Sciolti

Perdona la domanda... ma tu sei eterosessuale?

di Francesco Masci

dandy“Perdona la domanda... ma tu sei eterosessuale?”


Questa domanda mi è stata rivolta qualche tempo fa, al termine di un'intervista dedicata al neo-dandismo. La stanchezza e il tono (faceto ma cortese) con cui mi fu posta la questione mi spinsero a fornirgli una risposta semiseria, forse un pelino troppo approssimativa.
A più di un mese di distanza mi trovo costretto a fare ammenda, per aver trascurato tutti gli aspetti più interessanti del problema. Che la buonanima di Lord Brummel mi perdoni.

A monte di una simile domanda si collocano due preconcetti forti, parzialmente complementari. Il primo di essi balza subito all'occhio: è nella natura del maschio eterosessuale rifiutare tutto quanto non riguarda le funzioni base dell'essere umano (riprodursi, nutrirsi, marcare il territorio).
Può sembrare un'affermazione innocente, addirittura buffa: e ammetto di trovare estremamente divertente la lezione di virilità a cui si sottoponeva Kevin Kline nel film “In&Out”. Ma l'ironia è solo degli intelligenti, se messa in mano alla maggioranza si trasforma immediatamente in disprezzo.
E proprio quel disprezzo, unito al timore che solo l'ignoranza può creare, scatena un morboso bisogno di inquadramento. Un gentiluomo non è più colui che valuta “la cortesia allo stesso modo del coraggio” (Jefferson). E' piuttosto una creatura bizzarra, a metà tra un vampiro di cartone e una caricatura di Wilde, tutto abiti ridicoli, mossette affettate, sguardi sprezzanti e sdilinquimenti per le cose più pacchiane e costose.
Ora, a parte che i riferimenti a Oscar hanno saturato anche gli appassionati (perché non parlare di Balzac, del conte d'Orsay o di Cary Grant?), nessun vero gentiluomo somiglia anche solo di sfuggita alla caricatura disegnata dal pregiudizio. La migliore smentita passa sempre attraverso il dialogo: anche l'intervista che mi è stata fatta, nata come primo anello di una serie dedicata a vari “personaggi”, si è conclusa con una robusta dose di reciproco rispetto.
Tuttavia, con la caduta dell'inquadramento scatta il secondo pregiudizio: la differenza che non riesco a trovare deve essere obbligatoriamente nascosta. I gentiluomini sono tutti gay.
Per converso, nella mente degli uomini “normali” tutti i gay dovrebbero appartenere alla categoria dei gentiluomini: ritengo che qualsiasi frequentatore degli ambienti ursini possa facilmente smentire questa ipotesi. Anche qui, ho trovato che la miglior cura consiste nella buona vecchia conversazione.
Non è l'orientamento sessuale che ci rende gentiluomini. Partendo dall'educazione, sono le letture, la buona compagnia e la riflessione a renderci tali.

 

Biancaneve, come ti aggiorno un'eroina

di Elena Romanello

Tra le immagini della propria infanzia, c’è ormai da diverse generazioni quella della Biancaneve di Walt Disney, melensa protagonista di un grande film d’animazione, umoristico e spaventosamente gotico, che passa le sue giornate prima a fare le pulizie per la Regina cattiva e poi a farle per i Nani, alla faccia del femminismo: non è un caso infatti che nel film di Disney sia surclassata come fascino ed interesse dai Sette Nani e dalla stessa regina Grimilde, sia da bella che da orribile strega.

In parallelo si può aver fatto la conoscenza con la Biancaneve dei fratelli Grimm, raccolta dai medesimi dalle voci di contadini nella Foresta Nera dei primi decenni dell’Ottocento, storia di iniziazione alla vita e di gelosia, decisamente dark e politicamente scorretta, anche se ci sono poi le versioni edulcorate per i bambini nei libri di fiabe a loro destinati.

In quest’ultimo anno ci sono ben tre Biancaneve, tra cinema e televisione, tutte decisamente diverse dalla fanciulla impaurita dei Grimm e dalla casalinga canterina di Disney, in cui il personaggio viene riletto non solo alla luce del femminismo, ma anche con reminescenze del femminile e femminimo nella spiritualità e nel folklore.

La Biancaneve di Tarsem Singh è colorata, molto debitrice, e non a caso visto che il regista si è formato in quell’ambito culturale, al cinema di Bollywood, con toni da commedia di costume e una protagonista, Lily Collins, sufficientemente carina e ironica da riuscire a tenere banco di fronte ad una Julia Roberts regina cattiva ossessionata dal suo aspetto fisico come le dive del cinema e abbastanza tirannica da suscitare desiderio di ribellione nella foresta. Kisch, con toni da commedia, presenta un aggiornamento di Biancaneve senza tradire lo spirito, in chiave anche multiculturale, e senza rendere più la protagonista la serva di tutti, tra fiaba, musical e chick lit.

Molto più interessante risulta essere però Biancaneve e il cacciatore di Rupert Sanders, che recupera le suggestioni dark ed orrorifiche della fiaba originale, rendendola simile ad un fantasy di ambientazione medievale, con l’aiuto di impeccabili e mai pacchiane (a differenza dell’altro film) scenografie e costumi. Ci sono echi de Il trono di spade e di Marion Zimmer Bradley nel film, il vero principe per la protagonista è un guardiacaccia proletario ante litteram affascinante ma burbero ed ubriacone (ma diciamo che il principe azzurro si fa una figura magra in entrambi i film, in quello di Singh è surclassato dal papà di Biancaneve, Sean Bean) e lo scontro tra donne avviene in campo mistico e sul campo di battaglia. La Regina Ravenna, una splendida Charlize Theron che rende impossibile ogni confronto, è un’ex bambina abusata diventata vampira di vite, recuperando l’ispirazione originale del personaggio verso la contessa Bathory, che in cerca di un’illusione di giovinezza massacrava giovani fanciulle per bere il loro sangue e fare il bagno nel medesimo. Biancaneve è una guerriera capace di guidare un esercito, a metà strada tra Giovanna d’Arco e Xena, e l’unico punto debole di un film divertente e ricco di spunti, è la scelta della poco espressiva Kristen Stewart, in un ruolo che con un’altra interprete sarebbe stato ben più incisivo.

La terza Biancaneve del momento è una dei protagonisti del serial urban fantasy Once upon a time, appena rinnovato per una seconda stagione, con prospettive di altri sviluppi futuri. Ideata dagli stessi autori di Lost Edward Kitsis e Adam Horowitz, Once upon a time recupera in pieno l’importanza del femminino nelle fiabe, mettendo le donne grandi protagoniste. Tra i regni oltre le Foreste incantate e la cittadina di Storybrooke del Maine, dove tutti i protagonisti delle fiabe sono stati relegati senza memoria da un sortilegio della Regina di Biancaneve, le donne sono grandi protagoniste, tra la prescelta Emma, figlia di Biancaneve e del principe, trentenne scettica con una triste vita da bambina abbandonata alle spalle, le Fatine guerriere e benefattrici, Belle che rilegge con l’ambiguo Tremotino la storia d’amore de La Bella e la Bestia, Cappuccetto Rosso lupa mannara e giovane ribelle, Cenerentola aspirante principessa e ragazza madre ricattata.

Il fulcro di tutto è la rivalità tra Biancaneve e la Regina cattiva, nata da un torto che senza saperlo la principessina ha fatto alla sua futura matrigna, che si snoda tra mondo della magia e realtà, tra un al di là in cui Biancaneve diventa una brigantessa guerriera prima di sposarsi con il suo principe e poi perdere tutto e un di qua in cui è una timida maestra e volontaria in ospedale innamorata di un giovane senza memoria. Viceversa la Regina è da una parte una ex giovane dal cuore puro corrotta da drammi e dalla magia oscura, dall’altra il sindaco Regina, fredda e calcolatrice, ma in definitiva desiderosa ovunque di un po’ d’amore e di una famiglia vera, per le quali cose è disposte a sconvolgere gli universi, forse ritrovando poi se stessa perché bisognerà vedere gli sviluppi delle proprie stagioni.

Biancaneve non è comunque più in nessuno di queste vicende una fanciulla sprovveduta, ma una giovane donna che rischia in prima persona, si batte contro le ingiustizie, si impegna socialmente e non si limita a sognare il grande amore e a soccombere di fronte agli attacchi della Regina: e pare che sia solo il primo dei personaggi delle fiabe che verrà riletto.

Il suono dell’Oriente

di Francesca Pacini

La musica persiana affascina, trasporta in un mondo lontano che tuttavia sembra ci appartenga da sempre. Ci sono artisti come Pejman Tadajon che, nel nostro paese, mantengono viva questa tradizione…

 

Pejman Tadajon vive in Italia da molti anni, e suona con diversi gruppi. Vi invitiamo a visitare il suo sito www.pejmantadayon.com. Qui, una piccola conversazione intorno al suo mondo…

Che strumenti suoni? Qual è stata la tua formazione musicale?
Suono , oud, setar, robab . Diciamo strumenti a corda, persiani,arabi, turchi e afgani

Come definiresti, in sintesi, il cuore della tradizione musicale persiana? Cosa può portare, questa musica, a un paese come l'Italia? L'antica Persia è un mondo che, da sempre, affascina anche la cultura occidentale....

La musica persiana deriva dalla cultura mesopotamica.  Per questo motivo ha dei rapporti con la musica greca e con quella, in generale, mediterranea. In  Italia ho collaborato con diversi musicisti italiani. Anche nell’ambiente della musica medievale si trovano elementi in  comune  con la musica persiana.

Musica e testi; cosa canta, soprattutto, la musica tradizionale persiana? Sicuramente c'è un misticismo antico che richiama anche il mondo dei sufi…

Molti  pensano che il sufismo deriva dalla Turchia, in realtà è nato in Persia: molti famosi poeti sufi erano persiani e le loro poesie sono, infatti,  in lingua farsi.

In  Turchia,  soprattutto in questi anni recenti, è stato fatto un ottimo lavoro per quanto riguarda la diffusione della danza dei dervisci, i turchi hanno presentato bene  in  occidente la musica sufi, mentre in Iran invece la musica sufi è rimasta più originale e più fedele a quello che si faceva una volta.

 

Una donna val bene una rosa

di Sara Meddi

“Vogliamo anche le rose" è un film documentario sulla condizione femminile nei mutamenti sociali fra gli anni '60 e '70. Ne abbiamo parlato con la regista Alina Marazzi, che ci racconta storie molto interessanti su quello che la De Beauvoir chiamava, con ironia ma anche malinconia, il "secondo sesso". Che, di fatto, non è secondo a nessuno. Anzi...

vogliamo anche le rose

“Vogliamo anche le rose” è un film sui cambiamenti sociali che interessarono innanzitutto le donne tra gli anni ’60 e ’70. Il film unisce, mescola e dà nuova forma a film, fotografie, fotoromanzi, show televisivi, riprese dei militanti e private, musiche d’epoca e stralci di diari. “Vogliamo anche le rose” non è tuttavia un documentario in senso stretto ma piuttosto una finestra su quella che era la vita solo quarant’anni fa, su quella che sarebbe potuta essere la nostra vita se non ci fosse stato quel grande movimento di presa di coscienza della dignità di genere che è riduttivo etichettare come “femminismo”.

Alina Marazzi, come aveva già dimostrato nel suo (sempre bellissimo) film “Un’ora sola ti vorrei”, è una regista di rara bravura nel ridare vita alle voci dell’epoca, nel dare forma e ritmo al materiale più disparato, e il risultato infatti è ben diverso da quello di un film che concede agli attori il ruolo di protagonisti, qui tutti noi siamo i protagonisti. Quanto è rimasto di quella rivoluzione e quanto ancora rimane da fare è la domanda che è impossibile non porsi alla fine del film. Dice Alina Marazzi: “Di quanto esigeva il celebre slogan ‘Vogliamo il pane, ma anche le rose’, con cui nel 1912 le operaie tessili marcarono con originalità la loro partecipazione a uno sciopero di settimane nel Massachusetts, forse il necessario, il pane, è oggi dato per acquisito. Ma le donne si sono battute per un mondo che desse spazio anche alla poesia delle rose. Ed è una battaglia più che mai attuale”.

 

 

 

Questa intervista è stata realizzata a febbraio, l'autrice si scusa con Alina Marazzi per il ritardo nella pubblicazione.

 

Ho visto qualche anno fa il tuo film “Un’ora sola ti vorrei” e poi ho visto anche “Vogliamo anche le rose”, che sono due film incentrati sull’essere donna, prima al singolare e poi in senso collettivo. Allora mi interessava capire qual è la tua opinione sul tema del femminismo e come sono nati questi progetti. Forse possiamo iniziare da questo?

“Vogliamo anche le rose” nasce da una mia volontà di riconnettermi con quegli anni, perché negli anni ’70 io ero una bambina, vivevo a Milano e ho dei ricordi di certe atmosfere, di certi ambienti però appunto essendo una bambina non gli ho davvero vissuti, eppure ne sono figlia. Nel senso che quello che sono come persona e come donna, il modo in cui vivo, le cose che faccio, il modo in cui penso mi viene anche da lì. E mi è venuta voglia, come dire, di tornare a riflettere su quegli anni dato che secondo me c’è stata un’interruzione, un non-passaggio del testimone, tra le donne della generazione prima della mia, che quindi sono state in prima linea, e le donne della mia età. Io sono nata nel ’64, quindi non sono esattamente figlia di quelle donne ma più una figlia minore, e quindi ho sentito questa mancanza di radicamento perché credo che oggi vengano dati per scontati certi valori e certi principi, che magari non vengono neanche messi in atto, e che non ci si interroghi più su da dove ci sono arrivati certi modi di pensare e anche certi diritti. E quindi il desiderio di fare questo film è nato da una riflessione personale, condivisa con donne della mia età. Tra l’altro  in quel periodo ho avuto dei figli e quindi mi sono confrontata con la dimensione della famiglia, della coppia con figli, e quindi con una situazione dove riemergono le differenze di genere. Mi sono chiesta: “Be’, ma questi comportamenti, questi stereotipi, legati alla concezione di maschile e di femminile, perché sono così radicati in noi che appena ci si ritrova in una situazione che richiede una gestione domestica vengono fuori queste dinamiche che ci riportano a dei modelli del passato? Perché se a livello razionale abbiamo tutta una serie di comportamenti da adottare col partener quando ci ritrova con una famigli si ritorna a un modello nel quale non ci riconosciamo?”. Non considero “Vogliamo anche le rose” un film sul femminismo, lo considero un viaggio attraverso quegli anni. E a me interessava, anche per quello che è il mio gusto e il mio stile, partire dai documenti.

 

Infatti quello che mi ha molto colpito del film è questa forma, che non è neanche quella del documentario nel senso classico del termine, perché questo non è certo un documentario alla History Channel”, che però ti permette di entrare davvero molto dentro le atmosfere di quel periodo. Quindi ti volevo chiedere come sei entrata in contatto con questo materiale e come hai fatto a decidere cosa volevi e cosa non volevi nel film.

A me interessava incontrare le testimonianze e i documenti perché è qualcosa che ho fatto anche con i miei lavori precedenti. Più che andare a incontrare le protagoniste di quel tempo, e quindi di fare delle interviste, mi interessava proprio far parlare i documenti di allora e quindi come prima cosa mi sono messa a fare delle ricerche negli archivi. Ho fatto ricerche audiovisive negli archivi Rai, alla Cineteca Italiana, negli archivi più informali dei filmati di famiglia e poi soprattutto nell’Archivio Diaristico di Pieve Santo Stefano, che è appunto l’archivio che conserva i diari delle persone comuni. Perché mi interessava entrare in contatto con storie di persone comuni, normali e capire che impatto avessero avuto gli avvenimenti di quegli anni. A Pieve ho trovato questi tre diari che coprono un arco di tempo che va dalla fine degli anni ’60 alla fine degli anni ’70. Sono i diari di tre donne di provenienze geografiche diverse che raccontavano come queste rivoluzioni avessero cambiato le loro vite: al ’68 risale il diario di Anita, una ragazza borghese che cresce a Milano in una famiglia cattolica e conservatrice; poi c’è il diario di Teresa, una ragazza di Bari, racconta l’esperienza di un aborto e infine c’è il diario di Valentina che è il diario di una donna romana impegnata politicamente e che si fa mille domande sul suo essere impegnata politicamente e sul rapporto con le compagne. Il fatto di aver fatto parlare nel film queste persone in prima persone è anche una scelta perché visto che in quegli anni si è dato per la prima volta importanza al racconto soggettivo mi sembrava coerente far parlare quelle donne in prima persona. In quel periodo per la prima volta le donne si sono trovate a parlare di se stesse e a condividere la propria soggettività con le altre e così hanno scoperto che i loro problemi non erano solo i loro, che erano condivisi, e così c’è stato anche un passaggio al sociale.

 

Guardando il film si ha l’impressione che gli uomini subiscano questo processo, che non ci sia un adeguamento che vada al di là delle conquiste legali. Cosa ne pensi di questo?

Be’, l’emancipazione femminile è un processo di rottura che coinvolge anche del ruolo maschile, anche tutto il discorso sull’omosessualità è nato in quegli anni. Evidentemente anche per gli uomini c’era la necessità di non doversi riconoscere per forza in un ruolo, che era quello del padre di famiglia. Quindi le donne hanno messo in moto e accelerato un processo che ha liberato anche qui uomini e, come sempre nei processi storici, c’è un momento di accelerazione e poi un momento di reflusso. Quello che è stato ottenuto a livello legislativo è stato una cosa ma nella quotidianità delle persone non basta che una legge sia cambiata per far sì che tutti si adeguino, tutt’ora viviamo in un mondo molto iniquo. Forse quello che a livello legislativo è accaduto in dieci anni ha bisogno di 50 o 100 anni per realizzarsi completamente. Sembrerebbe che oggi si sia tornati un po’ indietro, che si sia tornati a modelli di comportamento di genere più tradizionali rispetto a quegli anni che erano di rottura, ma questo succede in tutte le rivoluzioni. Quello di cui forse ci si dimentica è che noi siamo figli di quel momento e che non tantissimo tempo fa, solo quarant’anni fa, l’Italia era un paese molto diverso e le persone erano molto molto meno libere, le donne soprattutto ma anche gli uomini. Ascoltando le parole di quelle persone, attraverso i diari e i filmati, si ha la sensazione che quelle persone avessero una grande consapevolezza di chi fossero come individui e come soggetti sociali, si avevano dei ruoli sociali bene definiti ma si aveva anche un’urgenza molto forte di cambiare le cose che era condivisa da tutti. Oggi forse si un po’ più isolati e persi nelle nostre monadi, ci sono forse anche altri problemi e altre priorità che riguardano il lavoro e il futuro ma penso che ce le avessero anche allora queste priorità.

 

Infatti penso che la mia generazione abbia molto bisogno di riallacciarsi ai processi che ci hanno permesso di essere quello che siamo, e mi infatti chiedevo che impressione hai avuto riguardo l’accoglienza che il film ha avuto presso il pubblico soprattutto della mia età.

Il film è uscito anche in sala, non ha fatto solo il giro dei festival, e quindi per fortuna ha incontrato un pubblico abbastanza ampio, è uscito nel 2007 in un momento in cui c’era un’attenzione verso quelli che erano le battaglie affrontate negli anni ’70 perché in primavera c’era la campagna elettorale e si era tornati a parlare, anche in tv nel programma condotto da Ferrara, di legge 194, di aborto e di tutte queste tematiche. Quello che io ho visto, andando a presentare il film in diverse città e in diverse situazioni, nei cinema ma anche nei licei, è che c’è stata moltissima curiosità da parte dei giovanissimi di capire com’era l’Italia dei loro genitori e di cosa di parlava veramente in quegli anni. L’episodio dell’aborto per esempio non è legato solo a quel periodo, ma è qualcosa che riguarda anche noi oggi, e quindi è interessante interrogarsi sulla libertà di poter o meno fare questo tipo di scelta. Anche il linguaggio che il film ha utilizzato, che è quello di far parlare le persone, ho sentito che era molto comprensibile soprattutto per i giovani. C’è stata una fetta di pubblico più adulto, di persone che avevano vissuto quegli anni e che quindi si sono riviste, che hanno apprezzato il film in maniera nostalgica. Poi c’è stata la parte di pubblico costituita dalle donne più legate al femminismo storico che invece avrebbero voluto il femminismo al centro di tutto il film, e invece questo è un film che parla di tutte le donne e non solo di quelle impegnate politicamente, infatti solo uno dei tre diari è il diario di una donna attiva nel femminismo. Quindi il film è stato criticato da quelle femministe che vedono nel femminismo come il motore di questo processo, io invece non penso che questo processo di trasformazione e di liberazione fosse già in atto, che ha interessato tutta l’Europa e gli Stati Uniti e che in qualche modo deriva da tutte le battaglie per i diritti civili.

 

Ho visto anche il tuo film “Un’ora sola ti vorrei” che è un film bellissimo, insolito e secondo me molto difficile perché è un film su tua madre. Mi chiedevo se questi film si parlassero tra di loro, se l’indagine su questa figura femminile così importante, che è quella di tua madre, ti abbia spinto a interrogarti sulla femminilità in un contesto più ampio.

Sicuramente, sicuramente. Non dico che sono uno il proseguimento dell’altro ma i film sono sicuramente molto legati. “Un’ora sola ti vorrei” è un film che chiaramente nasce da delle urgenze e molto personali che sono quelle della restituzione della propria storia ma che ha comunque a che fare con un periodo storico e racconta la storia di una donna che rimane sola proprio nel momento in cui invece le donne hanno iniziato a rompere quest’isolamento, a parlarsi e a capire che il malessere che derivava dal sentirsi incomprese e inadeguate era un malessere di tutte. Quindi “Vogliamo anche le rose” prende il testimone da “Un’ora sola ti vorrei”. “Un’ora sola ti vorrei” racconta di una donna rimasta vittima di quest’isolamento e vittima poi di una malattia, mentre le donne di “Vogliamo anche le rose” hanno portato avanti questa cosa, hanno rotto questo isolamento e si sono parlate.

 

Da quello che so stai finendo un film sulla maternità…

Quindi siamo sempre lì…

 

Sì, siamo sempre lì. Non so se si può sapere qualcosa visto che il film non è ancora uscito…

Sì, il film è un film che è diverso dagli altri, non è un film di montaggio, non è un documentario ma è un film che parte da una sceneggiatura, ci ovviamente degli attori, ed è in part fiction e in parte accoglie altri materiali quindi ha sempre una forma ibrida. Il tema è quello della maternità e vuole un po’ mettere luce sulle zone d’ombra della maternità. E quindi vuole parlare di maternità in termini non così sereni e lineari ma parlare degli aspetti più conflittuali che riguardano il vissuto del materno, il rapporto con il bambino, il senso di inadeguatezza e di quanto il confronto con un’immagine, che poi è l’immagine appunto della madre che per quanto noi abbiamo messo in discussione ci portiamo sempre dietro in maniera… così… incombente. E appunto nel momento abbiamo un figlio ci si rende conto di quanto abbiamo comunque interiorizzato tutta una serie di immagini e di modalità di cui è difficile liberarsi.

 

 

Qui il link al trailer del bellissimo film di Alina Marazzi “Vogliamo anche le rose”:

http://www.youtube.com/watch?v=BykxkrmLuws

 

E qui il link al trailer di “Un’ora sola ti vorrei”:

http://www.youtube.com/watch?v=md6Wb1JXZvE

La sintassi dello stile

di Francesco Masci

stileChe significa la parola "stile"? Come la decliniamo, oggi, in un mondo sempre più sgarbato e caciarone? Un'inchiesta semiseria di grande attualità....

 

 

"I significati fanno paura, perché non sono alla portata di chiunque e come tali per nulla democratici."

 

Questo lapidario giudizio fu posto dal gran maestro Maresca a chiusura di una discussione, scatenata da una richiesta di consulenza sull’abbigliamento elegante. Le sentenze del Cavalierato delle Nove Porte sono sempre assai intransigenti: ma l’opinione del gran maestro in questo caso va a toccare un problema affascinante.

 

Al giorno d’oggi l’abbigliamento dell’uomo medio sembra rifarsi ai più classici principi dell’ingegneria. Se tiene caldo e copre l’essenziale, anche uno straccio di jeans sfondato è adeguato. Senza contare che ormai si ragiona solo per macrocategorie: giacca e cravatta sono riservati al lavoro d’ufficio, la camicia è divenuta sinonimo di eleganza (quanti locali si ammantano di esclusività riservando l’ingresso a chi porta la camicia, anche se sotto di essa sfoggia bermuda e infradito?) e le scarpe classiche sono totalmente scomparse da ogni panorama “modaiolo”.

Abbiamo raggiunto un’omologazione quasi perfetta, nella sua monotona sciatteria. E qualcuno ritiene anche opportuno vantarsene.

 

Eppure, nonostante tutto, il codice stilistico dell’abbigliamento non è scomparso. La sua conoscenza non è più un requisito essenziale del gentiluomo; ma chi ha anche solo iniziato a studiarlo si ritrova irresistibilmente attratto dalle sue ramificazioni. Una giacca di un certo taglio, una camicia su misura e un paio di buone scarpe di cuoio possono cambiare completamente l’aspetto di un uomo; gli angoli dei revers, la posizione dei bottoni e la qualità del nodo alla cravatta influenzano l’opinione altrui assai più delle etichette e dei marchi, più o meno prestigiosi che siano.

E se i significati menzionati dai Cavalieri non sono alla portata di tutti, i messaggi ad essi sottesi fanno parte di quella categoria che l’inconscio da sempre è in grado di percepire.

Se un uomo dagli abiti costosi ci fa riflettere sullo spessore del suo portafogli, l’uomo realmente elegante ci lascia solo una vaga impressione di perfetta armonia. La famigerata sprezzatura, inseguita da molti neo-dandy, non è altro che la capacità di generare quell’armonia, senza far minimamente trasparire lo sforzo ad essa sotteso.

A quel punto, ogni variazione diviene elemento caratterizzante. Gli orologi sul polsino di Agnelli, le fibbie slacciate di Ieluzzi, le punte a becco d’oca di Freccia Bestetti spezzano l’armonia, ma allo stesso tempo svelano il loro mondo interiore.

 

Certo, non è più verosimile seguire lo stile dell’ambasciatore inglese presso la Santa Sede, che mostrò il suo spirito innovatore indossando un pantalone a quadretti sotto l’impeccabile tight. Ma al giorno d’oggi può bastare un gilet a due petti, per terrorizzare gli alfieri della mediocrità.

 

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