Sciolti
La moda ai tempi della crisi
di Francesco Masci
La moda ai tempi della crisi
Recessione e vestiti, un connubio possibile? Breve incursione fra stoffe, merletti, degustazioni e sorprese...
La crisi – ogni crisi – porta con sé un inevitabile raffinamento dei gusti
Eravamo al termine di una degustazione, in piena fase digestiva (piatti vuoti e calici pieni), quando Giuseppe Carbone, grande maestro di ago e tweed, pronunciò questa lapidaria sentenza. Tirando lievemente dal proprio sigaro, disse che non era una boutade da indigestione: da mesi non faceva che osservare gli sguardi dei propri clienti, i sospiri lasciati da chiunque passasse di fronte alla vetrina del suo laboratorio. Non era semplice tristezza. Era la consapevolezza di aver sbagliato scelta, la malinconica ammissione di colpa dell’innamorato deluso.
Pochi giorni dopo mi cadde lo sguardo su un articolo del Gentiluomo Parigino, che narrava la caduta del suo mito d’infanzia. La sua penna sognante si era fatta gelida, mentre condannava al disprezzo un celebratissimo produttore di calzature: è criminale trattare la qualità come zavorra, come un peso inutile da gettar via per inseguire il guadagno, diceva Monsieur Jacomet.
Quando anche il signor Aglietti, bottier extraordinaire, mi confermò l’aumento della propria clientela, non potei fare altro che ammetterlo. Carbone aveva ragione.
Tuttavia, una simile idea si presta con grande facilità a orrendi fraintendimenti. La moderna critica di costume sembra essersi gettata a capofitto nell’onnipresente palude di melassa, tutta madeleine e ricordi genitoriali: e tra le immaginette oleografiche dei “dignitosi poveri” pre-boom, rialza la testa l’appiccicosa retorica classista. Con buona pace della 27 Ora, è perfettamente inutile tirare in ballo l’economia politica, ricordare (ancora) che la Cina è vicina e scagliare frecciate in difesa dell’ambiente. Non serve cercare un tempo che non è mai andato perduto.
È sufficiente procurarsi uno specchio, dopo aver raccolto abbastanza coraggio da guardarci dentro.
Ritengo che il benessere porti con sé una messe di problemi occulti, primo fra tutti una forma grave di cecità psicologica. La nostra estetica diventa confusa. I dettagli si perdono. Riusciamo a malapena a intuire l’insieme, sfruttando il riflesso negli occhi del prossimo. Solo leggendo i suoi sentimenti (sarà invidia o semplice disprezzo?), possiamo comprendere quale sia il nostro aspetto: ma il nostro pubblico deve essere costantemente sorpreso, non sia mai che lo spettacolo lo annoi. Nel gran circo del consumo ognuno si immagina domatore, ma si concia da clown.
Al sopraggiungere della crisi, l’incanto si spezza. Il pubblico svanisce, ritorna ai suoi mestieri, alla vita vera. Rimaniamo soli, con un bel mucchio di stracci “chiazzati di falso oro ormai rosso” (Gautier). È il momento del trauma, il ritorno della vista. Molti non fanno che concentrarsi a fondo, cercando di ritrovare l’illusione; qualcuno riesce invece a riscuotersi, getta via tutta la chincaglieria e inizia a ritrovare se stesso.
Non sta a me indicare se quest’ultima sia la scelta “corretta”. Può apparire ovvio: e in effetti non è altro che l’ennesimo riproporsi del dualismo, tra quanto è giusto e quanto è facile.
Starei aggirando il problema? Beh, posso dirvi che un gentiluomo non avrebbe dubbi: raggiungerebbe con facilità la più giusta delle posizioni.
Dopotutto, cos'è il savoir-faire, se non l'estetica della facilità?
Se questo è il sesso debole
di Simona Taborro
Nelle fabbriche ancora oggi le donne lavorano, proprio come ieri. L'alienazione, la ripetitività dei gesti, le atmosfere raccontate in prima persona. Cronaca di un quotidiano disagio che diventa però anche forza, osservazione, riflessione.
...cos'è, cos'è che fa andare la filanda
è chiara la faccenda son quelle come me...
(Milva, La filanda)
Nell'impianto assumono solo donne, sveglie e precise.
Ci sono i tempi da rispettare. Questa lavorazione è da 10 minuti, questa è da 20, questa massimo 30. I minuti corrono e la corsa contro il tempo riparte a cadenza regolare. Ad ognuna di noi vengono forniti dei documenti su cui vanno riportati gli orari di inizio e di fine. Le ragazze più esperte ti fanno vedere come lavorare per impiegare meno tempo, ma le loro mani corrono veloci e tu quasi non fai in tempo a vedere cosa fanno. Loro, con le loro mani esperte, riescono anche a sorridere mentre lavorano. Tu no. Stai seria e cerchi di non perdere neanche un secondo... anche se poi, alla fine, sei fuori di 10 minuti.
10 minuti, il tempo della pausa. Ogni 2 ore 10 minuti in cui continui a correre per uscire a fumare, per bere un po' d'acqua, per andare in bagno. Impossibile fare tutto. Scegli le urgenze, le priorità, e poi corri. Per uscire bisogna passare attraverso il metal detector. Le scarpe antinfortunistiche suonano, quindi bisogna toglierle e rimetterle tra una porta e l'altra. E quindi corri, corri fuori per 10 minuti, che ormai sono 8, anche senza scarpe.
Le ragazze più anziane dopo qualche giorno che ti vedono cominciano a darti i consigli di sopravvivenza: “non allacciarle le scarpe”, “timbra prima la fine pausa, tanto segna i quarti, e poi esci”.
Ma i consigli iniziano solo dopo, dopo che hai superato i primi giorni di prova, dopo che anche loro si convincono che non sei carne da macello, ma una persona che dovrà sopportare insieme a loro turni estenuanti di 12 ore.
Ritorni alla tua postazione da cui non ti sposterai per le prossime 2 ore. Stai lì da sola, le altre ti sono davanti, dietro e di lato, ma non si può parlare. Penso alla scuola, penso che nessun professore riesce ad ottenere così tanto silenzio ed attenzione neanche per 1 ora... qui ci riescono per 12. Ogni tanto qualcuna arrischia una battuta, rapida, veloce, per non essere bloccata prima dalla voce del supervisore che urla “silenzio”.
Per la prima volta ho scoperto il senso più profondo del termine alienazione. Me lo ripeto e cerco di distillarlo per poterlo comunicare forse, un giorno, ai miei studenti. Ripenso, ad esempio, al saggio di Fusaro Bentornato Marx: «Marx afferma che, nelle fabbriche, l'operaio è vittima di un'alienazione che si estrinseca in quattro modalità differenti: a) l'operaio si rapporta con il prodotto del suo lavoro come con un oggetto estraneo e ostile; b) l'operaio non considera il suo lavoro una parte reale della sua vita, ma fa di tutto per evitarlo; c) l'essenza specifica dell'uomo, vale a dire la sua natura comunitaria, gli viene sottratta nel lavoro; d) l'uomo si sente estraniato nei confronti dei sui simili». Poche ore davanti a quel tavolo di lavoro e le quattro lettere dell'elenco non sono più formule da imparare a memoria, ma sensazioni forti che si vivono dentro e fuori la pelle, tutte, contemporaneamente. Nel fare questa riflessione la mia mente si libera.
Mi sento un po' colpevole nei confronti delle altre, che nelle loro solitudini, forse, non hanno le risorse per, come direbbe Hegel, giungere all'Aufhebung, alla sintesi che permette di superare il momento della negazione pur conservandola. Un superamento che avviene nello spirito anche se non nella pratica.
Il mio corpo e tutta me stessa sono ancora lì, le mie mani continuano a correre, la mia mente deve continuare a vigilarle per evitare gli errori, e penso che in fondo Marx avesse ragione nel criticare l'idealismo tedesco applicato al mondo della fabbrica. Se lo spirito non ha avuto modo di svilupparsi, come può apparire e manifestarsi nel momento dell'alienazione? Regalo un sorriso a tutti gli sguardi che incontro, mi sembra l'unica strada per restituire umanità. Mi vengono restituiti, raggianti. Non è la stanchezza che distrugge ma l'alienazione. Sorridere è umano, rende liberi.
Man mano che le ore passano i volti si fanno sempre più stanchi, ma nei 10 minuti di pausa la maggior parte sorride, ride, scherza, sdrammatizza. I 10 minuti, il tempo di una sigaretta. Mi torna in mente un altro saggio di Fusaro, Essere senza tempo, in cui scrive che nella misura in cui “il tempo stringe”, diventa indispensabile ridurre al minimo gli intervalli di tempo libero, accorciando il più possibile anche le pause dedicate al fumo: in particolare, nella storia del fumo questa fretta si manifesta nella semplificazione e nell’abbreviazione dei procedimenti usati per fumare e nella sequenza dei diversi strumenti, che vanno dalla pipa al sigaro, e da questo alla sigaretta. La sigaretta si trasforma in una nuova e uniforme unità di tempo. Il “tempo di una sigaretta”.
Ed è nei momenti di pausa, o poco prima di attaccare il lavoro, che scopri piccoli pezzetti di vita dietro quei volti: le famiglie, i figli, le case, i cani, i gatti. Ognuna di loro è un universo. Un universo confusionario, complicato, spesso privo di uomini, che quando ci sono sembrano essere più un problema che una risorsa. Donne separate con figli da crescere nelle 12 ore fuori dal lavoro. Donne sposate che nelle 12 ore fuori dovranno risistemare la casa per il marito, preparargli i pasti, lavare i piatti. Eppure sorridono. Altre hanno rinunciato agli uomini e si amano tra donne. Vivono tranquillamente la loro sessualità e nessuna mostra segni di disagio. Mi domando: se fossimo in un luogo di lavoro maschile, come reagirebbero gli uomini alla presenza di omosessuali? E chissà perché mi convinco che sarebbe diverso.
Torno dopo più di un mese nello stesso impianto. Molte delle ragazze infrangono il tabù del silenzio per darmi il bentornata, per dirmi che gli sono mancata, per sorridermi. Mi sento umana e più che umana.
Simona Taborro
La dittatura del video
di Sara Meddi
Videocracy – Basta apparire è un documentario che incide, penetra come un coltello. Racconta gli orrori della televisione italiana, con il suo avvilente sottobosco femminile esibito in vetrina. Donne disposte a tutto. Ovviamente, non ha fatto piacere al ghota di Rai e Mediaset che ne hanno ostacolato la pubblicità. Eppure siamo riusciti a vederlo lo stesso. E perfino a intervistare Erik Gandini, il suo implacabile autore.
di Sara Meddi
Sara Meddi intervista Erik Gandini, regista del documentario Videocracy – Basta apparire
Erik Gandini è nato a Bergamo nel 1967 ma vive in Svezia dall’età di diciott’anni. Documentarista di successo ha esordito nel 1994 con Raja Sarajevo, racconto in presa diretta della vita di un gruppo di ragazzi nella Sarajevo in guerra, da allora ha vinto numerosi premi e riconoscimenti. Videocracy – Basta apparire è il suo ultimo lavoro, un’analisi senza filtro e senza bandiera della televisione italiana, un horror movie come lo definisce orgogliosamente il regista. Un film di cui Rai e Mediaset si sono rifiutate di trasmettere il trailer, e non perché in esso c’è un attacco al governo, o almeno non solo, ma perché Videocracy parla di ognuno di noi, dei nostri valori sociali, dei nostri idoli e delle nostre ambizioni. Se sarete abbastanza coraggiosi da riconoscervi (anche solo un poco) nei consumatori passivi di questo show business vi scoprirete, dopo Videocracy, più liberi di chiudere il telecomando nel cassetto.
Nel tuo documentario tu hai preso come figura esemplificativa della persona che desidera entrare in televisione un ragazzo, Riccardo, e questo ragazzo a un certo punto del documentario si lamenta che per le ragazze è molto più semplice perché basta scendere a qualche compromesso. Durante le ricerche che hai fatto per il film e durante le riprese del film hai avuto modo di farti un’idea su questo luogo comune del “compromesso”? Secondo te corrisponde a verità?
Nel caso di Riccardo per me era molto interessante che lui si considerasse come vittima rispetto alle donne, dando l’immagine quasi di una lotta fra poveri. Chi, come me, guarda le televisione da fuori vede le donne veramente come le grandi vittime, esibite come cimeli, come esseri non pensanti in questi programmi, devono stare lì esclusivamente per motivi estetici. Che lui vedesse questa presenza femminile come una minaccia alla sua carriera dà l’idea come l’anormalità diventa normalità, di fatto la sua è una logica contorta quando dice ah, per le donne è molto più facile perché ce ne sono molte di più rispetto a noi ragazzi. La cosa che mi interessava di più era che se ci fosse stata una ragazza a dire io scenderei a compromessi sarebbe stato scontato, facile, quasi da stereotipo, invece è interessante che sia un ragazzo a dirlo. A un certo punto lui dice io sì che sarei disposto a fare un compromesso, una volta, perché questo mi garantirebbe una carriera in televisione. Questo suo essere disposto a sacrificarsi, come dice lui stesso, è chiaro che è un sentimento diffuso tra tutti i giovani che “devono” capitalizzare su quello che hanno. Se il corpo è l’unica cosa che hai per avere più potere nella loro vita, l’unica cosa sulla quale investire per il tuo futuro, è chiaro che la metti in gioco. Ma è anche chiaro che è molto triste perché, nel caso specifico della televisione italiana, è chiaro che dietro questa logica c’è un sistema totalmente patriarcale basato sull’idea che il pregio di una donna è quello di eccitare gli uomini. Mi è capitato molte volte in questi mesi di fare delle interviste con dei giornalisti stranieri che mi chiedono come mai le donne italiane accettano il sogno della velina o l’idea di andare in televisione per fare carriera? Io cerco di trasmettere l’idea di “normalità” che c’è qui, ovvero che dopo trent’anni diventa “normale” per una donna in Italia, vedendo come chi ha fatto carriera in televisione ha avuto tutti i privilegi che ci sono e in più la possibilità di fare altre carriere (in politica per esempio), che la televisione o l’esporre il proprio corpo in televisione diventi il salto in avanti per realizzare i propri sogni. Il sogno non è fare lo “stacchetto” delle veline, lo “stacchetto” diventa un mezzo. Se vuoi fare il ministro degli esteri anziché andare all’estero a fare un corso di scienze politiche ti conviene andare in televisione, questa è una logica contorta che gratifica solo la metà della popolazione, ovvero gli uomini.
Vivendo all’estero da tanti anni come paragoni il modello della donna nella televisione svedese rispetto a quello della televisione italiana?
Non è solo un modello diverso ma è all’antipode, perché la Svezia in questo momento è coinvolta nel progetto, che è abbracciato da tutti indipendentemente dall’appartenenza politica, di creare una società basata sull’uguaglianza dei sessi. Questo è un progetto fortissimo in ogni strato della società per cui si cerca in ogni sede di avere il 50% di uomini e il 50% di donne. È così anche nel cinema, l’istituto cinematografico svedese che è l’ente che finanzia molti progetti cinematografici svedesi, soprattutto quelli “non commerciali”, ha deciso qualche anno fa di porsi come obbiettivo quello del 40% di film prodotti e diretti da donne. E poiché non è facile trovare così tante donne che fanno questo mestiere ogni anno l’istituto cinematografico si vergogna per non aver raggiunto il risultato delle “quote rosa”. Così quando il mio film è uscito in Svezia l’immagine della donna italiana in televisione ha sconvolto più che mai, più che in ogni altro paese, perché in Svezia l’idea che una donna sia usata in uno studio televisivo per essere svestita è semplicemente improponibile, così come che la conduzione dei programmi sia fatta solo da uomini, perché è molto forte l’idea che in ogni ambito, culturale o politico, ci debba essere una proporzione di metà donne e metà uomini. Posso farti un esempio di come sia forte questo sentimento in Svezia: un paio di anni fa su un canale commerciale della televisione svedese è andato in onda un programma che ha fatto molto scalpore, “Mogli fedeli a Hollywood”, in questo programma venivano riprese queste donne sposate a ricchi uomini residenti a Hollywood, insomma donne “molto poco svedesi”. Una di queste donne, Anna Anka, è diventata molto famosa in Svezia perché in questo reality aveva dichiarato, cito testualmente, che una moglie deve essere sempre disponibile se il marito vuole fare sesso, e per questa cosa è diventata famosa come “un’espatriata molto strana”, perché nessuna donna svedese avrebbe mai detto una cosa del genere.
In un’intervista a Current hai dichiarato di essere stato contento all’uscita del film che questo fosse stato considerato come un “horror movie” perché questo significava che qualcuno ancora si scandalizzava delle situazione della televisione italiana, in particolare delle donne nella televisione italiana. Secondo te guardando questo film che idea si può fare il pubblico della femminilità italiana?
Guarda è ricorrente in tutti i paesi in cui il film è uscito questo tipo di interpretazione che dice ah, sembra uscito da un altro pianeta; e anche la componente della “paura” è ricorrente, la gente che ha visto questo film l’ha definito un “horror movie”. Sono contento perché è quello che volevo trasmettere, perché è facile nell’analisi che si fa all’estero dell’Italia parlare dei processi a Berlusconi, queste cose di tipo più giornalistico; a me interessava parlare dell’Italia attraverso le piccole cose di costume e di morale non attraverso i “grandi scandali” o i “grandi eventi” come il bunga-bunga ecc. Comunque posso farti l’esempio di una proiezione a Londra, c’è stato un dibattito alla fine del film e il pubblico si è chiesto come mai la donna nella televisione italiana ha un ruolo così “scemo”?; una ragazza italiana, una delle tante accademiche trasferitasi all’estero, ha risposto quando vivi in Italia e lo vedi tutti i giorni ti abitui e diventa normale. E questa è una cosa frequentissima nel mio lavoro di documentarista, sia che tu ti stia occupando di Iraq o di Guantanamo o di qualsiasi altra cosa, le persone che fanno e vedono le cose dall’interno trovano quello che fanno assolutamente normale. L’essere umano è così, si adatta, ed è chiaro che se per trent’anni l’immagine della donna è stata quella della “velina” questo diventa normale. Ed è anche un grave segno di chiusura questo. Le riprese del film seguivano una prassi, dovevamo fare richiesta per riprendere le dirette dei programmi, fare le interviste ecc; molte volte mi è successo che mi dicessero ah, è chiaro che voi volete venire a filmare la televisione italiana perché è la televisione più bella del mondo, e io dentro di me pensavo questa è davvero una “bolla”, se tu per esempio scrivi italian tv su You Tube ti rendi conto che è un genere; viene fuori tutto quello che è più bizzarro, volgare, kitsch ecc.
Tu hai parlato della televisione commerciale degli ultimi trent’anni ma io ho l’impressione che anche prima, sin dalla nascita della televisione in Italia, la donna non sia mai stata qualcosa in più di una “velina”, probabilmente erano delle veline più vestite, più garbate, meno volgari. E la peculiarità della televisione italiana secondo me è che non ha mai cercato una duplicità, è sempre stata molto maschile.
Sì, molto. E infatti la responsabilità di questo non è solo di Berlusconi. La responsabilità di queste cose è di tipo “redazionale” direi, chi lavorava a questi programmi in tutti i corridoi, Rai e Mediaset, ha una grande responsabilità che non si sono mai presi. Io posso citarti questo regista del Grande Fratello, Fabio, uno anche di “sinistra”, che mi ha detto noi che siamo la parte creativa della tv commerciale abbiamo questo detto tra di noi “la televisione è bello farla, è brutto guardarla”. Questo è interessantissimo secondo me, questa frase raccoglie tutto un approccio tipico di chi ha fatto le cose peggiori nella storia dell’umanità, tutte queste persone dicono io ho fatto solo il mio lavoro.
Secondo te quale modello di informazione in questo momento può essere alternativo alla televisione in Italia?
Senza dubbio internet. Questo sembra un po’ “l’acqua calda” ma è chiaro che è così, il canale televisivo più grande del mondo è You Tube. Adesso internet in Italia ha una diffusione più bassa rispetto al resto dell’Europa ma è chiaro che sta crescendo e può avere la stessa esplosione che ha avuto la televisione commerciale nei primi anni ’80, che ha avuto successo perché offriva quello che la gente voleva e adesso sta succedendo lo stesso con internet.
In nome del padre
di Viviana Emilia Spada
Tutti conosciamo e amiamo Hermann Hesse. Ma c’è un “fan” particolare che, da anni, cura la gestione di un’eredità significativa e complessa. Lui si chiama Heiner Hesse, ed è suo figlio. Storia di un incontro e di una testimonianza che mescola affetto e memoria…
Viviana Emilia Spada
Molto spesso nella vita si ritiene fortunato chi ha un buon lavoro, chi è ricco e possiede molte cose, chi in ogni caso ha benessere materiale; io forse non sempre sono stata favorita dalla sorte da questo punto di vista, ma sicuramente ho avuto la ricchezza di incontrare o corrispondere con tante persone davvero eccezionali, più o meno famose, ma tutte dotate di una grande spiritualità interiore, pur se appartenenti a categoria, ceti sociali, razze e filosofie o religioni diverse…
Tra queste Heiner Hesse, figlio di cotanto padre Hermann, premio Nobel per la letteratura nel 1955 e autore di libri famosissimi tra cui ricordo tra tutti Siddharta, Narciso e Boccadoro, Il lupo della Steppa, Demian, Il gioco delle perle di vetro e tanti altri ancora. Questo incontro avvenne nell’aprile del 1993 e nel 1994 scrissi poi il romanzo Da Hermann Hesse al Paese delle Nevi che vide le stampe nel novembre 2000 grazie all’editore Roberto Romiti di Blu International Studio di Borgofranco d’Ivrea.
Per gli appassionati di Hesse, ma non solo, ecco un estratto dal mio libro con l’intervista integrale a Heiner Hesse.
Avevo portato con me un piccolo registratore e, prima di attivarlo, mi rivolsi a Heiner per chiedergli se questo non lo disturbava: “Vorrei registrare la nostra conversazione, poiché non voglio perdere nessuna delle sue preziosissime parole, se a Lei non dà noia”.
Molto cortesemente egli mi sorrise e mi rispose che potevo metterlo in funzione. Ne seguì il dialogo che riporto.
Oltre che seguire e curare l’opera di suo padre e questo libro bio/fotografico è anche lei scrittore? O ha seguito un’altra strada nel corso della sua vita...
Io ho scritto qualcosa per questo libro, ma non ne sono molto soddisfatto perché vi sono stati stampati molti errori riguardanti luoghi, date, ecc. ...
Ho fatto un grande lavoro di correzione e la casa editrice non mi ha mandato nemmeno una copia del libro! Poi ho scritto loro una lettera, dopo circa due mesi, chiedendo come mai non mi mandavano nulla e solo allora mi hanno inviato una decina di copie del lavoro. Io non sono molto bravo a leggere l’italiano, ma su date e scambi di collocazione di case, per esempio quella di Gaienhofen, non posso sbagliarmi.
Ah! Errori di questo genere, addirittura?! A proposito di case! Lo scorso anno mi sono recata a Montagnola e, oltre ad aver visitato la famosa Casa Camuzzi, ho cercato e credo di aver individuato l’altrettanto celebre Casa Rossa ma, mi sbaglio o, forse, non è più rossa?
Infatti! Non è più rossa; ora è bianca! Il nuovo proprietario non amava molto il fatto che, ogni giorno, arrivasse della gente per vedere la casa e il giardino
Ma questa casa è quella che si trova in mezzo a un bosco? Io avevo visto una casa rossa, ma era troppo al centro del paese per essere quella dove era vissuto Hermann Hesse
Sì, esatto! È proprio in mezzo al bosco; ora vedo se ho una foto dell’entrata, ma a ogni modo c’è un cancello all’ingresso dal quale si può accedere con l’auto (da parte dei proprietari, s’intende); ma è tutto molto diverso e cambiato da com’era allora!
Dunque, era proprio quella che supponevo; lei è mai vissuto a Montagnola?
No, mai! Vi sono stato però molte volte per incontrare mio padre
Lei abitava già qui?
No, qui ci abito soltanto da dodici anni; prima stavo a Zurigo
E di che cosa si occupava?
Anni fa facevo di mestiere lo ‘Schaufenster Decorateur’, cioè il vetrinista e poi, da venticinque anni a questa parte, mi occupo di questa eredità di gestione per tutta la letteratura di mio padre.
Anche dei diritti?
No, dei diritti si occupa direttamente la casa Editrice Suhrkamp, ma ci sono molte persone, per esempio germanisti, che studiano l’opera di mio padre e vengono qua da me a richiedere materiale e notizie.
Lei è l’ultimo rimasto della famiglia, o ci sono altri parenti?
No, c’è ancora mio fratello Bruno.
Più giovane?
No, più vecchio di due anni, ne ha ottantasei!
Lei è il secondo figlio?
Sì, poi c’era anche Martin, il terzo, che è morto da qualche tempo.
Avevo sempre letto che fosse Bruno quello morto e che Martin fosse ancora vivo.
Eh, in questi libri non si può mai sapere con esattezza cosa scrivono...
E’ molto difficile avere la possibilità di verificare o di attingere notizie direttamente, come posso fare adesso io con Lei; per cui bisogna quasi sempre accontentarsi di ciò che è riportato nei testi disponibili…
Ma io penso che molto spesso siano gli editori, che non curano abbastanza l’esattezza degli scritti e delle fonti.
Dunque dicevamo: siete rimasti solo voi due fratelli o ci sono figli e nipoti che potranno poi continuare la vostra opera?
Ah, sì, ci sono figli e ci sono nipoti.
C’è insomma un po’ di discendenza, bene!
Oh, sì, sì, quattro nipoti e due figli
Lei vive qui solo con Una?
Sì, di solito sono qui solo, ma ora c’è anche mia figlia più grande, avuta dal primo matrimonio, e starà qui per qualche settimana.
Quindi vengono a trovarla?
Sì, spesso; ora mia figlia riposa un poco perché ha l’influenza, ma tra un po’ forse arriverà...
Mentre conversavamo, fuori, in veranda e sulla terrazza, proseguiva l’andirivieni di uccellini e gli chiesi allora cosa mettesse in quel sacchetto giallo in cui tutti gli uccellini vengono a mangiare.
Ah, si compra questo. Sono dei semi con del grasso. No, non penso ci sia anche del miele, sarebbe troppo caro!
Vive proprio in un posto come me lo immaginavo, come dove viveva suo padre, in mezzo alla natura...
Eh già, bello davvero! Ma ditemi, cosa posso offrirle, un bicchiere di vino, un caffè o cos’altro?
Nulla, non si disturbi, o magari dell’acqua.
Ah, no! L’acqua non fa bene, fa arrugginire e poi questa non è buona!
Beh, allora un buon bicchiere di vino va bene!
Heiner, contento, si alzò e scese in cantina, dalla quale tornò con bottiglia e bicchieri. Brindammo e continuammo la nostra conversazione.
A suo padre piacevano i vini della Valtellina, perlomeno così hanno scritto.
Valtellina? Sì, ma lui preferiva un vino dell’Alsazia, bianco, quando era giovane. Poi, in seguito, ne preferì uno che era prodotto da un suo amico e mecenate della Svizzera tedesca e che ogni anno lo riforniva di questo vino rosso abbastanza chiaro.
Del Giura o del Bodensee?
Verso il Bodensee, a Kiesbergschloss. E’ un bel castello!
In questo caso, il Signor Heiner aveva dato la sua risposta in tedesco, poiché non rammentava come si dicesse ‘castello’ in italiano. Mi complimentai comunque per il suo ottimo italiano, avessi saputo io il tedesco come lui la nostra lingua; egli, come sempre, nella sua infinita modestia, si schernì e gli chiesi:
E’ mai stato in Italia? In vacanza?
Sì, ma non molte volte. Un po’ in Toscana...
Suo padre amava molto l’Italia. Ha scritto molto sul nostro Paese.
Sì, è vero!
Proprio l’altro giorno leggevo, non so se in ‘Piccole gioie’, di quel suo esperimento sui vini; e c’era questa parte in cui si descriveva come lui e il suo amico si erano destreggiati per farsi rifornire gratuitamente dai vari produttori locali.
Sì, sì, è in ‘Piccole gioie’! - rispose ridendo Heiner.
Brindammo nuovamente con il nostro vino, ricordando quell’astuzia di suo padre e augurandoci reciprocamente ‘salute’; in quel mentre, entrò nella stanza la figlia un poco influenzata e anche lei si versò un bicchiere di vino. Tutti convenimmo che, sicuramente, essendo noto che l’alcool uccide i microbi, quella sarebbe stata un’ottima cura per la sua infreddatura!
Il clima di allegria e ilarità era davvero magnifico. Poi Heiner disse: “Mio figlio porta spesso un ottimo vino dalla Croazia.”
Dalla Croazia?
Sì, lui va spesso come volontario. Ora è là, ma solo per due settimane. E’ andato a portare una macchina piena di generi di conforto per le donne e i bambini che sono rimasti là, in mezzo alla guerra. Mi ha portato da lì un vino tipo il Vin Santo della Toscana.
Ah, molto forte!
Sì, sarebbe stato ottimo ora per mia figlia!
Seguì uno scambio di battute sulle qualità del vino; dopodiché il colloquio continuò con Heiner che disse: “Le lingue non s’imparano studiandole, ma parlando con la gente!” Io replicai: “Sì, è vero! Ed è un mio grande rammarico quello di non conoscere il tedesco, sia per non poterle facilitare la conversazione, sia per non poter leggere l’opera di suo padre così come è stata scritta, in originale; e, si sa, le traduzioni a volte lasciano un po’ a desiderare...”.
Sì, in effetti c’è sempre una differenza tra l’originale e la versione, ma io penso che queste opere oggi, in Italia e in Francia, siano state ben tradotte; lo sono state anche in America e in Inghilterra, ma non sono molto buone!
No?
C’è differenza fra America e Inghilterra, non c’è un medesimo traduttore. Sono diverse perché le lingue, pur essendo simili, sono anche molto disuguali.
Già...
Anche la distribuzione è differente per l’Inghilterra e i Paesi europei, mentre l’America è davvero un altro mondo...
Senta, io avrei una domanda, o meglio, avrei un po’ di domande da farle; ma il fatto che più m’incuriosisce riguarda ciò che suo padre ha scritto in molti libri e che contiene una filosofia di vita molto profonda, molto spirituale, e ho sentito dire che lui aveva avuto un Maestro Zen; volevo sapere se questo è vero e se era in qualche modo ‘buddhista’ o se, invece, aveva una filosofia sua personale.
Per un certo periodo lui ha studiato molto il Buddhismo e proseguì per molti anni, cominciando dal 1919, dopo il viaggio in India. E poi lui ha detto più di una volta: ‘Io sono per metà buddhista’, ma non lo era veramente.
Lo Zen lo ha conosciuto quando era già molto vecchio tramite un suo parente, che aveva tradotto Die Zen di Bi Yen Lu, guardo se lo trovo!
Cercò, lo trovò e mi mostrò i due bellissimi volumi; e mi spiegò: “Questo è comunque Zen cinese, non giapponese, e l’ultima opera che mio padre ha scritto è stata proprio una piccola cosa sullo Zen”.
Ah, un libro sullo Zen!
Non esattamente un libro; più che altro un piccolo essai, un suo pensiero in poche pagine.
Comunque, tra lo studio del Buddhismo e lo Zen c’è stata una fase in cui era entrato in contatto con la psicoanalisi, non è vero? E alla fine, lui che opinione aveva di questa, siccome mi sembra che, dopo la conclusione della fase psicoanalitica, fosse tornato a se stesso, no?
La psicoanalisi era per lui molto importante. La giudicava un grande successo, sia per sé che per l’umanità. Quasi nei medesimi anni lui ha anche studiato il cinese, Lao Tze e Confucio. Confuzius in tedesco, Confuze in cinese. Ma ora tutte queste parole sono state cambiate anche dai cinesi; è cambiata la pronuncia: una volta si diceva Pechino, ora Peking, o Mao Tze Tung e ora Dong, non capisco perché!
Poi, suo padre aveva avuto questi genitori pietisti missionari in India e, forse anche per questo motivo, si era avvicinato all’Oriente?
Sì, e posso mostrarle un libro del quale in questo momento mi sto occupando un po’; è del mio bisnonno.
Ah, di Gundert, tutti i suoi viaggi in India?
Sì, e ora a maggio faranno una grande mostra a Stoccarda, con molte persone che verranno dall’India, specialisti nello studio della lingua indiana.
Eh già, perché il bisnonno aveva redatto il famoso dizionario...
Sì, e anche la grammatica.
Sfogliammo il libro e Heiner mi disse che era il catalogo della mostra: “Davvero un bel catalogo!”, fu il mio commento.
Ah, ecco Maulbronn, il famoso seminario dal quale suo padre era fuggito!
Sì è proprio quello; ma voglio mostrarle qualcosa di indiano: ecco, per esempio, questo è un manoscritto!
Ah, un manoscritto del bisnonno Gundert! Ecco, vede, io quest’estate vorrei andare in vacanza in Nepal e in Tibet e per questo io volevo vederla prima di partire, perché io da Hermann Hesse ho imparato ad avvicinarmi ad un mondo più spirituale.
Ma adesso credo sia un po’ difficile andare in Tibet, no?
Sì, è abbastanza difficile dall’Italia, ma dal Nepal dovrebbe essere più semplice!
A piedi?
Sì, trekking.
Trekking, ah!
Sì, ho solo un volo andata/ritorno da Francoforte a Kathmandu; tutto il resto lo programmerò lì, anche se avrò solo un mese di vacanza e questo è un peccato!
Eh sì, un mese è poco per andare e tornare... così!
Purtroppo il lavoro dipendente è così, più di un mese non si può; mentre a me piacerebbe avere sei mesi, un anno, vedremo per il futuro... Un’altra cosa volevo chiederle: suo padre ha scritto tantissimi libri. Io ne ho molti e ancora me ne mancano; ha fatto acquerelli, ha viaggiato tantissimo, s’intendeva di botanica, di farfalle, eccetera, ma non dormiva mai? Come riusciva a fare tutte queste cose?
Lui dormiva poco! Aveva molta difficoltà ad addormentarsi e lavorava quindi spesso la notte.
Perché ha scritto davvero molto...
Eh sì, gran parte delle sue opere le ha scritte di notte.
Ricordai principalmente la poesia ‘Im Nebel’, cioè ‘Nella nebbia’. Heiner disse: “La più conosciuta e la più amata...”. Una lirica sulla solitudine, sull’uomo solo, in sostanza. La poesia dice ‘E’ strano camminare nella nebbia...’.
E visto che a Milano, ora meno, prima c’era sempre tanta nebbia...”. Heiner replicò: “Ma è un’altra nebbia!” E io gli feci eco dicendo: “Sì, è un’altra nebbia. E’ brutta!”
“Ricordo che la nebbia milanese mi faceva pensare a quella poesia. La cosa bella è che è un’ode alla solitudine dell’uomo; però non è mai senza speranza e questo è il lato positivo; non è distruttiva né negativa, ha sempre questo fatto che, comunque, ne esci e questa è una delle cose che amo di più in Hesse, oltre al fatto che i suoi libri sono scritti molto bene e sono belli”. Heiner replicò: “E’ vero, nei libri di mio padre, come nella sua vita, c’è sempre la speranza che ne usciremo!”
Concordammo che era questo il grande tesoro contenuto negli scritti di Hermann Hesse: un’infinita e grande speranza per il futuro!
Heiner disse ancora: “Ed è anche la grande differenza che c’è fra la sua opera e quella di altri scrittori suoi contemporanei. Kafka...
Musil, anche?
Non ho letto Musil, ma ho letto ciò che scrisse su mio padre e devo dire che non è stato molto simpatico... Lui venne nel 1938 in Svizzera, quando a Vienna arrivarono i nazisti e il primo giorno lui scrisse una cartolina al mio papà (che abbiamo nell’archivio) dove dice così e così, ma infine parlava male di mio padre!
Beh, certo erano due personalità completamente diverse...
Sì, io capisco un po’, ma è anche una forma di gelosia, credo, poiché Musil non è mai arrivato con la sua opera, aveva molte difficoltà.
Inoltre, lui faceva molta fatica a scrivere mentre Hesse, Böll, Mann, avevano una grande facilità di scrittura, evidentemente. Credo scrivessero molte pagine ogni giorno, no?
Sì, ma non Mann. Lui non scriveva molto facilmente, doveva lavorare molto...
Ah sì? Costruiva faticosamente? Suo padre, al contrario, scriveva facilmente...
Oh sì! Mann per scrivere un libro come questo ne leggeva uno grande come quest’altro, e poi un altro e un altro ancora! Aveva una lunga fase preparatoria; come si può dire, era molto diligente. - e rise forte!
Diligente?
Sì, era molto bravo! Io l’ho sentito leggere un capitolo del ‘Felix Krull’ a Zurigo negli anni ’30…
Ma erano amici Hesse e Mann?
Sì, erano molto amici e io ero amico dei due piccoli Mann, Mady e Golo. Erano in tutto cinque o sei fratelli ma credo sei. La figlia era scrittrice e anche attrice di cabaret.
E ora, questa Europa, questa Iugoslavia, cosa pensa di tutto ciò?
Ho letto ieri un lavoro di uno studioso dell’opera di mio padre, che si occupa anche di bibliografia. Lui ha scritto un essai abbastanza interessante sulla questione dell’Europa di fine millennio ed Hermann Hesse. E’ un testo in cui mio padre parla abbastanza male dell’europeo, che possiede soltanto l’intelligenza applicata alla tecnica e niente di più!
E’ forse per quello che poi lui ha cercato qualcos’altro in Oriente? L’anima? L’Europa era troppo limitante per questa ricerca.
Sì certo, là si trovano più spazi, più possibilità.
Ma l’atteggiamento di suo padre durante le due guerre? Durante la prima era stato riformato per la miopia agli occhi, non è vero?
La malattia degli occhi, sì! Lui aveva già difficoltà a vedere da quando aveva vent’anni; aveva subito anche delle operazioni, ma non erano state fatte abbastanza bene.
Infatti, sin da giovane si è sempre visto raffigurato con i suoi tipici occhialini...
Già, già...
Comunque, per tornare alla guerra, rispetto a questa lui era sempre stato contrario e anche se non avesse avuto problemi di vista lui, da buon pacifista, non vi avrebbe partecipato, no?
No! Nell’anno 1914 lui pensava, come tutti gli altri, francesi, inglesi, tedeschi, che la guerra era un “fatto” e questo comportava che alla guerra si doveva andare e anche lui andò a Berna all’Ufficio Reclutamento per partire.
Io pensavo il contrario...
No; infatti, per due mesi, lui fu convinto di poter partire ed era per lui importante partecipare e vincere; poi per via del problema agli occhi fu riformato, ma in seguito, quando seppe che i tedeschi erano entrati nel Belgio, cambiò opinione. E poi ha scritto quell’articolo, nella ‘Zurich Zeitung’, che divenne in un secondo tempo molto conosciuto perché lui vi scriveva che, forse, la guerra era necessaria, ma molto probabilmente non era necessario che gli intellettuali come lui vi prendessero parte. Oggi si dice ‘schreibti mörder’ in tedesco, in altre parole gli ‘assassinii a tavolino’. Quelli che dichiarano le guerre stanno bene a casa loro e mandano gli altri a combattere. E le guerre sono sempre state fatte, più o meno, così!
Ma poi suo padre, appunto, dalla Svizzera, si era occupato di tenere la corrispondenza con chi stava sui campi di battaglia; scriveva articoli per i soldati, scriveva a loro, eccetera...
Lui scriveva su una rivista che si chiamava... non ‘Quo Vadis’ (risata ironica e commento sulla sua cattiva memoria...), ma ‘Vivos Voco’, cioè ‘chiamo i vivi’, in cui aiutava e incoraggiava le persone.
Tra l’altro, lui teneva anche molta corrispondenza. Ogni tanto, nei suoi racconti, diceva di ricevere lettere da parte di ammiratori, scrittori o aspiranti tali...
Heiner Hesse si alzò e andò a prendere quattro volumi esclusivamente di lettere di suo padre e disse: “Sono quattro e, forse, sono solo un quarto o un terzo di tutta la corrispondenza prodotta. E poi c’è un’altra parte con le recensioni che scriveva per guadagnarsi da vivere e questo è un lavoro che ha fatto per molto tempo”.
Mi hanno sempre colpito tantissimo gli scritti di suo padre sui suoi rapporti con le donne e con l’amore. Lui diceva che era forse più innamorato dell’idea dell’amore, che non delle donne che incontrava nella sua vita. Non è vero?
Penso sia vero, sì!
Sa, io amo molto suo padre perché mi ritrovo parecchio nei concetti che esprime, sicuramente in un modo così poetico e così grande come io certamente non sarei mai in grado di fare; però a volte leggo e penso: ‘Caspita! Sono gli stessi miei pensieri!’, e lui, naturalmente, li ha saputi rendere troppo chiaramente e bene... Certo ha influenzato molte generazioni!
Lui aveva molto sentimento e, soprattutto, molta ‘Verständnis’, comprensione.
Possibile; era del segno del Cancro, e lei Signor Hesse, di che segno è?
Pesci!
E’ un bel segno, anch’esso molto sensibile!
(Ridendo) Non troppo, scappano i pesci...
Come quelli nel torrente? Ma ce ne sono?
Sì, sì ma sono piccoli!
Ci saranno anche dei funghi nella zona?
Non ne ho mai trovati molti; ce ne sono di più a Nord e a Ovest, qui siamo troppo a Sud, troppo poco umido...
Comunque questo è un posto stupendo; come ha fatto a trovare questo mulino?
Un amico mio, che abita nell’altro mulino, mi ha detto che il proprietario di questo non lo voleva più e lo vendeva.
Una bella informazione...
Sì, ma era completamente in rovina!
Ha rifatto molto?
Sì, tetto, pavimenti...
Ma ora è davvero ben ristrutturato e molto caldo e accogliente come ambiente, con tutto questo legno; ed è molto bella anche la soluzione che ha trovato per i libri...
I libri erano stati disposti su dei ripiani pensili di legno a loro volta attaccati alle travi di legno del soffitto. Una soluzione molto simpatica e originale.
Più che bella, una necessità!
Anche per me, vivendo in una mansarda, è sempre stato un problema quello dello spazio, ma ora copierò da lei e, finalmente, saprò come sistemare tutti i miei libri. Già li vedo, tutti i volumi di Hermann Hesse, ben allineati e in bella vista! Prima dei quarant’anni vorrei anch’io trovare un posto come questo dove vive lei! Sa, io sono nata in montagna, nel Veneto, e spesso sento il richiamo della mia terra e Milano è troppo stretta, vita sempre di corsa, il lavoro, l’aria, l’acqua, il cibo, tutto un insieme di cose che...
Eh, sì, la capisco!
E’ un gran disastro; c’è una situazione difficile, tutti questi scandali, questa disoccupazione...
Questo comunque non soltanto in Italia, ma in tutta Europa e ora anche in America...
Già, c’è crisi dappertutto...
Questo è il risultato del grande capitalismo!
Pensavano che, dopo il comunismo, non ci fosse altra alternativa ed invece...; tutti correvano verso il benessere materiale e questi sono i risultati!
E’ finito tutto: socialismo, comunismo, capitalismo...
Pensavamo a un fine millennio in positivo, ma...
Non si può sapere cosa succederà! Ora, per esempio, io ho preparato un’operazione per acquistare la casa Camuzzi...
Ah sì? E’ così bella quella casa...
Sì; è già da un anno che ho in mente questa cosa e ho scritto delle lettere, ho fatto delle richieste alle banche. La casa sarà venduta all’asta, perché l’anziana Signora Camuzzi è morta più di un anno fa e gli eredi la vogliono vendere e io ho fatto una proposta di prezzo, abbiamo trattato, poi ho cominciato a cercare soldi: niente da fare!... Sono stato a Berna, Bellinzona...
Niente da fare!?
No, niente, nemmeno qui in Svizzera! In Germania, forse, c’è ancora qualche possibilità; ma è molto difficile per la situazione in generale e perché, anche chi ha soldi, non può o non vuole darli.
Io la compererei subito, se potessi... Facciamo così, se vinco tanti soldi facendo un bel 13 al Totocalcio, la comperiamo insieme la casa...
Ah, molto bene!
Basta che mi lasci un appartamento dove vivere...
Ma certamente! La casa però costa due milioni e mezzo di franchi svizzeri e ce ne vogliono almeno altri 5 per ristrutturarla. Abbiamo una proposta per un totale di 8,5 milioni di franchi per farne un Centro Culturale per studi su Hermann Hesse e, oltre ciò, un piccolo museo dedicato alle opere degli Architetti Camuzzi (famosi per aver lavorato molto in Russia) e del pittore Gunther Böhmer.
Quindi letteratura, architettura e pittura...
Sì, inoltre anche la moglie di Böhmer, tuttora vivente nella Casa Camuzzi, sarebbe d’accordo. Poi, abbiamo pensato a cosa si può ancora fare; per esempio, abbiamo progettato di mettere un appartamento a disposizione di coloro che studiano l’opera di Hermann Hesse e vengono dall’America, dal Giappone, dalla Corea e da tutto il mondo fino a Marbach, Berna, per consultare gli archivi.
Ma i Camuzzi sono interessati a tutto questo, anche in considerazione della parte dedicata alla loro famiglia nel museo, o no?
Gli eredi Camuzzi sono molti; due o tre di essi sono molto favorevoli, ma gli altri quattro o cinque non lo ritengono così importante e comunque vogliono soldi.
Ah, sempre i soldi fanno girare il mondo...
Eh sì; ma forse la situazione non è male che sia così, perlomeno in questo momento nessun altro può acquistare e, in seguito, potrebbero scendere i prezzi e avendo più tempo ho più possibilità di trovare il denaro necessario.
Bene, speriamo che con il tempo... Quando sono andata lì mi è piaciuta così tanto quella casa e mi auguro davvero che si possa trovare una soluzione. Tra l’altro, ho letto all’ingresso uno strano cognome ‘Rodriguez’, credo. Lei sa come mai?
Ah sì; è un parente Camuzzi che viveva in Brasile!
Infatti, mi chiedevo chi vivesse lì ora e come tenesse la casa...
Parlammo a lungo della Casa Camuzzi e il Signor Hesse prese anche delle fotografie che mi mostrò.
A proposito di fotografie, approfittai dell’occasione per chiedere a Heiner se potevamo farne alcune insieme nella sua casa e anche nella veranda. Come sempre, molto gentilmente, Heiner aderì affermativamente alla mia domanda e uscimmo per fare quegli scatti, che avrei conservato gelosamente tra i miei ricordi più cari.
A questa mia richiesta egli rispose molto ironicamente: “Io so che sono una bellezza!”
E si schermì nuovamente quando affermai che era un bellissimo uomo e che avrei messo una firma per arrivare alla sua età (84 anni) nell’ottima forma che lui aveva!
In veranda potemmo ammirare alcuni disegni, molto carini, fatti dai suoi nipotini e inoltre lo stupendo panorama che si poteva godere da quell’angolo incantato; poi rientrammo e la nostra chiacchierata proseguì.
Così lei vive qui da dodici anni?
Dodici sì, forse tredici di già...
Forse, è per questo che si mantiene così in forma e così giovane; in mezzo al verde, alla quiete...
Ma io non sono più giovane!
Sta scherzando? Non dimostra certo la sua età! Sta così bene...; ma è lei che fa ginnastica o i suoi figli?
Avevo notato, appesi alle travi, degli anelli ginnici.
No, questi li ho trovati nella camera di mio padre; forse li aveva acquistati su consiglio del suo medico, ma non ne ha quasi mai fatto uso! Era molto pigro...
Eravamo ancora in piedi, dopo l’uscita per le fotografie, e approfittammo per girare con lui la casa, rinnovandogli i miei complimenti per la sua bellezza; tutto intorno aveva appeso alle pareti quadri e oggetti tradizionali provenienti da varie parti del mondo. Non avendo notato quadri di suo padre gli domandai:
Ma lei non ha qui i famosi acquerelli di suo padre?
Sì, ne ho moltissimi, ma sono presso un mio amico in questo momento, poiché sono stati classificati e sono conservati in casse per via delle mostre, che spesso c’è richiesto di fare. Lo scorso anno ce n’è stata una a Roma e forse quest’anno ne faremo una a Novara.
Ah, ricordo quella di Roma; ci volevo andare, ma alla fine non ci sono poi riuscita!
Era molto bella ed era stata allestita in un bellissimo palazzo Jugendstil, non so come si dice in italiano...
Forse, Liberty?
No, non credo, cerchiamo sul dizionario. Ecco, dice ‘Secondo Rinascimento’, ma io credo che anche in italiano rimanga Jugendstil!
Sì, molto probabilmente è così anche in italiano. Lei non viene mai in Italia?
Sì, ogni tanto; una volta lo facevo più spesso, ma da quando non ho più la macchina...; poi sto bene qui!
La capisco! Se abitassi in un posto come questo... anch’io non avrei molta voglia di andare altrove!
Ogni tanto mi muovo, sì, ma solo per occuparmi della faccenda della Casa Camuzzi.
E torniamo nuovamente a parlare di questa mitica casa, in cui mi promette avrei il mio posto assicurato come custode nel caso riuscissi davvero ad aiutarlo nella sua missione di ricerca fondi! Lui non ha mai vissuto là con suo padre, ribadisce, ma vi trascorreva brevi periodi in visita. Gli chiedo instancabile:
Ma suo padre com’era con i figli, che rapporto aveva con voi, soprattutto quando eravate bambini?
Credo che nel libro che lei ha portato ci sia, no?
No, veramente non c’è molto!
Vede, io avevo scritto due versioni: una in cui si parlava dell’uomo Hermann Hesse e, quindi, anche dei suoi rapporti con noi; mentre l’altra era sui suoi rapporti con l’Italia.
Allora forse hanno utilizzato l’altro testo. M’incuriosisce molto sapere questo, perché dagli scritti di Hermann Hesse emerge uno spirito molto libero, vagabondo; ed è molto difficile immaginarlo marito e padre. Inoltre, ha avuto ben tre mogli, anche se figli ne ha avuti solo da una, cioè da sua madre.
Sì, è vero; figli ne ha avuti solo da mia madre. La seconda moglie fu un grande amore, ma non hanno mai vissuto insieme.
Ma non era Ruth, la cantante lirica? Forse era un amore troppo ‘intellettuale’?
No, non troppo intellettuale! Sa, lei è ancora viva, ha circa 90 anni, credo, e abita in Germania dell’Est, ma pare che la sua testa non sia più quella di una volta; forse per la vecchiaia...
E sua madre, Mia Bernouilli, era francese?
No, proveniva da una grande famiglia di Basilea, ma originaria dell’Olanda.
Proprio tutta l’Europa nella vostra famiglia...
Sì, un po’...
E anche molto Oriente...
No, quello non molto!
Intendevo per quanto riguarda l’influenza del nonno di suo padre.
Ah sì, per quello sì! Il nonno fu un personaggio molto importante nella vita di mio padre.
E lei, cosa ha preso da suo padre?
Il naso...
Lei è sempre così spiritoso e anche modesto; ma, a parte fisicamente, nello spirito cosa le ha lasciato suo padre? Forse l’amore per la natura, il modo di vivere e una certa spiritualità?
Sì, un po’, un po’! Mio padre era un gran giardiniere, per esempio, e invece io non faccio niente...; li guardo solo un po’ i fiori...
Facciamo, quindi, delle considerazioni su quante piante attorniano la sua casa, quasi a formare un baluardo, una protezione naturale; Heiner mi parla ancora del fatto che, in fase di ristrutturazione, seppure di nessuna utilità pratica, avesse voluto che fosse rimessa lì sul ruscello anche una piccola ruota a fare da ‘mulino’ per il semplice, ma non trascurabile motivo, che ciò era bello! Una ragione più che valida.
Se si potesse sempre fare ciò che piace ed è bello!
A volte si può, ma non sempre, purtroppo...
Riceve molta posta?
Mah, ora non moltissima; ma per anni ne ho ricevuta parecchia...; almeno fino a quattro, cinque anni fa!
Sa, io non osavo. Mi chiedevo: gli scriverò, mi risponderà? Ero molto dubbiosa, pensavo avesse sempre tanto da fare...
Ma questo è normale; se si riceve una lettera bisogna rispondere, è chiaro! Anch’io, se scrivo, aspetto una risposta: è giusto! Non sempre ricevo la gente, però...
Questo è stato molto bello da parte sua; ne sono molto felice e mi ha permesso di realizzare uno dei sogni della mia vita. Era molto importante per me incontrarla!
Allora, se va in Nepal, mi scriverà una cartolina?
Sì, certo, anche più di una!
Voglio proprio vedere se arriva almeno una cartolina!
Certamente, gliene manderò una dal Nepal e una anche dal Tibet, sempre che riesca ad arrivarci. Ma se lo scorso anno volevo venire da lei e ce l’ho fatta, sicuramente riuscirò ad arrivare anche lì!
L’occasione mi è propizia per parlare al Signor Heiner della filosofia buddista da me praticata e di come mi abbia aiutato a vivere la vita in modo più sereno e soddisfacente. Lui mi ha ascoltata con molto interesse e alla fine della mia esposizione mi ha detto: “Allora, auguri, non sarà facile arrivare!”
E magari, quando ritorno dal Tibet, la vengo a trovare di nuovo per raccontarle il mio viaggio!
Ma certo, volentieri! Spero che trovi ciò che spera di trovare, perché tante cose sono differenti quando si arriva in un Paese che non si conosce, anche nel Tibet, forse...
Eh, sì! Oggi la situazione è un po’ diversa da quando, per esempio, ci andò settant’anni fa Alexandra David-Néel, prima donna a raggiungere quei luoghi, ma speriamo possa cambiare! Come dicevamo prima, è la speranza che fa andare avanti il mondo! Se non ci fosse la speranza, non vi sarebbe motivo di vivere!
E’ vero, sì!
Anche suo padre, malgrado un certo pessimismo, aveva sempre questa speranza!
Sì, ma mio padre non era pessimista! Lui era molto critico nel vedere la realtà, ma sempre con lo spirito rivolto al futuro, con speranza.
Molto bello, davvero! Ma non vorrei rubarle altro tempo, forse lei avrà un sacco di cose da fare...
Con il suo sguardo, sempre dolce, sornione ed ironico, indicò il vaso di roselline, che gli avevo portato in omaggio e disse: “Sì, certo, poi c’è un piccolo lavoro da fare”.
Spero sarà piacevole...
Oh, sì! E’ stata molto gentile a portarmele. Come si chiamano?
Non so proprio. Suo padre sapeva bene di piante, uccelli, eccetera. Io non sono così esperta...
Devo trovare loro un posto; non posso lasciarle così nel vaso!
Infatti, quando mi ha detto che viveva nel bosco, ho pensato che, portandole queste rose, le avrebbe potute trapiantare...
La conversazione proseguì sui vari tipi di piante che crescono nel giardino e nel bosco e poi su Una che, nel frattempo, giocava dintorno; quindi gli chiesi ancora:
Posso tornare a trovarla?
Se vivo ancora...!
Certo, lei vivrà a lungo! Deve! Così posso ritornare; poi, se suo padre è vissuto fino a 85 anni, e lei ci è già molto vicino a quest’età, deve arrivare fino a 100, così vedrà il 2000 e la Casa Camuzzi a posto!
Ah, devo? 100 anni no, sono troppi, 99 forse! Ma neanche! Per la Casa Camuzzi però sì, spero di riuscire a vederla sistemata!
E’ un buon motivo per vivere ancora a lungo, un gran bell’obiettivo!
Eh, sì, praticamente è quasi l’unico motivo!
Che bella questa cosa che ha detto: ma è quasi l’unico motivo; ce ne sono molti altri, no?
Heiner si alza e va a prendere un libro meraviglioso, edito sempre da Suhrkamp, quasi interamente di fotografie; ve ne sono tantissime di Hermann e anche di tutta la sua famiglia. Commentiamo le più simpatiche e le preferite di ciascuno. Ve ne sono parecchie dell’India e, quindi, gli chiedo:
Lei è mai stato in India?
Sì, una volta. Ho accompagnato un mio amico che era fotografo e doveva fare un lavoro di reportage lì; io ero il suo aiuto, gli portavo le borse con il materiale.
E’ rimasto a lungo?
No, un paio di mesi tra India e Pakistan.
In questa immagine assomiglia tantissimo a suo padre. Era davvero il più bello fra tutti in questo gruppo! Io sono idealmente innamorata di Hermann Hesse...
Heiner, divertito, ride forte e io proseguo:
Non mi sono mai sposata fino a ora perché non ho trovato la persona giusta, che condividesse con me gli stessi interessi e, credo, sarà difficile riuscire a trovare un Hermann Hesse nella mia vita! Non ce ne sono più molti di uomini grandi e sensibili come lo era lui e io ne vorrei uno così!
Chi lo sa, forse invece ci sarà! Non potrà essere sicuramente come mio padre; ogni persona vivente è diversa, ma qualcuno che gli somiglia nello spirito vedrà che certamente una persona come lei, prima o poi, lo incontrerà!
Il Signor Heiner mi ha dato una lezione di grande saggezza e anche di speranza; giustamente, diceva anche, l’importante è non avere fretta e saper guardare bene nell’animo altrui per potervi scoprire quello che, magari all’appa-renza, ci può sfuggire.
(Parole sante! Dopo alcuni anni avrei veramente incontrato il mio ‘lui’.)
Le ha fornite lei tutte queste foto?
No, hanno cercato anche negli archivi di Marbach e Calw.
Sono davvero molto belle, una più dell’altra...
Questo è Bruno...
Bruno? Sembra una bambina, una bella bimba...
A quei tempi si usava che i bambini portassero i capelli così lunghi...
Sì, ricordo! Anche mio padre ha delle foto sue e di mio zio, suo fratello, di quando era piccolo e anche loro sembravano delle bambine. Ah, questo è lei? Bello, davvero! Ma il suo nome, Heiner, è un diminutivo? E in italiano a che nome corrisponderebbe?
Non è un diminutivo. Corrisponde a Enrico ed è la forma, in tedesco antico, di Einrich.
Questo libro è in edizione solo tedesca?
Sì, è uscito solamente in Germania.
Tutta la bibliografia di Hermann Hesse è di proprietà Suhrkamp, ma all’inizio era stato boicottato dagli editori tedeschi per via delle sue attività pacifiste in tempo di guerra, o sbaglio?
Sì, tutto è della Suhrkamp. Inizialmente si erano rifiutati di pubblicare l’opera di mio padre; ‘Hermann Lauscher’ non ebbe riconoscimenti immediati; il secondo romanzo ‘Peter Camenzind’ fu invece subito molto apprezzato e fu un successo che gli spalancò le porte della notorietà e... degli editori!
Prossimamente vorrei rileggere ‘Il lupo della steppa’ e ‘Narciso e Boccadoro’; ora ho appena terminato ‘Il gioco delle perle di vetro’, ma ci sono riuscita soltanto al terzo tentativo, poiché l’ho trovato molto difficile. Poi un amico mi ha consigliato di provare a superare le prime 50, 60 pagine e, così facendo, sono riuscita ad andare avanti; ma credo sia uno dei suoi romanzi più ostici...
Sì, è molto difficile, lo penso anch’io!
Comunque molto bello; anche se i miei preferiti restano sempre ‘Siddharta’ e ‘Il pellegrinaggio in Oriente’.
Ma anche ‘Il pellegrinaggio in Oriente’ non è facile per tutti ed è abbastanza complicato; non è un viaggio normale...
Infatti. Inizialmente, le ho fatto la domanda sulla filosofia buddhista per suo padre perché in questo libro ho individuato, seppure molto ampliata come collocazioni fisiche, un’analogia con le riunioni di recitazione e di dialogo cui io partecipo. Vi ho trovato molte affinità, soprattutto per quanto si riferisce a questo spirito di ricerca fatto in comunione tra persone diverse, ma unite da quel grande fine universale della pace e dell’armonia. E in ‘Siddharta’, poi, c’è proprio quello che io ho capito della filosofia buddhista: chi non lo ha letto? Quando mi capita di sentire qualcuno che non lo ha fatto, mi chiedo e chiedo a lui: come è possibile!?
Heiner ride forte, di nuovo, come sempre divertito da queste mie perentorie affermazioni.
E consideriamo che Siddharta’ è uno di quei libri che si rileggono sempre volentieri. Io, per esempio, l’ho già letto almeno tre volte e mi sono resa conto che il libro rimane sempre lo stesso, ovviamente, ma ogni volta che lo si rilegge ci si accorge di farlo in modo diverso; cioè si scoprono sfumature differenti. Questo è molto bello poiché significa che davvero si cambia, si cresce, e s’impara a interpretare ogni cosa della vita in modo differente!
Si legge con occhio diverso, sì, è molto bello!
E’ Siddharta che vede il vecchio, il bambino, il giovane e non erano Siddharta stesso, ma l’intero Universo e tutta la sua umanità! C’è anche il film ‘Perché Bodhisattva è partito per l’Oriente’, in cui ci sono tre monaci, un vecchio, un giovane e un bambino che rappresentano proprio il ciclo della vita, i principi di yin e yang; molto lento, ma molto bello! Ambientato in un luogo in mezzo al verde, con tanti ruscelli, tanta vita, come qui. Lei lo ha visto?
Sì, l’ho visto al Festival di Locarno; davvero molto bello!
Prima di congedarci vorrei chiederle se mi fa una dedica su questo libro.
Sì, certo, ma come? In Italiano?
Come vuole lei, non ha importanza!
“Sempre cortese e disponibile, Heiner mi ha scritto, in tedesco, questa frase:
Purtroppo il testo non è eccellente, ma le fotografie sono molto belle e sopperiscono a questa mancanza.
Heiner Hesse - 3.4.1993”
Tra i Musei che ospitano le opere e gli oggetti di suo padre, qual è secondo lei il migliore per approfondire la conoscenza sulla vita di Hermann Hesse?
Calw è sicuramente il più importante; poi viene quello di Gaienhofen e infine quello di Berna. A Marbach, invece, sono conservati tutti i suoi manoscritti.
Andrò sicuramente a visitarli; l’ultimo, soprattutto, mi sembra molto interessante..., con i manoscritti...
Sì, ma è il più difficile al quale accedere! Lei dovrebbe avere una lettera di richiesta da parte di qualche professore, poiché bisogna avere dei permessi speciali di studio per consultare i manoscritti, essendo gli stessi molto antichi e molto delicati.
Beh, allora mi accontenterò di andare a Calw e a Gaienhofen!...
Ne vale davvero la pena, ci vada se può!
Il pomeriggio volgeva ormai al termine e, quindi, anche l’ora del nostro commiato era giunta.
Prima di lasciarlo, lo pregai nuovamente di vedere se davvero non avesse qualcosa che fosse appartenuto a suo padre da darmi come ricordo imperituro di questa giornata.
Il Signor Heiner, commosso dal tono supplichevole con il quale ancora gli rinnovavo questa richiesta, pregandomi di attendere, salì nel suo studio dal quale ritornò con una piccola scatola contenente diversi stampati.
Scartabellando, finalmente trovò qualcosa di interessante per me: un piccolo essai datato 1947, che Hermann Hesse aveva fatto pubblicare in tiratura limitata per i suoi amici.
Senza esitazione e generosamente, Heiner me ne ha fatto dono e ora posso dire che, non avendo mai amato né gioielli, né pellicce, né quant’altro di prezioso e ambito dalle rappresentanti del mio sesso, ho anch’io un pregiato tesoro dal quale non potrei separarmi per nessuna ragione al mondo!
E’ stato con grande fatica e rammarico che mi sono allontanata da quell’uomo e, vincendo sulla mia innata timidezza, l’ho voluto salutare chiedendogli di poterlo baciare e abbracciare come un nonno adottivo.
Dopo aver fatto questo, Heiner mi ha accompagnato fino all’auto e, con l’augurio di buon viaggio e l’arrivederci a presto, all’ora del tramonto, ripresi la strada del ritorno a casa, durante la quale ancora ritornava alla mente il pomeriggio trascorso con lui.
Riascoltai parte della registrazione e, di nuovo, sentii dentro di me una grande gioia e una grande commozione e fu in questi momenti che il progetto divenne decisione: sì, sarei andata in Nepal e, malgrado le scarse probabilità, avrei cercato di arrivare sino al tanto anelato Tibet!!!
Da quell’istante in poi, fu tutta una ricerca di notizie ed informazioni per realizzare questo viaggio; non volevo fare la ‘turista’, volevo essere una vera ‘viaggiatrice’, come lo era stato Hermann Hesse!
Volevo partire e viaggiare sola, per guardare meglio dentro me stessa e ritrovare lo spirito dell’umanità!
Il sogno sembrava impossibile da realizzare; dapprima non si trovavano voli; poi le notizie delle migliaia di morti causate dai monsoni quell’anno particolarmente attivi, avrebbero dovuto farmi desistere dall’attuare il mio progetto.
Ma, infine, il 30 luglio 1993, il mio pellegrinaggio (o, meglio, la mia avventura!) in Oriente ebbe inizio.
Al ritorno da quel viaggio, a fine estate, tornai da Heiner, al quale avevo nel frattempo inviato ben più di una cartolina, per trovarlo e fargli dono di una bella ‘tanka’ buddista acquistata appositamente per lui in Tibet; nel 1997 egli m’invitò all’inaugurazione del tanto sognato Museo Hermann Hesse e nel 1999, quando l’editore decise di stampare il mio scritto, egli ci diede l’assenso per utilizzare un’immagine di suo padre in copertina; il 7 aprile 2003 (esattamente pochi giorni dopo i dieci anni dal nostro primo incontro, il 3 aprile 1993…) il caro Heiner lasciò le sue spoglie mortali, ma come Hermann il suo ricordo è sempre vivo nel mio cuore e nel mio spirito.
Mi auguro che anche i lettori di questo mio modesto contributo possano trovare ispirazione per una vita semplice ma piena come quella dei personaggi di cui ho parlato. Buona vita a tutti!
Viviana Emilia Spada
Il coraggio del vuoto
di Elena Miano
Nel 1963 la prima donna viene lanciata nello spazio. Si chiama Valentina Tereskova, è russa, all’epoca aveva solo ventisei anni e una gran dose di audacia. L’abbiamo incontrata, a pranzo, proprio qui, in Italia.
di Elena Miano
Una donna. La prima donna. La prima a fare una cosa difficile anche per un uomo: essere scagliata nell’infinito del cielo. Esattamente il 16 giugno 1963 questa giovane pioniera viene lanciata per una missione nello spazio di quasi tre giorni a bordo di Vostok 6, dalla base di Bajkonur in Unione Sovietica. La storia di questa intraprendente “viaggiatrice” ha inizio con la passione per il paracadutismo, che comincia a praticare già ventenne. Qualche tempo dopo viene a sapere che la scuola per diventare cosmonauti ha aperto le selezioni anche alle donne. Quando la sua domanda viene finalmente accolta, insieme ad altre quattro compagne, ha inizio la sua durissima preparazione, che la vedrà prima donna al mondo a bordo di una navicella. Valentina ha solo 26 anni, coraggio da vendere e una sconfinata ammirazione per Gagarin.
Il seguito è noto, lei stessa lo ha rivelato solo recentemente: fu un volo difficile e segnato da una grande fatica fisica. Dopo quella incredibile avventura Valentina continua ad arricchire la propria esperienza lavorando a stretto contatto con i suoi colleghi , ma collaborando attivamente all’emancipazione femminile. In seguito verrà eletta membro dell’Alto Soviet diventando presidente del Comitato Donne dell’Unione Sovietica.
Penso a tutto questo mentre mi preparo ad incontrare Valentina Tereškova per pranzo. Incontrarsi a tavola accorcia le distanze, pone la conversazione su piani meno costruiti, più amichevoli. E visto che luogo e menu sono promettenti, con la mente affollata dalle domande vado all’appuntamento.
La vedo arrivare e subito mi colpiscono la fierezza, lo sguardo e la forza che trasmette. Occhi tanto chiari da essere quasi trasparenti, che immagino possano diventare gelidi al momento opportuno. Allo stesso tempo è gentile ed affettuosa con gli amici che oggi sono con lei.
Cominciamo a chiacchierare davvero mentre beviamo il caffè e scopro che questa donna da record quando era bambina sognava di diventare macchinista: “Dalle finestre di casa vedevo la ferrovia ” mi dice” e guardavo convogli lunghissimi che passavano per arrivare chissà dove: in quei momenti sognavo di guidare il treno per partire e andare anche io lontano “. Non voglio però chiederle del suo lavoro: mille domande che in mille le avranno già posto. Quindi, visto che siamo a tavola, le chiedo qual è il cibo che la riporta immediatamente indietro nel tempo: “ Mia nonna cucinava per tutti, era tempo di guerra e non avevamo molte risorse ma le sue patate alla panna acida sono un ricordo nettissimo ed indimenticabile. Adesso i miei gusti sono cambiati: viaggio molto, in tutto il mondo e sono molto curiosa. Assaggio tutto: mi piace conoscere sapori e cibi nuovi e diversi.” E così scopro che questa signora dello spazio ama in particolare il pesce, soprattutto se cucinato in modo semplice, con i sapori e gli aromi tipici della cucina italiana: pomodori, basilico, origano. E poi la pasta al tonno. Ride mentre me lo racconta: “ Per voi italiani è una ricetta fin troppo semplice”. Valentina ha un legame particolare con l’Italia, come mai?
“Perché la cultura italiana e quella russa si assomigliano per molti aspetti e i due popoli hanno caratteristiche simili, sensibilità per l’arte e la musica. Come dimenticare Del Monaco e Pavarotti? Mi piace il vostro paese per l’apertura del vostro carattere. E anche la cucina è importante per la conoscenza.”
Conoscenza significa uscire, guardarsi intorno, non fermarsi alla prima occhiata, sfumare stereotipi preconcetti, andare sempre un po’ più in là. Come Valentina, che sogna di poter andare su Marte.
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