Sciolti
Sorelle "tempestose"
di Elena Romanello
Il successo delle sorelle Bronte echeggia, ancora oggi, nelle librerie, nei salotti letterari, nelle case di donne che, come allora, rimangono affascinate dai loro romanzi. Ci sono tutti gli ingredienti: passioni, emozioni, sottili giochi di seduzione... Anche il cinema ne è rimasto folgorato, trasformando le parole in immagini...
di Elena Romanello
Se Jane Austen ha inventato il genere chick lit, con le schermaglie tra i sessi e la ricerca di un proprio equilibrio, le sorelle Bronte, tre ragazze cresciute nelle lande desolate dello Yorkshire, hanno creato il romanzo d'amore passionale ma anche la storia d'identità protofemminista.
Jane Austen è oggi la grande protagonista in libreria e non solo con riedizioni dei suoi romanzi, riletture in chiave dall'horror al giallo, adattamenti cinematografici, storie biografiche vere e presunte, ma le sorelle Bronte non sono da meno, anzi i libri e i film a loro dedicati stanno crescendo in modo esponenziale.
Purtroppo nel nostro Paese non arrivano in generale doppiati gli sceneggiati inglesi della BBC, che spesso dedicano opere ai romanzi delle Bronte, se si esclude un Jane Eyre che è girato qualche anno fa, per cui le appassionate e gli appassionati si affidano al mercato in lingua originale, ufficiale o meno.
È dell'anno scorso il piacevolo romanzo di Syrie James, già autrice de Il diario di Jane Austen, I segreti perduti delle sorelle Bronte, uscito per Piemme, che racconta in tono romanzesco ma abbastanza fedele la biografia in particolare di Charlotte, autrice di Jane Eyre, l'unica delle tre sorelle a vivere qualche anno in più e a viaggiare anche lontano dalla casa del reverendo suo padre nelle brughiere sperdute, alla quale finì comunque per tornare.
Sempre sullo stesso tono è Romancing Miss Bronte di Juliet Gael, novità Tea, che racconta le vite delle tre sorelle, tra amore e letteratura, non dimenticando che dovettero fingersi tre uomini per portare l'attenzione dell'editoria sui loro libri, capaci di trattare argomenti per l'epoca scabrosi come le passioni travolgenti oltre le differenze di classe e ogni limite in Cime tempestose di Emily, il lato oscuro delle classi agiate in Agnes Grey, la ricerca di una identità di se stessa e di rispetto come donna in Jane Eyre.
Proprio a Jane Eyre è stato dedicato un seguito, La figlia di Jane Eyre di Elizabeth Newark, che immagina le avventure della figlia di Jane e Rochester, tra balli e un passato mai dimenticato che emerge, raccontando un romanzo che non fa sfracelli come spesso è capitato ai seguiti. Del resto, di una lettura alternativa di Jane Eyre si era già occupata la nostra Bianca Pitzorno, impareggiabile scrittrice di romanzi, in La bambinaia francese, storia dal punto di vista di Berta, l'infelice moglie di Rochester, qui eroina della storia.
Sfruttando l'interesse costante per il fantastico in letteratura la Fazi editore presenta invece un seguito tra fantasmi e presenze che tornano, Io sono Heathcliff dell'italiana Desy Giuffrè, da sempre appassionata delle sorelle Bronte e della cultura vittoriana, che racconta di un seguito oggi della vicenda d'amore e di morte tra Catherine e Heathcliff, dove due ragazzi di oggi si trovano a dover rivivere quella storia di tanti anni fa ma ancora capace di commuovere con la sua assolutezza di passione, contro tutto e tutti.
Al cinema, dopo la versione di Jane Eyre di metà anni Novanta diretta da Franco Zeffirelli con Charlotte Gainsborough e William Hurt, l'anno scorso è arrivata una nuova Jane Eyre, per la regia di Cary Fukunaga con Mia Wasikowska, già Alice per Tim Burton, e Michael Fassbender, che cambia la scansione temporale degli eventi e asciuga la storia, ottenendo comunque un risultato affascinante.
Il prossimo appuntamento cinematografico con le sorelle Bronte è con Cime tempestose, firmato da una donna, la regista Andrea Arnold, ambientato sempre nelle brughiere dello Yorkshire, ma dove l'impetuoso Heathcliff diventa, forse in maniera un po' troppo anacronistica, un ragazzo di colore, ma dove la carica di passione e amore totale e folle resta uguale. Speriamo che non resti inedito, come un'ottima versione di una quindicina d'anni fa, con Juliette Binoche e Ralph Fiennes nei ruoli dei due protagonisti, reperibile solo in lingua originale.
Non sarebbe male inoltre, per chi ama le sorelle Bronte, recuperare un film francese di fine anni Settanta, Les soeurs Bronte di André Techine, reperibile sul mercato d'oltralpe, che racconta le vicende umane e culturali delle tre appassionate donne del Yorkshire, affidandosi ai volti di Marie France Pisier, Isabelle Adjani e Isabelle Huppert nei ruoli rispettivamente di Charlotte, Emily e Anne.
Tre donne capaci quindi di parlare ancora al pubblico di oggi, parlando di passioni e amori, di rimpianto e dramma, ma anche di coscienza di sé e di valore di ciascun essere vivente, in particolare se si tratta di una donna. C'è chi le legge ammaliato dalle loro storie d'amore, comunque insolite (sia Cime tempestose che Jane Eyre non sono certo vicende scontate), c'è chi ama la loro visione disincantata della società vittoriana, c'è chi apprezza le loro eroine determinate senza essere noiose. Ma in ogni caso le sorelle Bronte dimostrano di avere ancora molto da dire al pubblico di oggi.
E Dio scelse una donna
di Rita Cugola
Profezia e credibilità spesso viaggiano parallelamente, senza mai trovare quindi un punto di incontro. Altre volte, invece, contribuiscono ad alimentare profonde riflessioni in chi si sofferma sul significato racchiuso in ogni singolo messaggio, divulgato da individui intimamente connessi a Dio e divenuti poi suoi portavoce a vantaggio esclusivo dell’umanità. Fra di essi, una donna colpisce particolarmente, sia per il contenuto delle sue profezie – di portata mondiale e incredibilmente attuali – sia per l’oscuro anonimato da cui è tuttora avvolta la sua figura. Su di lei, infatti, le notizie sono molto scarse. Nota ai posteri come la monaca di Dresda, visse nell’ombra di un monastero tedesco, dove mori nel 1706 all’età di ventisei anni.
di Rita A. Cugola
Possedere il “dono della profezia” significa sostanzialmente beneficiare della capacità di lacerare la cortina metaforica dell’ignoto che idealmente separa la dimensione spazio-temporale (terrena) da quella assoluta (ultraterrena). Si tratta di precipitare verso un ipotetico “punto centrale” in cui presente e futuro giungono a una perfetta coincidenza, annullando conseguentemente qualsiasi diversificazione avventata, dove non può assolutamente esistere una debita cronologia degli eventi.
Oggi parlare di profeti e profezie equivale forse ad alimentare l’interesse popolare riguardo a fenomeni di tendenza (più che di sostanza) sovente assimilabili agli effimeri interessi di ordine puramente commerciale tanto cari alla nostra epoca.
Eppure un tempo la situazione era decisamente diversa. Quando il senso religioso ancora permeava realmente l’intera struttura sociale; quando la spiritualità individuale e collettiva godeva di importanza primaria anche sul piano storico-politico, l’abilità profetica implicava il conseguimento, da parte dell’individuo coinvolto, di un livello di sviluppo interiore non indifferente. Oltre a un’acuta sensibilità presupponeva soprattutto quell’intima consapevolezza di umiltà a cui non poteva certo sfuggire, se davvero voleva comprendere e accettare a fondo la rilevanza del suo ruolo da svolgere al servizio esclusivo dei suoi simili.
Profeti in senso lato venivano ritenuti coloro che, avendo raggiunto un’unione intima con la divinità – spesso mediante l’annullamento del proprio sé – ne divenivano addirittura i portavoce effettivi. In altri termini, Dio concedeva la sua benevolenza all’uomo rivelandosi – in quanto Verbo primordiale – sotto forma di Parola. Si esprimeva, cioè, per voce di individui preposti appositamente alla diffusione del messaggio divino ricevuto per Grazia.
La stessa storiografia biblica sottolineava la condizione passiva dell’essere, impossibilitato ad agire solo in base alla spinta del tempo e del luogo. I racconti contenuti nella Bibbia evocavano una doppia causalità: sensibile e naturale da un lato; superiore, nascosta, non sensibile dall’altro. In sostanza, non erano gli umani di entrambi i sessi a creare la storia: ogni processo storico-sociale contemplava infatti un fattore terreno e uno celeste.
In tale contesto di collaborazione e interazione tra la causalità divina e quella umana, la figura femminile trovava il suo giusto inserimento. Nei ripetuti riferimenti alla saggezza tipica del cosiddetto sesso debole, il Pentateuco (primi cinque libri delle Sacre Scritture) non trascurava la popolarità e l’autorevolezza conquistate da alcune donne cui era stato riconosciuto il ruolo ufficiale di profetesse.
La prima a cui tale titolo venne conferito fu Miriam. Il profeta Michea (VI, 4) rammentò in seguito la sua posizione al fianco di Mosè: “Ti ho fatto salire dall’Egitto e ti ho riscattato dalla casa di schiavitù e ti ho inviato Mosè, Aronne e Miriam”.
Anche Deborah, moglie di Lepidot nonché regnante e giudice d’Israele aveva il dono della profezia: si raccontava infatti che i figli di Israele erano soliti farle visita per ottenere da lei consigli, orientamenti circa le azioni future e, naturalmente, giustizia.
Tra i XII e il XIII secolo, quindi in pieno Medio Evo, si verificò un radicale cambiamento a livello culturale, associato a un profondo rinnovamento della religiosità. Fiorirono innumerevoli movimenti laici ed ereticali, contemporaneamente nacquero gli ordini mendicanti. Intanto la donna rivendicava un ruolo sempre più consistente e attivo nell’ambito della spiritualità e della vita religiosa.
La mistica (esperienza religiosa personale del tutto interiore) e la profezia (attività pubblica o politica) conobbero larga diffusione. Nella tradizione cristiana, quest’ultima in particolare si riferiva non solo al dono di conoscere il segreto dei cuori umani e di prevedere gli eventi futuri, ma anche alla possibilità concreta di guidare i cristiani sul piano storico. E ciò non tanto in funzione di un vantaggio spirituale, quanto invece del loro comportamento politico.
Un caso decisamente emblematico fu quello della monaca di Dresda. Di lei si sa purtroppo molto poco a causa di una scarsissima documentazione al riguardo.
Questo, nonostante nel 1808 fossero stati rinvenuti manoscritti a lei attribuiti: circa trentun lettere destinate ad alcuni regnanti (Vittorio Amedeo di Savoia, Carlo XII di Svezia, Pietro I di Russia, Federico I di Prussica, Filippo V di Spagna, Anna d’Inghilterra, Luigi XIV di Francia, Rinaldo d’Este), cardinali, un papa (Clemente XI) e altri religiosi della chiesa cattolica.
In uno dei documenti è incluso qualche elemento sulla scarna biografia di questa figura femminile eccezionale. Nata a Dresda nel 1680, la monaca sarebbe vissuta e morta “in un convento sulle rive dell’Elba, poco lontano dal palazzo reale” nel 1706, a soli ventisei anni. Scelta come “messaggera e anello di congiunzione” tra entità divine e mondo terreno, nonostante fosse semianalfabeta scrisse in tedesco, latino e addirittura in entrambe le lingue.
Nelle missive ai personaggi storici la monaca prediceva eventi particolari che li riguardavano in prima persona e che in seguito sarebbero accaduti alla loro discendenza o alla nazione; quelle indirizzate ai religiosi vertevano semplicemente su avvenimenti di carattere generale inerenti l’evoluzione storica, la tecnologia, la scienza.
Interessante notare comunque che in tutte le lettere – comprendenti profezie fino al 3000 circa – risaltava l’importanza attribuita a una “voce” che suggeriva alla monaca ciò che avrebbe dovuto immortalare negli scritti.
Inizialmente distaccato, il rapporto di questa donna con quella che verrà in seguito definita la “soave voce” diventò sempre più passivo, al punto che in alcuni passi della sua produzione epistolare ella descrisse anche alcune “visioni” che, preannunciate dalla “voce”, erano accompagnate da una “luce”.
Uno dei messaggi senz’altro più toccanti della veggente di Dresda riguarda le tre piaghe della purificazione, da intendersi relative alla “fine del figlio”, cioè il 2000: “In quel tempo si renderà necessaria una pulizia generale, perché l’uomo avrà fatto scempio di ogni cosa. E la pulizia richiederà sofferenza e dolori per tutta l’umanità, perché tre piaghe verranno a mondare la fine di questo tempo. Ci sarà una pestilenza mortale, che cadrà come una pioggia e colpirà soprattutto i corrotti nella carne, i viziosi, i figli di Sodomia e Gomorra. E poi ci sarà il fuoco, ma nessuno vedrà le fiamme e nessuno vedrà il fumo. E tutto sarà trasformato in cenere e quella cenere conterrà la morte.. E poi ci sarà la grande siccità e la grande fame e sulla terra si apriranno ferite profonde e non crescerà più il grano¸ma cresceranno solamente erbe avvelenate… Le stagioni cambiano il loro colore. E il sole cambia il suo calore. I tempi del raccolto del grano verranno modificati e nulla di quello che l’uomo considerava “immutabile” rimarrà come prima. Cambieranno anche i colori della natura. Molti frutti dei campi saranno velenosi e uccideranno uomini e animali. E tutto questo avverrà in un tempo in cui l’uomo avrà sperperato il grano e avrà sperperato l’acqua”.
Saranno tre i segni premonitori della catastrofe imminente: la terra delirante, la pazzia umana e impronte nel cielo. La crosta terrestre si modificherà in più posti specialmente nel Mediterraneo (“il mare della storia”). L’uomo e la natura modificheranno molte cose. L’Adriatico diventerà un lago, città situate “al monte che si troveranno improvvisamente al mare”. “Molte stelle scompariranno alla vista e molte altre diverranno visibili. E’ questo il tempo in cui gli uomini non parleranno più, ma grideranno senza capirsi. La torre di Babele tornerà sulla terra”: questa volta, però, sarà l’uomo a crollare.
La profetessa teutonica non trascurò di pronunciarsi anche sugli ultimi pontefici che si alterneranno sul trono di Pietro (e che precederanno la nuova età delle catacombe) attribuendo a ciascuno un preciso simbolo. A Giovanni XXIII, ad esempio, associò un “Cavallo Rosso, segno del Precursore”; a Paolo Vi un “Cavallo Nero, segno di Beniamino”. Un “Cavallo Bianco, segno di Pietà” era invece riservato a Giovanni Paolo I e mentre per Giovanni Paolo II vedeva “l’Angelo Mastro di Giosafat, con ,il segno dei dodici”,a Benedetto XVI era riservato “l’Angelo Guida di Giosafat, con il segno della Gloria”. L’ultimo papa sarebbe stato contraddistinto da un altro Angelo, quello “della Pietà, con il segno del Martirio”.
Alcuni cercarono di individuare un certo nesso tra i colore stesso dei destrieri (riconducibile alla mitologia legata ai Cavalieri dell’Apocalisse) e il periodo storico relativo ai pontefici. In base a tale chiave di lettura, i cavalli bianchi avrebbero dovuto corrispondere alla vittoria del potere spirituale della Chiesa; quelli neri a un periodo di equilibrio e giustizia, mentre i gialli e i rossi sarebbero stati collegati rispettivamente alla morte – trovandosi in corrispondenza con le guerre mondiali – e al cavaliere che toglieva la pace, dunque a un periodo prebellico.
Secondo la monaca, l’ultimo pontefice giungerà dalla Germania.
Esistono tuttavia profezie maggiormente significative della monaca e tra di esse non va dimenticata la “visione” circa la conversione sovietica, nel corso della quale la veggente assiste al rogo e alla resurrezione della “Croce di Cristo sulla grande piazza della santa Russia”. Interessante è l’insistenza posta dalla monaca su questo messaggio, a proposito del quale non cessò di ribadire che “sulla terra della santa Russia, il Salvatore verrà crocifisso e risorgerà sfolgorante di gloria e la sua luce sarà la resurrezione di tutto il mondo” (una conversione al cattolicesimo in ambito sovietico fu del resto ribadita anche in altre profezie).
La “resurrezione del mondo” dovrà però essere preceduta dalle “giornate dell’arcangelo Michele”, che “purificheranno i venti”. Si tratterà di un periodo doloroso, in quanto il passaggio da un vecchio regime a un nuovo criterio esistenziale non sarà certo privo di sofferenze. Ciò nonostante, al termine del suddetto intervallo di tempo, dalla Russia si innalzerà al cielo un suono festoso di campane.
In un altro messaggio profetico, la monaca di Dresda si espresse in maniera lapidaria: “arriverà un giorno in cui l’acqua avrà l’odore della carne morta e in cui tutta la terra diventerà un enorme letamaio. Verso la fine tutto sarà un veleno perché sarà l’uomo che avrà decretato di uccidere l’uomo. Il ventre marcio della terra farà più morti della guerra. Ma ben pochi combatteranno per la pace e poi tutto sarà marcio. E poi tutto sarà morte. All’albe dell’età dello spirito, il ventre enorme della terra verrà riempito di zolfo e poi verrà purificato”.
L’epoca della “grande confusione e incomunicabilità” venne analogamente inquadrata in modo decisamente dettagliato dalla profetessa, che circoscrisse tale evento tra due date precise: “tra il 1850 e il 2000”, scrisse infatti, “verrà edificata sulla terra un’enorme quantità di Torri di Babele. Tutti parleranno ma nessuno riuscirà a intendere ciò che dicono gli altri e le macchine aumenteranno la confusione, perché giungerà il tempo in cui la voce dell’uomo non conterà più, ma sarà la macchina a parlare. E nessuno capirà quella parola”.
Non solo. L’arco di tempo compreso tra il 1940 e il 2010 risulterà tuttavia il momento maggiormente critico per l’umanità, poiché la corte di Lucifero si insedierà stabilmente sulla terra: “dominerà sulla terra la gerarchia satanica”, sono a tale proposito le parole della monaca, “guidata da un demone che parlerà la lingua di Attila, ma che indosserà le vesti di Cesare”. Gli ultimi tempi, dunque, vedranno il grande inganno (Attila che si vestirà come Cesare) alla guida del mondo. Degrado umano e orrori di ogni genere precederanno la fine del pianeta (prevista intorno al 3000); nel frattempo si verificheranno ovunque immani catastrofi naturali e turbamenti fisici che raggiungeranno il culmine nel corso degli anni 2419, 2483, 2490, 2516 e cosi via fino al disastro imminente. Allora, dopo le due ere del Padre e del Figlio, avanzerà quella dello Spirito Santo, che segnerà appunto l’inizio della fine.
Oggettivamente, rileggendo con estrema attenzione le parole espresse da questa figura carismatica e oscura di un passato non così remoto, risulta impossibile non riscontrare allarmanti analogie con alcune grandi tragedie dell’umanità contemporanea. Aids, pestilenze, carestie che si allargano a macchia d’olio, allarmi climatici e ambientali, ma anche eccessivo sviluppo tecnologico destinato a incrementare l’incomunicabilità tra gli individui, trame politiche occultate alle masse nonché violenze crudeli, eccidi e stragi immotivate. Tutto induce a profonde riflessioni non soltanto, ovviamente, sul senso dei messaggi della monaca, bensì anche (o forse soprattutto) sul valore della profezia in quanto tale. Una considerazione è comunque d’obbligo: laddove vi è sincerità di intento, non trova posto la critica.
Detto questo, è opportuno sottolineare che la profetessa di Dresda non rappresentò sicuramente un caso isolato nel quadro delle figure femminili che nel corso dei secoli seppero distinguersi per la loro intima capacità di trascendere le barriere temporali inseguendo esclusivamente la voce dell’anima. Basti pensare a Ildegarda di Bingen, ad esempio, della quale, se possibile ci occuperemo in un altro momento.
L'arte dei manga
di Elena Romanello
Chi di noi non ha amato Lady Oscar o Candy Candy? Storie che hanno accompagnato i pomeriggi di un'intera generazione. E che hanno saputo narrare le storie, tutte femminili, di protagoniste suggestive, capaci di ispirarci. Non solo: sono state disegnate da donne. Piccola riflessione sugli shojo manga del "gentil sesso"...
Per troppo tempo il fumetto in Occidente non è stato considerato come un genere al femminile, oscillando tra l'avventuroso per maschietti prepuberi e il pornografico per maschietti dopo la pubertà, e presentando spesso protagoniste femminili ma viste secondo un'ottica maschile se non maschilista.
In questi ultimi anni le cose sono cambiate, grazie anche all'apporto e all'influenza dei fumetti giapponesi, i cosiddetti manga (in Giappone manga è qualsiasi tipo di fumetto, per noi occidentali è diventato sinonimo per antonomasia dei fumetti del Paese del Sol levante), che hanno il loro filone più interessante proprio negli shojo manga, i fumetti destinati a un pubblico femminile.
C'è chi fa risalire le origini di questa cultura fatta da donne per donne all'era Heian, intorno al X secolo dopo Cristo, quando le dame di corte produssero una quantità di opere letterarie di alto livello, delle quali è pervenuto oggi il Genji Monogatari di Murasaki Shikibu: una teoria affascinante, ma più prosaicamente l'inventore dello shojo manga moderno è stato Osamu Tezuka, autore prolificissimo negli anni successivi la Seconda guerra mondiale, che diede vita a Ribbon no Kishi, noto in Italia come La principessa Zaffiro, favola con influenza disneyane su una principessa dal cuore di maschio che deve salvare il suo regno incantato dalle mire di un perfido zio.
Gli shojo manga non sarebbero però oggi quello che sono se non ci fossero state una serie di autrici, nate nella seconda metà degli anni Quaranta, che hanno introdotto tematiche e storie d'avanguardia, facendo del filone qualcosa di più che una raccolta di favolette per ragazzine. All'inizio degli anni Settanta debuttano infatti nomi come Keiko Takemiya, Moto Hagio, Riyoko Ikeda, Yumiko Igarashi, Waki Yamato, ed ognuna di loro porta un vento di rivoluzione su queste storie di cui un numero sempre crescente di ragazzine, ma anche di ragazze e donne, amano nutrirsi, dall'infanzia fino all'età adulta.
Keiko Takemiya, con il suo Kaze toki no uta, da Le amicizie particolari di Roger Peyrefitte, dà vita al fortunato filone degli yaoi e shonen ai, storie di amori tra ragazzi gay, più o meno casti, Moto Hagio racconta storie il fantascientifico claustrofobico Juuichinin Iru! (Siamo in undici!) o il gotico Edgar e Allan Poe, Waki Yamato parla del Giappone sulla strada della modernità con opere come Haikarasan ga toru (trasposto anche in animazione e noto in Italia con il titolo di Mademoiselle Anne) o N.Y. Komachi. Yumiko Igarashi lega invece il suo nome a Candy Candy, favola di formazione celeberrima per l'adattamento animato, e a Georgie!, molto più feuilleton esplicito in manga che non in anime, con anche sesso esplicito, per poi diventare autrice del fantasy con tematica saffica La spada di Paros e specializzarsi poi nel filone dei ladies comics per un pubblico più maturo.
L'autrice più emblematica resta però Riyoko Ikeda, autrice dell'acclamato Versailles no Bara, noto in Occidente come Lady Oscar, con il quale lancia il filone storico, ma anche di altre opere di gran pregio, come il biografico Eroica, il dramma sempre storico Orpheus no Mado e la cronaca scolastica Oniisama e…, da noi Caro fratello. Riyoko Ikeda, vera e propria personalità culturale nel Paese del Sol levante, è, oltre che autrice di manga, saggista, femminista, cantante lirica, ed ha ricevuto nel 2008 la Legion d'Onore dal governo francese per il contributo che ha dato alla conoscenza della cultura d'oltralpe nel mondo.
Molte altre autrici continuano la tradizione degli shojo manga nel Paese del Sol levante, esplorando generi come l'horror, la cronaca scolastica, la storia, con risultati spesso molto lusinghieri ed interessanti. Impossibile citare tutte, ma qualunque siano le proprie preferenze nel mondo degli shojo si trovano davvero storie dai toni più diversi, si va dal romanzo di formazione in campo teatrale, lunghissimo e ancora in corso, di Glass no Kamen, Il grande sogno di Maya, di Suzue Miuchi alle atmosfere gotiche ed apocalittiche delle opere di Kaori Yuki, Angel Sanctuary e Cain in testa, dalla fantascienza New Age di Proteggi la mia terra di Saki Hiwatari alle combattenti della Luna del celeberrimo Sailormoon di Naoko Takeuchi, dalla moderna vita di Nana di Ai Yazawa alla biografia di Cesare Borgia di Fuyumi Soryo, senza dimenticare gli intrecci omosessuali al femminile dei manga minimalisti di Ebine Yamaji o gli omaggi all'Italia dell'ormai naturalizzata italiana Keiko Ichiguchi.
Gli shojo manga hanno saputo inglobare dentro di loro suggestioni e storie di vario tipo, per seguire il pubblico femminile (ma ci sono anche non pochi ragazzi ed uomini che li leggono) dall'infanzia all'età adulta, tra fantasia e realtà, sesso e amore, realizzazione di sé e voglia di vivere e sono un mondo che merita di essere conosciuto, magari partendo dagli adattamenti animati di alcune delle opere di maggiore successo, per poi passare alle serie a fumetti. Un filone in continua evoluzione, che ha ispirato e ispira, mode, musica, stili di vita, molto giapponese in molte sue concezioni ma capace di parlare un linguaggio universale, con elementi di tanti universi dell'immaginario, dal romance alla storia di formazione, passando per la fiaba, il racconto femminista e la vicenda omosessuale, senza pregiudizi e essendo raramente scontato, anche nelle opere più commerciali.
Le donne sono entrate comunque nel mondo del fumetto ovunque, sia come autrici che come lettrici, ma il mondo degli shojo resta un caso a sé, come universo di riferimento a se stante e come luogo di tutte le storie viste al femminile per un pubblico femminile.
Elena Romanello
Donne antiche, donne libere
di Rita Cugola
La donna dell’Antico Egitto godette di libertà impensabili persino ai nostri giorni.
Protagonista del suo tempo, riuscì a raggiungere vertici supremi a livello sia professionale che personale. Osannata e rispettata in società, era addirittura venerata in casa propria.
In un viaggio a ritroso nel tempo, la riscoperta di valori e privilegi che ci appaiono infinitamente e tristemente distanti…
È opinione diffusa che il passato offra solo modelli di inferiorità sociale e culturale e che pertanto uno studio approfondito in tal senso non possa che accrescere la consapevolezza circa la presunta superiorità moderna. Ebbene, se le donne dell’Antico Egitto potessero tornare a far sentire la propria voce, forse non sarebbero affatto d’accordo.
Nel 1829 – anno del suo unico viaggio nelle terre nilote – Jean-Fransois Champollion ricordava infatti “(…) Quanto la civiltà egizia differisse in modo sostanziale da quella del resto dell’Oriente e si avvicinasse invece alla nostra, perché si può valutare il grado di civiltà dei popoli dalla condizione più meno sopportabile della donna all’interno dell’organizzazione sociale”.
In effetti, libertà e autonomia erano parte integrante del tessuto connettivo che caratterizzava l’intera realtà faraonica ma che colpiva, in particolar modo, allorché veniva considerata dal solo punto di vista femminile. I primi visitatori greci dell’Egitto, come ad esempio il geografo Diodoro Siculo, rimasero non poco sconcertati dalla grande disinvoltura mostrata dalle donne nel loro ambito di convivenza. Limitati da una forma di mentalità alquanto riduttiva, essi non riuscivano a comprendere – e soprattutto ad accettare – l’importanza riconosciuta culturalmente, socialmente e giuridicamente all’altra metà del cielo.
Indubbiamente il ruolo femminile influenzò in maniera notevole la storia d’Egitto, a livello sia politico che sociale. Del resto, la parità tra i sessi incarnava un valore fondamentale che non venne mai intaccato prima dell’ascesa delle dinastie greche al trono faraonico. Fino ad allora le egizie vivevano in condizioni ancora oggi ineguagliabili per milioni di altre donne; tutto ciò che agli occhi contemporanei appare una conquista avrebbe certamente fatto sorridere con indulgenza quelle nostre antiche progenitrici. Non dimentichiamo che la civiltà del Nilo aveva fatto della bellezza (muliebre in particolare) un vero e proprio culto: nulla di più logico, dunque, che per il femminile vigesse la più alta forma di rispetto.
Contrariamente ai pregiudizi moderni, la donna dell’Antico Egitto non divenne mai competitiva con l’uomo in quanto, semplicemente, non era necessario: maschi e femmine erano considerati uguali legalmente e di fatto. Alla donna non era imposta alcuna tutela, agiva in piena autonomia anche nella gestione dei propri beni, era libera nelle proprie scelte di vita e non subiva discriminazioni di sorta. Aveva sempre l’opportunità di affermare il proprio nome e la propria personalità, nonché la propria capacità di essere cosciente e responsabile.
Alcuni frammenti del Papiro Harris (I, 79, 8-9, 13) riportano una dichiarazione del faraone Ramses III concernente il fatto che la donna egizia poteva recarsi ovunque desiderasse senza essere importunata: inutile ricordare quanto ai giorni nostri questo non sia più possibile, a causa del grande processo involutivo in atto.
Il fattore religioso ha certo giocato un ruolo notevole in tal senso: non va dimenticato infatti che, in linea generale, una civiltà viene plasmata su un mito o su un insieme di miti. Quella egizia, nella fattispecie, era totalmente permeata dall’emanazione di Iside, la dea madre, l’onnisciente, colei che deteneva il segreto della vita e della morte e si faceva garante della salvezza dei suoi fedeli (foto 1).
Contrariamente alla figura dell’Eva giudaico cristiana, tendente a suggerire una certa “inferiorità spirituale” della donna, Iside, in quanto incarnazione di perfezione assoluta, proiettava un riflesso positivo sulla figura femminile, che veniva sottratta a prerogative negative di corruzione e di conoscenza diventando a sua volta simbolo di colei che aveva saputo superare le peggiori prove giungendo al segreto della resurrezione.
La grande dea assurse così a modello supremo per donne di ogni classe sociale, che di lei percepivano l’innata abilità di varcare barriere insormontabili per mezzo di una fede incrollabile e di una grande forza morale.
In questi ultimi termini è certamente impossibile negare alle donne dell’epoca faraonica una destrezza non comune anche in seno alle molteplici difficoltà della vita quotidiana: la completa indipendenza di cui beneficiavano comportava infatti oneri niente affatto trascurabili sul piano della responsabilità individuale.
Tanto per cominciare, nessuna donna poteva essere indotta al matrimonio con un uomo a lei non gradito. Un padre non aveva il diritto di imporre pretendenti alla figlia (la sola in grado di prendere decisioni) e nessuna legge imponeva convivenze forzate. Colei che avesse optato per il nubilato, quindi, non sarebbe stata ritenuta irresponsabile per la gestione autonoma esercitata sui propri beni, di qualsiasi entità fossero. Alla verginità femminile non era attribuita grande importanza, dal momento che per entrambi i sessi le esperienze prematrimoniali erano non solo consentite ma anche auspicate, in vista di un eventuale matrimonio in cui la fedeltà reciproca avrebbe dovuto essere pressoché assoluta, così come l’assenza di violenze fisiche o psicologiche all’interno del nucleo familiare (e, del resto, la severità delle punizioni inflitte a chiunque si fosse reso colpevole di maltrattamenti contribuiva largamente a scoraggiare questa pratica oggi invece sempre più diffusa, a ulteriore dimostrazione del degrado morale incombente). Il rispetto era ritenuto basilare per la durata di un rapporto di coppia
L’unione matrimoniale non era in realtà sancita da alcun rito legale o religioso: il fatto stesso di convivere sotto lo stesso tetto bastava affinché due persone fossero considerate sposate a tutti gli effetti (foto2 -3). Talvolta i futuri sposi ricorrevano a contratti temporanei di matrimonio, intesi come forma di collaudo sentimentale: ma dopo sette anni di convivenza effettiva dovevano assolutamente definire il loro legame per fissare i diritti della sposa e degli eventuali figli nati nel frattempo. Il matrimonio era suggellato da una semplice formula: “Tu sei mio marito”, “Tu sei mia moglie”: a questo punto, l’uomo si incaricava di garantire il benessere della consorte in caso di divorzio.
Generalmente – e nonostante la carenza di leggi specializzate in materia – le unioni erano durature e soddisfacenti per entrambi i coniugi, anche se naturalmente non mancavano i divorzi. Le cause di rottura di un legame andavano attribuite ai disaccordi, al disamore per il partner e il conseguente desiderio di iniziare un nuovo rapporto amoroso, ai conflitti di interesse e, in primo luogo, all’adulterio. In caso di separazione consensuale, l’uomo e la donna venivano convocati da un apposito tribunale per esporre le rispettive ragioni e chi decideva di abbandonare il tetto coniugale era poi tenuto a corrispondere all’altro un debito risarcimento materiale. La burocrazia divorzista egizia non contemplava l’accusa infondata di adulterio, formulata dai mariti per puro spirito di vendetta. Se ciò fosse avvenuto, la donna avrebbe giurato davanti al coniuge e ad alcuni testimoni di non essere incorsa in avventure extraconiugali. A questo punto sarebbe stata scagionata da qualsiasi sospetto, poiché nell’Antico Egitto il giuramento impegnava l’intera persona e, se falso, ne avrebbe comportato la condanna definitiva del tribunale ultraterreno (l’individuo bugiardo perdeva insomma la possibilità di vita eterna).
Per parte sua, il marito autore della falsa accusa sarebbe stato costretto a risarcire la sua vittima in base agli accordi stabiliti nella fase preliminare del contratto di convivenza.
In caso di vedovanza, la moglie ereditava tutti i beni familiari. Riservandone un terzo per sé, provvedeva a suddividere il rimanente tra i figli, in proporzioni uguali sia per i maschi che per le femmine. Con una nuova unione non avrebbe dovuto temere di perdere ciò che possedeva, così come il matrimonio non aveva potuto privarla del diritto di continuare a usufruire del proprio nome.
In ambito sociale, ogni donna sceglieva il suo stile di vita. Poteva badare esclusivamente alla casa oppure esercitare una qualsiasi attività lavorativa. È emblematico il fatto che mentre ancora adesso in Italia si discute sull’opportunità di allargare le quote rosa in Parlamento e nelle pubbliche istituzioni o ci si stupisce per l’accesso femminile a incarichi tradizionalmente ritenuti maschili, l’Antico Egitto concedeva alle donne innumerevoli possibilità di realizzazione professionale nelle attività che caratterizzavano la corte faraonica, ad eccezione dell’esercito. Si registrano casi di donne incoronate faraoni (la prima a essere insignita del titolo di “re dell’Alto e Basso Egitto” fu Nitocris, salita al trono intorno al 2184 a.C.; basterebbe comunque citare i nomi di Sobeknefrure – sorella o moglie di Amenemhet IV, Hatshepsut (foto 4), o Nefertiti (foto 5-6), per citare qualche esempio); e da un’iscrizione risalente all’Antico Regno (stele di Abido, CG 1578) ci giunge addirittura notizia di un visir in gonnella, tale Nebet, moglie di Khui.
Una donna poteva facilmente trovarsi alla direzione di una provincia, di una città, di una circoscrizione amministrativa; aveva facoltà di ottenere la carica di ispettrice del Tesoro, Capo delle Stoffe e della Casa della Tessitura, dei Cantori, delle Danzatrici della Camera delle Parrucche e così via. Una tomba di Saqqara (foto 7) offre l’interessante testimonianza su Idut, nominata Proprietario di Tenuta, titolo normalmente riservato agli uomini. Dalle iscrizioni che affrescano le pareti della sua dimora eterna, sappiamo che Idut si spostava spesso con una barca (circostanza assai inconsueta per una donna) contenente il materiale da scriba (tavoletta, calamai, inchiostri, papiro): il che significa che sapeva leggere e scrivere e aveva una certa familiarità con i geroglifici.
All’epoca faraonica, l’istruzione femminile era piuttosto diffusa persino tra il ceto sociale più umile, com’è comprovato sia dalla corrispondenza che alcune donne del villaggio di Deir el Medina - mogli di tagliatori di pietre, disegnatori, pittori, braccianti – intrattenevano con uomini ai quali sottoponevano i loro problemi quotidiani, sia da comuni liste di panni da lavare rinvenute nel corso degli scavi.
Vi erano anche casi frequenti di donne molto stimate in campo medico: bendatici, ostetriche, massaggiatrici, chirurghi. Iniziavano, al pari dei loro colleghi maschi, con incarichi di specializzazione per poi aspirare ai vertici della carriera, rappresentati dai medici generici. La medicina – scienza in cui l’Egitto eccelleva – era concepita in modo totalmente opposto al nostro; sacro e profano vi si sovrapponevano inevitabilmente, cosicché un medico che conosceva il segreto del “funzionamento del cuore” non poteva ignorare che quest’ultimo era certo un muscolo cardiaco ma anche, contemporaneamente, centro di energia e origine dei “vasi”, ossia delle vie di circolazione della vita nell’intero organismo. Il sistema sanitario egizio riservava molta attenzione alla salute femminile, in virtù della grande importanza sociale riconosciuta alla donna. Importanza che, va sottolineato, non veniva meno neppure tra le pareti domestiche.
Il titolo di “padrona di casa” (risalente al Medio Regno) era tutt’altro che riduttivo: indicava, al contrario, l’insieme delle funzioni che sin dalle origini della civiltà egizia la donna aveva esercitato.
Essa “regnava” sulla propria “casa”, intesa come un conglomerato di persone e di beni che va decisamente oltre i limiti del nucleo familiare e si estende anche ai domestici, agli animali, alle terre coltivabili e talvolta ad attività artigianali.
Non è azzardato affermare che la donna si trovava a detenere il dominio di un vero e proprio impero personale. Il saggio Ani soleva ripetere agli uomini parole che, lette oggi, acquistano una rilevanza ancora più particolare: “(…) Ammira il suo lavoro e taci. Invece di brontolare e criticare, è meglio aiutarla secondo i suoi desideri: non è forse felice quando la mano di suo marito è nella sua? (…)”. In casa, la figura femminile era fondamentale: a lei spettava la preparazione dell’alimento base, il pane-birra (foto 8). Doveva setacciare, macinare, impastare, battere i cereali; l’uomo, a sua volta, aveva il compito di cuocere e di svolgere i lavori agricoli come fare il vino, salare e seccare la carne, preparare i pesci e, spesso, cucinare. Uomini e donne condividevano equamente le mansioni domestiche, senza mai sottrarsi ai rispettivi impegni.
I figli di entrambi i sessi ricevevano dalla madre un’educazione identica, il cui fulcro era rappresentato dal rispetto e dalla conoscenza di Maat, la Regola universale (foto 9).
In termini di mera quotidianità, ciò si traduceva in termini di amore per la verità e odio per la menzogna, negazione di eccessi e passioni distruttive, senso di umiltà e solidarietà, capacità di ascoltare e parlare a proposito, rispetto della parola data, correttezza nelle azioni e ammissione dell’esistenza del sacro in ogni luogo.
Il rapporto con i figli rifletteva profondamente il senso del mistero racchiuso nell’esistenza. Ecco perché una madre incarnava la dea Iside sin dal momento del parto: ciascuna di esse disponeva si una raccolta di formule per proteggere se stessa e il neonato dalle forze oscure e negative che avrebbero potuto subentrare a turbare un raggiunto equilibrio. Non di rado veniva fatto ampio ricorso a una serie di amuleti e talismani contro la morte, considerata parte integrante del processo cosmico o più semplicemente una tappa della vita intesa oltre la nascita e il decesso fisico.
Va sottolineato che, a differenza di ciò che avveniva nell’antica Roma o nella Grecia classica, anche sul piano della pianificazione familiare le femmine non subirono mai discriminazioni. L’arrivo di una femmina in seno a una famiglia era considerato un evento lieto quanto quello di un maschio.
La privilegiata situazione delle egizie, tuttavia, non era destinata a durare nel tempo. Con l’ascesa al trono faraonico di Tolomeo Filopatore (221-205 a. C.) le donne furono ridotte al medesimo livello delle greche. Private di qualsiasi libertà giuridica e commerciale; furono affiancate da un tutore e videro improvvisamente svanire la loro uguaglianza con gli uomini.
Da protagoniste della vita sociale divennero individui insignificanti, sottomessi e dipendenti dall’autorità maschile. Il cristianesimo – e in seguito l’islam – rinareranno poi la dose, relegandole a uno stato di inferiorità anche spirituale che, in alcune zone del mondo, seguita purtroppo a persistere.
Rita A. Cugola
Letteratura, pittura e scultura: quasi cent’anni e non sentirli!
di Viviana Emilia Spada
Letteratura, pittura e scultura: quasi cent’anni e non sentirli!
Aldo Trucco, il Ligabue della provincia di Imperia
Non sempre invecchiare rende più deboli. Anzi. E non succede solo al buon vino. Aldo Trucco, quasdi alla soglia dei cent'anni, ci dimostra come l'arte serve a restare giovani arricchendosi con la saggezza regalata dal tempo e dalla ricerca interiore.
Diano Borello è una frazione del comune di Diano Arentino, comune che si trova nell’immediato entroterra del Golfo Dianese, nella provincia di Imperia. Qui c’è una casa candida decorata con migliaia di piastrelline bianche e azzurre e il viandante si chiede: chi ci abiterà? Arabi, greci, orientali, artisti tedeschi o norvegesi, tutti eclettici personaggi stranieri che popolano da anni queste belle vallate? Nulla di tutto ciò. L’arcano è presto rivelato: qui dimora Aldo Trucco, novantotto anni, novantanove il prossimo mese di agosto, e non sentirli!
Conosciuto sei anni fa tramite una comune amica, anche lei ottuagenaria, pittrice dilettante (la zona è particolarmente ‘ricca’ di questi personaggi…), Aldo è diventato presto un amico caro e sincero: un ‘piccolo grande uomo’, umile e riservato e con una grande fede che rapisce, commuove e affascina anche chi credente non è, che ha dedicato la sua vita alla famiglia e al lavoro (contadino prima e piastrellista poi, da qui le mille tessere che abbelliscono il suo uscio), senza mai trascurare la sua smisurata passione per l’arte e la letteratura che gli ha permesso di colmare negli anni le lacune dovute alla scarsa istruzione dovuta alle circostanze della sua epoca, mentre la vita e l’esperienza gli hanno regalato una saggezza e una filosofia di vita fuori del comune. Egli schiude il suo mondo fatto delle semplici cose d’ogni giorno quando si parla della sua vita e delle sue opere: comincia così a narrare, a spiegare, a mostrare i suoi lavori e le ore con lui scorrono veloci.
Pittore, poeta, scrittore e tuttofare egli è nato il 2 agosto 1913 a Diano Borello, sotto il segno del Leone. Ha fatto e sa fare di tutto: intaglia il legno, esclusivamente d’olivo, per fabbricare le cornici in cui incastona le sue tele; crea graziose intarsi con fiori di campo per decorare la magnifica ringhiera della scalinata interna alla casa e realizza piccole casette che riproducono le tipiche case liguri con le ‘ciappe’ sui tetti. Oltre a ciò, dipinge, quasi esclusivamente a olio, e tra le sue opere si possono ammirare alcuni ritratti e tanti paesaggi tipici dell’entroterra dianese, con una speciale predilezione per i numerosi ponti e ponticelli che attraversano i tipici rii, ma tra le sue opere pittoriche si trovano anche, eseguiti a china, molti ritratti e riproduzioni fedelissime di grandi opere religiose di Raffaello, Andrea della Robbia, Palma il Vecchio e tanti altri. Nel Golfo Dianese il pittore-contadino, soprannominato il Ligabue di Borello, è una piccola celebrità ed è già un po’ leggenda, soprattutto dopo che, nell’aprile del 1994, il compianto e stimato critico d’arte Rodolfo Falchi, gli dedicò una personale al Palazzo del Parco di Diano Marina che conseguì grande successo di critica e pubblico.
La sua profonda e sincera fede cristiana emerge in modo particolare, oltre che nei dipinti, anche e soprattutto nelle sue composizioni poetiche in cui il profondo legame che Aldo Trucco ha con la bellezza della natura in tutte le sue manifestazioni, si esprime nell’immagine di un Dio creatore cui egli rivolge il suo ringraziamento per ciò che lo circonda e può esaltare nelle sue opere, sia pittoriche sia letterarie, senza dimenticare però l’ironia e l’allegria che ritroviamo in alcune simpatiche e divertenti filastrocche che sanno strappare ben più di un sorriso…
Riguardo queste ultime la sua florida produzione comprende appunto, oltre alle magnifiche poesie, racconti in dialetto ligure (A Montagna de veder, racconto, 2001; Dinci e Netta, commedia, 2002; Tantu pe cumensâ, commedia, 2003; Sulu in tempu, commedia, 2004; tutti editi da A. Dominici-Imperia Castelvecchio), con i quali, al concorso del comune di Diano Arentino ‘Scürlussue e Cicciuebelle’, ha vinto in diverse edizioni, due medaglie d’oro, una d’argento e una di bronzo.
Per il Centro Editoriale Imperiese d’Imperia ha pubblicato nel ‘Briciole’ (2003), una delicata raccolta di personali aforismi, ricordi di guerra e di vita davvero esilaranti, racconti e poesie, narrate in prima persona o per voce del bagolaro, l’enorme pianta datata 1825, che fa da sentinella davanti alla chiesa di San Michele Arcangelo a Diano Borello; le raccolte di poesie ‘I fiori del pensiero’ (2008) e ‘Munta lì che ti vei Zena’ (2009), mentre nel 2005 ha stampato in proprio il racconto popolare ‘Pipetta’.
Nello scorso mese di dicembre, sempre per il Centro Editoriale Imperiese, ha dato alle stampe la sua nona fatica letteraria ‘Storia di un guscio’ in cui, la sorprendente accompagnatrice in questo viaggio, è nientemeno che una lumaca che interloquisce con l’autore, conducendolo e conducendo i lettori in un mondo fiabesco, reale e a tratti anche surreale, dove protagonisti sono strani ‘umani’ e fantastici animali. Un florilegio di racconti, accompagnati da divertenti filastrocche che appartengono alla memoria (o alla fantasia?) di Aldo Trucco e anche alla nostra. Un’ennesima testimonianza del grande amore che lo scrittore ha per i suoi simili ai quali dona preziosi tasselli di un mondo che, se non già scomparso, si sta sempre più dissolvendo.
Ci sono molte ricchezze che una persona può contare nella sua vita, ma ritengo che la più importante sia quella di avere l’opportunità di incontrare nella propria vita persone eccezionali. Io ho avuto questa grande fortuna con il privilegio d’incontrare l’amico Aldo e la sua meravigliosa famiglia.
Auguro a tutti i lettori di avere l’opportunità di conoscere esseri umani come lui, così come auspico che nel leggere le poesie di Aldo, tanti sappiano comprendere e apprendere quello stupore e quell’incanto che egli ha saputo infondere in modo magistrale ai suoi versi nel celebrare quest’universo affascinante e misterioso. So che, probabilmente, mentre scrivo questa prefazione, starà già lavorando alla prossima avventura letteraria: la decima! Non vediamo l’ora e, dicci Aldo, se potrai, a quante arriverai per festeggiare il tuo prossimo secolo di vita…
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