Sciolti

Anatomia di una casa editrice

di Sara Meddi

pacchetti

 

L'Orma è una nuova casa editrice romana che sta riscuotendo il plauso degli addetti ai lavori e dei lettori. Uno dei fondatori è Lorenzo Flabbi, con il quale ripercorriamo il progetto, alle collane con i primi libri in uscita. Una sfida editoriale che si sta dimostrando vincente...

 

La prima domanda è ovviamente banalissima ma essenziale, ed è “perché”? Perché aprire una nuova casa editrice?

Questo è stato un progetto lungamente covato tra me e Marco, il mio socio. Abbiamo vissuto a lungo fuori dall’Italia e abbiamo iniziato a pensarci mentre vivevamo assieme a Berlino. Ci sono almeno due forti motivazioni diverse: una è di natura esistenziale, ovvero è il tentativo di condividere all’esterno il rapporto tra me e Marco. Noi siamo due uomini di lettere, legati da un rapporto di amicizia molto raro e l’idea che ciò che passava attraverso le nostre conversazioni si sarebbe potuto tramutare in qualcosa di condivisibile ha cominciato a prendere forma nell’idea della casa editrice. Editorialmente abbiamo già lavorato in altri campi, entrambi traducendo, io dirigo una collana di saggi di letteratura comparata per Le lettere che si chiama “SguardoMobile” alla quale lavora anche Marco. E proprio mentre stavamo lavorando a uno dei saggi per “SguardoMobile”, che è L’idiota di Paolo Febbraro, ci siamo accorti di come questa elaborazione intellettuale aperta anche a Paolo diventasse ancora più fertile. Quindi per noi la casa editrice è un modo di fare ricerca collettivamente e questo mi porta alla seconda motivazione. Noi pensiamo che ci sia necessità di fare ricerca su progetti culturali di spessore, e questo a dispetto magari dell’idea secondo la quale in Italia sia in atto una desertificazione culturale e a dispetto degli indici di vendita dei libri. Per un prodotto culturale come L’Orma pensiamo che ci sia ancora spazio perché non andiamo a inseguire un’idea mainstream della cultura, anzi forse una delle nostre sfide principali è quella di tentare di non avere idee ricevute. La rottura degli stereotipi è per me una missione esistenziale che vale una vita, chi dice che negli stereotipi c’è sempre un fondo di verità mente, anzi gli stereotipi veicolano molto spesso posizioni reazionarie. La casa editrice ti dà davvero la possibilità di rompere questi stereotipi, fare l’editore ti dà la possibilità di mettere in discussione tutte le idee ricevute, anche le tue.

 

Molto concretamente su cosa è nata la casa editrice… c’è stato un progetto, un autore? Qual è stata la prima pietra?

Avevamo una tale compressione di voglia di fare per cui da un unico “parto creativo” è nata una casa editrice che sarà più composta di come è adesso e di come sarà nei primi tre anni. Ci interessava la letteratura “di lingua” più che “di trama”, per noi è molto importante il modo in cui si dice una cosa. La nostra fisionomia è letteraria, e adesso è di letteratura francese e tedesca e così resterà per un po’ di tempo. Però già solo questo perimetro è declinabile nelle collane che abbiamo già lanciato. “Kreuzville” si occupa di letteratura contemporanea, con “Le Omnie” ci volevamo confrontare con un lavoro accademico e di spessore, infatti partirà l’opera omnia di Hoffmann tra un paio di mesi, i “Pacchetti” sono invece dei brevi epistolari e sono in libreria già da fine novembre. Quindi non c’è una sola collana dalla quale siamo partiti, c’è stata una compressione di idee.

 

I “Pacchetti” mi piacciono moltissimo, ti dico la verità, ma proprio tanto tanto tanto. Come sono nati e come si è svolta la raccolta del materiale? Non è proprio banale fare una selezione tra le lettere di Leopardi di quelle che parlano della felicità…

Intanto posso dirti con precisione dove è nata la collana… a Berlino, su un divano blu e uno blu scuro. Io e Marco eravamo appunto nella nostra casa a Berlino e parlando lì, su quei due divani, è nata l’idea dei libri con la sovracoperta, da affrancare e da spedire. Abbiamo detto “Ma se invece ci fossero delle alette anche qui che si chiudono…”, quindi era nata come idea per i libri più grossi, all’inizio l’idea era quella dei “Pacchi” da declinare poi anche nei “Pacchetti”. Come possibile primo libro per questi “Pacchi” avevamo pensato a un romanzo epistolare Le relazioni pericolose, così il contenuto epistolare sarebbe andato insieme alla forma epistolare. E la collana andava a rispondere anche a quella necessità di comunicazione di cui ti parlavo prima. La scrittura romanzesca può avere come destinatario anche lo scrittore stesso mentre un epistolario ha per forza un destinatario, e così torniamo all’idea della letteratura come darsi. Quando abbiamo iniziato a buttare giù i titoli e i nomi quello di Leopardi andava incontro all’idea di rompere i luoghi comuni, come dicevamo prima. Leopardi è uno dei più grandi uomini della cultura italiana e mondiale, e di Leopardi esiste un canone scolastico molto banalizzante che interpreta Leopardi come emblema stesso di un’idea “triste” della letteratura. Leopardi non si può certo dire che sia un’ottimista però era un uomo animato da un’ardente concezione della vita e il titolo che abbiamo scelto, Con pieno spargimento di cuore, è molto fedele a uno spirito leopardiano. Prendere nel vastissimo epistolario di Leopardi delle lettere in cui si parlava della felicità in senso new-age era impossibile però farsi spiegare da un uomo di quella intensità di pensieri e di emozioni cosa sia la felicità è molto più interessante che farselo spiegare da una persona che ha un perimetro esistenziale molto più stretto.

 

Avete scelto prima gli autori o prima il tema?

Prima gli autori. Gramsci che parla dello studio è molto vicino alla nostra idea di Gramsci però prendere come primi due italiani Leopardi e Gramsci non è casuale. Dovendo sceglierne due direi che sono i due più grandi pensatori della modernità italiana. Anche per Baudelaire e Nietzsche… prima gli autori, sì.

 

“Tradurre in Italia quello che si muove in Europa”, è questo lo slogan della casa editrice. Cosa si muove in Europa?

La risposta sta nel nome che abbiamo dato alla collana, “Kreuzville”, che è la fusione tra il nome di due quartieri Kreuzberg a Berlino e Belleville a Parigi. Quartieri scelti non a caso ovviamente e nemmeno le città. Parigi è stata la capitale culturale d’Europa per tutti il XIX secolo, Berlino è la città che più di chiunque altra rappresenta la storia tragica ma anche di grandi risollevamento del XX secolo. Però questi due quartieri, Kreuzberg e Belleville, sono due quartieri in un certo senso molto poco francesi e molto poco tedeschi, sono due quartieri di stratificazione culturale e di grande vitalità, qui ci sono dei miscugli di cultura che non sono dei grumi attaccati l’uno all’altro ma che sono già in sé una nuova realtà, che è quella in cui noi viviamo già adesso e che tra dieci anni vivremmo ancora di più. Pensa all’Esquilino qui vicino. Quindi ci interessava vedere quali fossero i risultati di questa stratificazione senza dire “bene” o “male” ma “questo è quello che sta succedendo”.

 

Che autori avete scelto?

Il primo autore che abbiamo pubblicato è basco-francese, ambienta il suo libro a Belleville ed ha come tema dominante quello del “diverso” inteso come un “diverso pericoloso”. Quindi ci sono queste persone con un gruppo sanguigno diverso che vengono considerate portatrici di un’epidemia… oltre al valore letterario il tema del “diverso” è quello che ci ha convinto.

I due libri che abbiamo in uscita adesso, La ragazza di Angelika Klüssendorf e La petite di Michèle Halberstadt, sono due libri che affrontano il tema dell’infanzia, ci sono due ragazzine che in modo molto diverso affrontano il percorso per diventare donna, sono due romanzi di formazione.

 

Siete in libreria da pochi mesi, avete già avuto modo di vedere un riscontro da parte dei lettori…

Abbiamo avuto un’accoglienza assolutamente sorprendente, in positivo, rispetto anche alle nostre stesse previsioni. Andando così a confermare il nostro sospetto che ci fosse il desiderio di un progetto di questo tipo. In Italia c’è tanta voglia di cose belle. C’è tanta gente, non maggioritaria certo, ma tanta gente che è molto colta e molto intelligente. Parliamo spesso della fuga dei cervelli come se tutti i cervelli se ne fossero andati via e invece c’è un sacco di gente intelligente. E l’accoglienza festosa che L’Orma ha ricevuto, nel nostro piccolo certamente, è una dimostrazione di questo. Abbiamo fin da subito un’ottima accoglienza da parte della stampa e poi da parte per esempio della distribuzione, tra i distributori un progetto come il nostro che i più disincantati avrebbero potuto pensare essere senza futuro ha riscosso invece molto successo, tanto che ci siamo trovati ad essere contesi e a scegliere infine per Messaggerie che con molto coraggio ha puntato su una casa editrice con solo un progetto ma con zero libri. I “Pacchetti” al momento stanno andando molto bene, la “Kreuzville” un po’ meno perché ovviamente i libri che escono sono tantissimi, ma ci siamo trovati dopo pochi mesi ad avere già un’ottima visibilità, e non tanto perché siamo bravi noi ma perché anche nel momento di maggiore crisi nella storia dell’editoria c’è voglia di queste cose.

 

Conversazione sulla letteratura

di Sara Meddi

vincenzo ostuni

Vincenzo Ostuni ha collaborato con alcune delle più importanti case editrici romane, fra cui Fazi e minimum fax. Ora lavora come editor per Ponte alle Grazie. La sua conoscenza spazia dalla saggistica alla narrativa, passando attraverso la poesia, di cui è un profondo estimatore (scrive versi lui stesso, da sempre). Che cosa trasforma questa passione in um mestiere? Cosa serve, oggi, per arrivare dove è arrivato lui?

 

Caro Vincenzo, tu hai studiato Filosofia e Psicologia. Ognuno di noi ha un percorso diverso, tu come ti sei avvicinato all’editoria?

Io mi sono sempre interessato di letteratura, anche durante i miei studi, e in particolare ho sempre scritto poesie. Nel ’91 ho partecipato a un concorso di poesie e lì ho conosciuto un po’ di persone con cui poi ho fatto un cenacolo poetico. Tra queste persone c’era Marco Cassini, che poi ha fondato prima la rivista e poi la casa editrice minimum fax, e Simone Caltabellota che è stato editor e direttore editoriale di Fazi. Quando facevo il dottorato in Filosofia la borsa di studio non mi era sufficiente per vivere così Marco Cassini mi offrì un lavoro part-time come segretario di redazione della rivista Lo Straniero, che all’epoca era pubblicata da minimum fax. Così sono rimasto nell’editoria, prima da minimum fax e poi da Fazi come editor. Mi sono avvicinato un po’ per caso quindi, è stato un secondo mestiere che poi è diventato un primo mestiere.


Tu, appunto, hai lavorato per diverse case editrici (minimum fax, Fazi, Ponte alle Grazie), ogni casa editrice è un progetto a sé e ogni libro anche è un progetto a sé. Mi interesserebbe però sapere se c’è un progetto o un libro che ti è rimasto particolarmente nel cuore.

Il progetto, o l’idea, alla quale sono più affezionato è quella che si possa coniugare la letteratura con un progetto destinato a un pubblico ampio. Sono molto affezionato quindi al progetto della saggistica di Fazi per come, tra gli anni 2002 e 2007, andavo a svilupparlo. “Le terre” era una collana molto articolata che dava spazio all’attualità politica e che ha avuto dei successi importanti come, per esempio, con i libri di Gore Vidal e che, allo stesso tempo, è riuscita a produrre della saggistica di altissimo livello, penso alla serie “Pensiero” in cui pubblicammo libri di filosofi importanti come Nozick e Putnam e alla serie “Arte” nella quale pubblicammo testi storici come "Postmodernismo" di Fredric Jameson, ancora inedito in italiano. E penso anche alla serie in cui riuscimmo a convincere gli scrittori più interessanti dell’ultima generazione a parlare di temi di storia culturale, quindi Nicola Lagioia scrisse di Babbo Natale, Francesco Pacifico di San Valentino, Paolo Zanotti dei gay. 
Da Ponte alle Grazie adesso stiamo lavorando, nella collana “Scrittori”, per creare un contenitore per le scritture di punta che si possono trovare oggi in Italia e non solo in Italia.

 

Riflettendo sulla narrativa e sulla tua esperienza con gli editori, mi viene da chiederti: cosa inviavano alle case editrici gli aspiranti esordienti di dieci anni fa e cosa invece inviano adesso?

Questa è una domanda interessante. Non c’è un enorme cambiamento devo dire.  Quando io ho iniziato a valutare manoscritti c’era già un’omologazione verso il basso o comunque un livello generale molto basso, ma questo può essere stato vero anche negli anni ’50 o negli anni ’20, non ho i mezzi per valutarlo. Sicuramente oggi arrivano più romanzi di genere e, in particolare, di genere poliziesco o thriller rispetto a quanti ne arrivassero dieci o quindici anni fa. Io ricordo che prima riscontravo una più alta percentuale di esperimenti letterari, magari del tutto pretenziosi, che si rifacevano di più alla grande tradizione letteraria del ‘900. Adesso, forse più facilmente, si strizza l’occhio a quei generi che hanno più presa sul pubblico, senza avere grandi pretese stilistiche, ecco.

 

Tu ti sei occupato molto di poesia che forse è il genere meno letto e meno venduto oggi in Italia. Personalmente quale pensi che sia lo stato di salute della poesia italiana? C’è ancora spazio per fare poesia?

Io mi sono sempre occupato di poesia e, paradossalmente, non ho mai pubblicato molta poesia proprio perché oggi pubblicare poesia è molto difficile. Per Ponte alle Grazie ho pubblicato un solo libro di poesia, che è andato abbastanza bene e che è Che cosa è per me la tua bocca di Cummings. Però, appunto, è molto difficile fare collane di poesia di ricerca e in particolare di poesia contemporanea. Tuttavia lo stato della poesia italiana è molto buono e ho cercato di darne testimonianza in un’antologia di poeti contemporanei che ho curato per la casa editrice Ponte Sisto che si chiama Poeti degli Anni Zero, poeti dai 30 ai 45 anni circa che secondo me danno un buon quadro della poesia, di una poesia non retriva, non svenevole, non lamentosa. Un certo tipo di poesia molto tradizionale, molto tradizionalmente lirica, predomina invece nelle poche collane di poesia che sono rimaste, le maggiori di fatto sono solo due, Mondadori ed Einaudi. Entrambe continuano a fare un lavoro importantissimo e di grande qualità per quanto riguarda la poesia straniera mentre per quanto riguarda la poesia italiana sembrano orientate al ribadimento di un gusto molto conservatore. La grande difficoltà, quindi, di pubblicare e distribuire poesia contrasta con un livello di sperimentazione ed elaborazione che è invece molto alto, molto più alto secondo me di quello che si poteva riscontrare negli anni ’80 e ’90.

 

Sappiamo bene che nonostante la crisi, e la crisi nell’editoria in particolare, in tanti giovani è ancora viva la voglia di lavorare nell’editoria. Tu che consigli ti senti di dare a questi ragazzi?

Penso che il consiglio sia quello di seguire le proprie aspirazioni, se rinunciamo a farlo, se smettiamo di essere “choosy” siamo rovinati. I problemi della tua generazione non sono tanto diversi da quelli che ha avuto la mia di generazione, diciamo che dai 40-45 anni in giù abbiamo  più o meno avuto gli stessi problemi di precarizzazione, di scarsità di lavoro. Quando io avevo 26-27 anni ed entravo nell’editoria il tasso di disoccupazione giovanile era simile a quello di adesso, poi è diminuito a causa della precarizzazione e poi è fisiologicamente aumentato nuovamente nel tempo. Io a 27 anni vivevo lo stesso tipo di precarietà con la quale vi confrontante voi. Quindi se volete davvero lavorare nell’editoria provateci, dopodiché bisogna essere il più aggiornati possibile su tutte le frontiere che si stanno dischiudendo, come l’editoria elettronica. È sempre più facile che una parte del mercato si evolva in quella direzione, ed è comunque più facile trovare lavoro nei settori dell’editoria elettronica perché gli editori al momento non investono quasi in nulla però, se investono, investono in quello. È presumibile che quel settore cresca nei prossimi anni quindi è importante essere preparati su tutti gli aspetti sia tecnici e sia qualitativi del testo. E poi inviterei a fare delle riflessioni importanti sul regime di vita, il desiderio di lavorare nell’editoria c’è sempre stato perché indubbiamente è un bel lavoro ed è altrettanto vero che è difficile avere dei compensi alti. Quindi se l’aspirazione, che è del tutto legittima, è quella di avere uno stile di vita alto, se si pensa di non poter tirare la cinghia allora tanto vale rinunciare in partenza e cercare un’altra soluzione. Se invece si è disposti a sopportare delle restrizioni economiche per lavorare in questo settore allora vale assolutamente la pena provare a perseguire le proprie aspirazioni.

La passione di Francesca

di Sara Meddi

francesca pieri

 

Chi lavora nel mondo dell'editoria lo fa per vocazione, visto che i soldi non sono e non saranno mai molti. Come Francesca Pieri, ex ufficio stampa di Newton Compton ora legata a nuovi progetti editoriali. Una donna con una importante esperienza alle spalle in un settore che richiede una forte preparazione. Qui ci racconta di un mestiere non sempre facile, ma certamente assai stimolante...

 

Cara Francesca,

sembra che ogni lavoratore dell’editoria abbia una storia professionale diversa. Tu come sei arrivata a fare questo lavoro? Puoi parlarci della tua formazione e della prima “gavetta”?

Ho studiato lettere con passione e coltivando questa passione ho cercato di costruire il mio percorso professionale. Dopo due anni di collaborazione a un progetto di ricerca universitario, ho frequentato alla Luiss una scuola di specializzazione dedicata al Management della cultura. Da lì ho sostenuto uno stage alla Casa delle letterature, istituzione del Comune di Roma. Ne sono seguiti anni importanti che mi hanno avvicinato al mondo dell'editoria, nell'organizzazione delle prime due edizioni di Letterature, festival internazionale di letteratura promosso dal Comune di Roma, e poi della seconda edizione di Più libri più liberi, fiera nazionale della piccola e media editoria. Così ho incontrato quello che è stato il mio primo editore, Sergio Fanucci, e da lui ho avuto il mio primo incarico di ufficio stampa. Da lì ha preso avvio il resto. Sono dieci anni che mi dedico a questo lavoro.

 

Al di là della formazione accademica quali pensi che siano le qualità necessarie per essere un buon ufficio stampa?

Interesse per i contenuti: prima leggere e poi chiamare un giornalista, è la regola d’oro! E poi… Buona dialettica (è pur sempre un lavoro di comunicazione e mediazione). Capacità di entrare in relazione con interlocutori diversi (autori, giornalisti, agenti, librai…). Curiosità: si possono trovare stimoli, sollecitazioni, spunti, chiavi d’interpretazione nei luoghi più disparati, dai siti internet ai social network, dalla stampa, alla radio, la televisione; entro i circuiti di dibattito editoriale e letterario in senso stretto, come inaspettatamente tra le righe di un pezzo di costume, nel manifesto che annuncia l’uscita di un film o una mostra. Versatilità, intesa come capacità di utilizzare registri diversi, individuare interlocutori adatti a ogni singolo argomento; affrontare argomenti e interessi diversificati. Aggiornamento e nel senso di capacità di fiutare le direzioni in cui si muove la comunicazione e da un punto di vista dei mezzi (si è passati strumenti convenzionali - carta strampata, radio e tv - alle testate on line, blog, social network in un tempo brevissimo). È fondamentale inoltre tenere sempre uno sguardo aperto su quanto succede all’estero sia per quel che riguarda il mercato editoriale, sia per la maniera in cui è gestita la comunicazione; a su quanto fanno gli altri editori, i diretti concorrenti come quelli che fanno cose totalmente diverse dalle nostre!

 

Puoi parlarci di una tua giornata tipo? Come si svolge la quotidianità di un ufficio stampa in casa editrice?

La giornata tipo di un ufficio stampa include alcuni passaggi insostituibili: lettura dei giornali e dei principali siti di informazione. Un po' di tempo dietro a social network, sguardo sugli interessi personali. Aggiornamento in generale sugli assetti di redazione e sui palinsesti radio tv.

C’è poi la posta ordinaria che stabilisce urgenze e priorità.

Parte di tempo riservata ai libri a cui si sta lavorando (il tempo della lettura che spesso ci accompagna a casa), a conoscere gli autori, a studiare piani di comunicazione.

C’è poi il telefono, altro strumento fondamentale che consiglio sempre di utilizzare in maniera sensata e parsimoniosa. L’assillo è deleterio, da non confondere mai con l’incisività e l’efficacia di una buona strategia, di un’appropriata mediazione dei contenuti.

Ci sono poi i libri da spedire, le schede stampa da elaborare. Riunioni di redazione, presentazioni. L’invio dei comunicati.

E un sacco di imprevisti!, preferibilmente fuori dall’orario di lavoro… copertine che non sono arrivate, interviste che saltano, libri dispersi nelle redazioni dei giornali, sulla scrivania dei giornalisti…

 

Nel tuo lavoro c’è stato un libro che ti ha regalato particolari soddisfazioni?

Due in particolare, entrambi legati agli anni di lavoro con la Gallucci editore (http://www.galluccieditore.com/index.php?c=home). Nel 2005 ho avuto l’onore e la fortuna di lavorare al primo libro per ragazzi di Rita Levi Montalcini, Eva era africana, Ricordo ancora le due pagine di intervista firmata da Natalia Aspesi. Al tempo Gallucci era agli inizi. Pochi libri in catalogo, ambizioni già evidenti; un lavoro da pionieri. E poi la sua partecipazione alla fiera internazionale del libro per ragazzi di Bologna: un cerimioniale della fiera mobilitato per lei; i bambini che pendevano dalle sue labbra, la televisione. Una grandissima soddisfazione, un’occasione irripetibile.

Nel 2008 c’è stata poi La creazione di Carlo Fruttero, il suo primo componimento per bambini, una produzione importante che ci portò direttamente da Fabio Fazio. Un successo editoriale e di critica unico.

Devo dire di essere stata fortunata: nel corso degli anni ho fatto incontri meravigliosi, Scarpelli e Monicelli che hanno portato Brancaleone ai bambini, artisti di fama internazionale come Fabian Negrin e molti altri ancora. A ciascuno di loro devo un pezzo della mia crescita, della mia maturità. Di questo sono molto riconoscente al mio mestiere.


Durante la tua esperienza che idea ti sei fatta dell’editoria romana? Quali sono i punti di forza e di debolezza rispetto all’editoria milanese?

Conosco molto bene il mondo dell’editoria romana, gli entusiasmi che lo animano, lo slancio che lo accompagna e che lo distingue in iniziative e novità. Ho visto nascere e crescere progetti editoriali, marchi, casi letterari; un fermento che non si è esaurito, tuttaltro: è di pochi mesi l’avvio del L’Orma editore tanto per citarne uno. D’altra parte non potrebbe essere diversamente in un contesto così pieno di sollecitazioni e vitalità culturale. Ma non metterei l’editoria romana in relazione all’editoria milanese nei termini di un confronto. Contesti talmente diversi, un diverso modo di interpretare l’impresa editoriale. Due mondi che ho visto nel tempo avvicinarsi, al di là dei luoghi comuni che rinfacciano a Roma una certa vocazione salottiera in confronto a una Milano più efficiente e attenta ai conti. Non dimentichiamo che Roma ospita decine e decine di marchi editoriali, un festival internazionale e da più di un decennio la fiera della piccola e media editoria, un evento di respiro nazionale. È evidente l’aspirazione a emanciparsi da certo provincialismo che potrebbe all’apparenza patire in confronto alla realtà culturale e imprenditoriale milanese. Al momento poi soffrono entrambe una crisi che sta consumando un sistema.


Negli ultimi anni si è affermato sempre di più il ruolo dei social network. Come deve rapportarsi un ufficio stampa rispetto a questo fenomeno? Come cambiano i rapporti rispetto alla stampa tradizionale?

Come ho detto all’inizio, bisogna stare attenti a questo genere di cambiamenti; farsi trovare pronti a coglierne opportunità senza enfatizzarne il ruolo, ma dirigendo flussi di comunicazione di volta in volta attraverso i canali emergenti (sempre nuovi, sempre in mutazione) e rivolgendosi quindi agli interlocutori che ciascuno di essi riesce a definire in maniera più o meno netta. Facebook, Twitter, Youtube e tutti gli altri hanno potenziato e diversificato la comunicazione; hanno rafforzato gli strumenti a disposizione e offerto la possibilità di gestire la comunicazione in maniera dinamica e autonoma, calibrando e mediando contenuti di volta in volta secondo le possibilità che ciascun titolo, ciascun autore presenta. Se a questo si aggiunge una crisi dell’editoria tradizionale, argomento spinoso e complesso che non sfioro nemmeno, e un incremento delle iniziative dei singoli (firme giovani, firme storiche) che gestiscono siti di informazione, blog, pagine tematiche. Occorre sapersi districare all’interno di una rete fitta di possibilità e di strumenti senza disperdersi. L’ufficio stampa non può prescindere da questa pratica e da un confronto del genere. Il rischio di essere obsoleti è sempre alle porte.

 

Tu hai avuto la fortuna di lavorare sia nell’editoria per l’infanzia che in quella per adulti. Come cambia in questi due casi il lavoro dell’ufficio stampa?

Partiamo da una considerazione banale ma necessaria. Sono dimensioni progettuali molto diverse, fasce di lettori differenti, ma si muovono entrambe sullo stesso mercato commerciale e di comunicazione; soprattutto afferiscono entrambe alla stessa categoria: letteratura! Questo è il presupposto da cui parto e che ho avuto sempre presente. Se metto in relazione il mio lavoro nell’editoria per ragazzi e a quello svolto nell’editoria per adulti, non trovo differenze di sostanza, d’impegno, di prospettiva. Evidenzio invece lo sforzo che mi accompagna costantemente, ovvero trattare ogni libro come un progetto singolo, differenziare gli interlocutori, uscire dai canali ordinari e tentare sempre strade nuove, essere insomma propositiva. Quello che rilevo invece è un vantaggio (forse un valore) che l’editoria per l’infanzia mantiene intatto su quella per adulti: una dimensione creativa e sperimentale molto più forte e dinamica.

Detto ciò, per rispondere sinteticamente alla domanda: no, non cambia il lavoro di ufficio stampa. La capacità di mediare contenuti e generi differenti sta tutta nel proprio talento professionale.

 

Una bussola per orientarsi nel mare dell'editoria

di Francesca Pacini

tropico del libro

Tropico del Libro è un bellissimo progetto culturale che fa delle informazioni sul mondo dei libri il fulcro da cui partire verso una serie di iniziative che, ci auguriamo, sono destinate ad aumentare. Insieme a Sergio Calderale, Francesca Santarelli è uno dei fondatori. Un portale che offre a chi naviga in rete un servizio prezioso, raccogliendo notizie su libri, editori, corsi, eventi. C'è perfino una sezione dedicata alle offerte di lavoro in questo settore...

 

Partiamo dalla lettura: Flaubert diceva "Come saremmo colti se conoscessimo bene almeno cinque libri". Oggi, quanti libri conosciamo bene? Che significa essere colti, per te?

Chi ha talmente studiato la sua materia da esserne custode, in un certo senso. Anche una persona che conosce i segreti della cucina, come si tagliano le materie prime, quale spezia sublima un certo insieme di sapori, è per me colto.

 

Come è nata l'idea di Tropico del Libro?

Da tante altre piccole idee complicate che a me e Sergio Calderale ronzavano in testa. Volevamo fare qualcosa per l'editoria e non nell'editoria. Volevamo capire, e valorizzare ciò che c'era di buono, secondo la massima di Calvino “trovare ciò che non è deserto...”.

 

Secondo te come si trasformerà l'editoria? Siamo veramente in una fase di passaggio...

Domanda troppo ampia e destinatario troppo ignorante! Di quel che sta avvenendo ne parliamo sul sito, anche se non sappiamo fare i sociologi-preveggenti. Posso dire che cosa vedo: è il vecchio che avanza. Solo con scelte molto ma molto etiche e lungimiranti e molta tenacia potremo avere di più. A questo settore serve meno romanticismo e più poesia.

 

Parliamo di scrittura. Chi sono gli scrittori, oggi, che secondo te saranno i "classici" di domani?

Non sono la persona giusta a cui chiedere... Quando leggo un contemporaneo di solito o è un saggio o è un amico, e visto che leggo solo sporadicamente romanzi di contemporanei, mi pare ingeneroso fare dei nomi.

 

La smania dei bestseller anglosassoni: come difenderci?

Leggendo e parlando d'altro!

 

In Italia i lettori abituali sono veramente pochi: come mai? In cosa sbagliamo, o abbiamo sbagliato?

Non so a cosa ti riferisci con il plurale “Noi”, ma, a livello legislativo, il problema è da sempre la scuola, martoriata da decenni al deliberato fine politico-economico di renderci innocui spettatori consumatori. Certi altri hanno sbagliato provando a lottare contro il "sistema" da dentro. Non si può vincere con le regole degli altri e in quel modo si perde l'occasione di progettare un gioco diverso. Nel mio piccolo mi sto muovendo per costruire un'alternativa, nel piccolo settore in cui navigo, per me e non solo.

 

Diffondere la cultura: un'impresa quasi disperata. Qualche idea?

La nostra è stata Tropico del Libro, ovvero dare a tutti le informazioni per muoversi in ambito editoriale in modo consapevole. Altre idee, più mirate, ne abbiamo a bizzeffe. Ciò che è più urgente secondo me è un garante della bibliodiversità. Bisogna anche far capire che finché si vanno a scegliere libri nelle librerie di catena e nei grandi magazzini (in cui il rifornimento lo decidono le case editrici più potenti) non si troverà facilmente il libro che farà innamorare della lettura. Spesso le persone vanno in libreria come accendono la tv, per cercare un piacere temporaneo, e passivo. Un piacere che ti lascia come ti ha trovato, se non più rintontito.

 

Che ruolo hanno (o non hanno) gli intellettuali nel diffondere la passione per i libri?

Non credo nell'esistenza degli intellettuali. La parola stessa, "Intellettuali", mi fa pensare a un popolo di un'altra galassia. La passione per la lettura la diffondono quelli che, semplicemente, hanno passione per la lettura, o per certi particolari testi (come dice il citato Flaubert), perché non è detto che debba piacere leggere. E non è detto che sia necessario. Esistono alternative. Teatro, musica, arte... Che tra l'altro forse oggi hanno da dirci di più. Specie il teatro. Il teatro è materia viva, è da lì che parte tutto.

Renzo Paris: leggere, scrivere

di Francesca Pacini

Paris

 

Uno scrittore affermato, che ha anni di esperienza alle spalle, sa bene che questo mestiere non si improvvisa. Anche se oggi, nell'era del web 2.0, molti giovani pubblicano contenuti di ogni tipo rischiando di livellare la qualità. Interrogarsi sul signifcato della letteratura ha senso, oggi più che mai...

 

Cosa significa essere scrittori oggi, nell'era del web 2.0?

Mi sono formato negli anni Sessanta. Lo scrittore allora era rispettato. Non si pubblicava tanto facilmente un esordiente. I direttori di collana però seguivano i giovani. Ricordo che scrissi un romanzo a sedici anni "Il signor Pietrobono", che era un lungo monologo joyciano di un vecchio ottantenne. Sergio Morando della Bompiani mi tenne all'erta per diversi mesi e poi mi raccontò che non mi pubblicavano perché ero troppo giovane. Oggi tutti sono scriventi, soprattutto i cantanti, i giornalisti, quelli che si vendono in tv. La letteratura è scomparsa.

 

Hai pubblicato diversi libri, dalla saggistica alla narrativa. Qual è il libro a cui sei più legato?

I libri sono come i figli e io ne ho pubblicati più di venti. Le prime emozioni però sono le più forti. Ricordo "Cani sciolti", uno dei primi romanzi generazionali, ebbe un discreto successo di pubblico e di critica. Recentemente è stata ristampata la quinta edizione. "Album di famiglia", le mie poesie, pubblicate da Guanda nel 1990. Per la saggistica  tengo molto a "La banda Apollinaire" uscito da Hacca un paio di anni fa, che è poi a suo modo un romanzo saggio come "La vita personale", sempre da Hacca.

 

Che autori contemporanei stimi, e ti senti di consigliare?

L'autofiction francese, da Duvert a Calaferte fino a Houellebeck. E poi certo i tre Roth, Murakami. Sono due decenni che pubblico ogni due mesi una rubrica su "Pulp" che si chiama "Il tempo ritrovato", dove racconto i classici mondiali. Anch'essi contemporanei no? L'ultimo: Alfred Jarry.

 

Si parla molto di crisi del libro. Ma la carenza di lettori non è certo nuova: l'Italia è un paese di aspiranti scrittori, più che di lettori...

Non ho le cifre per dire se gli italiani in questo momento leggono di più di prima. A me sembra che le librerie, sarà perché è Natale, sono piene. Il libro si regala perchè costa di meno. Che poi quasi tutti scrivano e pubblichino, magari a pagamento, e si farebbero tagliare una mano prima di comperare un libro, questo è certo. Ogni casamento ha metà degli inquilini che hanno pubblicato il loro bravo libro a mille, duemila o tremila euro.

 

Nabokov a proposito del buon lettore parla di "brivido alla spina dorsale". Quali sono, secondo te, i "sintomi" per capire se un libro ci ha davvero rapito?

Nabokov ha ragione. Senza brivido non c'è libro bello. I sintomi sono quelli. Quando l'emozione sale è meglio dell'oppio, dell'erba, di qualsiasi droga. Ma per decenni gli strutturalisti hanno negato tutto questo, dando retta ad autori noiosissimi.

 

I libri che stai terminando.

Attualmente sto finendo "Primavera finlandese". L'anno prossimo lo finirò, sono a buon punto. Intanto sempre l'anno prossimo, ad aprile, uscirà la terza ristampa di "Cattivi soggetti" per Iacobelli, un piccolo editore romano che ha una bella collana della memoria. Alla fine dell'estate per Castelvecchi usciranno le mie nuove poesie. Titolo: "Il fumo bianco", che è quello che ho visto nel terremoto dell'Aquila. Raccolgo, come feci con "Album", vent'anni di versi.

 

Che consiglio ti senti di dare a chi sogna di diventare uno scrittore?

A un giovane scrittore direi cose che forse sa da solo, che bisogna leggere moltissimo, che solo dalla lettura profonda può nascere il suo ritmo particolare e comunque, per favore, molti classici. Sempre che senta dentro la necessità di scrivere, altrimenti con il talento si possono fare tante altre cose: gli autori televisivi ad esempio, ed è pure più redditizio.

 

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