979, p. 40), in pratica tutta la “scenografia dell’attesa: io la organizzo, la manipolo, ritaglio un pezzo di tempo in cui mimerò la perdita dell’oggetto amato e provocherò tutti gli effetti di un piccolo lutto. Tutto questo avviene dunque come in una recita…”, e ancora: “L’attesa è un incantesimo: io ho avuto l’ordine di non muovermi. L’attesa d’una telefonata si va così intessendo d’una rete di piccoli divieti, all’infinito, fino alla vergogna: proibisco a me stesso di uscire dalla stanza, di andare al gabinetto, addirittura di telefonare (per non tenere occupato l’apparecchio); per la stessa ragione, io soffro se qualcuno mi telefona; l’idea che di lì a poco dovrò uscire, correndo così il rischio di essere assente al momento dell’eventuale chiamata riconfortante, del ritorno della Madre, mi tormenta. Tutti questi diversivi sono dei momenti perduti per l'attesa, delle impurità d'angoscia, poiché, nella sua purezza, l’angoscia dell’attesa esige che io me ne stia seduto in una poltrona con il telefono a portata di mano, senza far niente” (Barthes, op.cit., p. 41).

Un umiliante “ad tendere”, un volgere l’animo da girasoli mesti in modo totale e insensato alla mercé dei ritmi e dei capricci altrui. Poi c’è Laide, così giovane e già così esperta di adulte sottigliezze, così adusa alle tranquillizzanti bugie che illudono e irridono. L’amore infermo di Dorigo ci divide nelle due compagini dei sarcastici o dei solidali: “[…] egli è completamente disarmato e solo, nulla esiste oltre la malattia che lo divora, è qui se mai l’unico suo scampo, di riuscire a liberarsi, oppure di sopportarla almeno, di tenerla a bada, di resistere fino a che l’infezione col tempo esaurisca il suo furore” (ib., pos.1653). Eppure, tutto era iniziato con una perversa sfumatura sadica, pagare per ottenere, un mercimonico “do ut des”: “Sadismo forse? Il perverso compiacimento di vedere una cosa bella, giovane e pulita, assoggettarsi come schiava alle pratiche più sconce?” (ib., pos. 815). L’attitudine morale di Dorigo riporta in qualche modo alla definizione freudiana del sadismo: “la sessualità della maggior parte degli uomini si rivela mescolata ad una certa aggressività, all’inclinazione alla sopraffazione, il cui significato biologico potrebbe risiedere nella necessità di superare la resistenza dell’oggetto sessuale anche diversamente che con gli atti di corteggiamento” (Freud, op.cit, 1905, p.470). Dorigo si rivela inizialmente sadico per poi divenire inevitabilmente masochista, nell’inutile e logorante tentativo di assoggettare l’amata donna, risultando invece sottomesso perché “un sadico è sempre in pari tempo anche un masochista” (Freud, op.cit., 1905, p. 472).

Netta e chiara l’importanza della proiezione di Laide nella mente di Dorigo: la giovane è nata e cresciuta sviluppando anche il disincanto che la porta a gestire in modo tanto disinvolto la propria esistenza, ivi compresi la manipolazione e l’inganno, direttamente esperiti dal nostro. Tuttavia, la ricostruzione mentale messa in atto dal protagonista è plasmata e pilotata dalle neurosi dell’uomo stesso: Laide sembra essere il feticcio del desiderio represso che Dorigo ha sviluppato nei confronti delle donne, perché, come ricorda Freud “l’oggetto sessuale normale è sostituito da un altro che è in relazione con esso” (Freud, op.cit. 1905, p. 466); infatti l’uomo ha ricostruito Laide dentro di sé ascrivendola a un livello più alto perché rispondesse alle sue aspettative, perché fosse degna del suo amore pressoché totalizzante. Laide è, in definitiva, una ricostruzione mentale immaginaria di Dorigo, del tutto irreale, simile a quelle bambole gonfiabili che arrivano, in alcuni individui, a sostituire una compagna in carne e ossa, per impossibilità stessa del soggetto a rapportarsi con le donne. La repressione sessuale dunque, marchio indelebile di un’educazione cattolica avversa ai fatti carnali, si riverbera nell’adorazione del Laide-feticcio, vista sia in chiave mistica (Madonna) che in quella erotica (prostituta), similarmente a quanto sostenuto da Bataille: “Le immagini erotiche, o religiose, essenzialmente impongono ad alcuni i comportamenti dettati dal divieto, ad altri i comportamenti opposti. I comportamenti dei primi rispondono alla tradizione. Anche quelli degli altri sono comuni, per lo meno sotto la forma di un presunto ritorno alla natura, alla quale si oppone il divieto. Ma la trasgressione non è «il ritorno alla natura»: essa sospende il divieto senza eliminarlo” (G. Bataille, L’Erotismo. Biblioteca dell’eros. Traduzione di Adriana dell’Orto. Milano 1991, p. 35).

 

Dino Buzzati, “Un amore”, Oscar Mondadori, 2006 ebook.

 

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