Sciolti
Universi a misura d'uomo
di Francesca Girardi
Universo. O meglio, uni-verso? Quanti e quali sono, i mondi esterni e interiori?
L’uomo, da sempre, ha sete di conoscenza; da sempre è alla ricerca di spiegazioni, verifiche, elementi che lo facciano sentire vicino alla meta, ovvero, la completa conoscenza dell’universo. E l’essere umano è una parte di questo ampio ed esteso insieme che potrebbe essere definito macro-universo, composto da tanti altri piccoli universi materiali, costituiti da elementi tali: pensiamo alla natura con flora e fauna; ai sedimenti rocciosi, studiati dalla geologia quale straordinaria testimonianza delle diverse ere; oppure ai fiumi, ai laghi e alle montagne, catalogati dalla geografia. Tutti mondi che sono stati e, sono ancora adesso, esplorati nei loro elementi più nascosti che potremmo indicare come micro–universi, all’interno dei quali si nascondono macro importanze. Il ruotare delle stagioni, per esempio: quale meccanismo perfetto permette alla primavera di seguire l’inverno e all’estate di anticipare l’autunno? Eppure un meccanismo c’è, è stato studiato, è conosciuto, ma non è fisicamente tangibile (e guai se si dovesse bloccare). Strumenti tecnici, creati dalle mani dell’uomo, permettono di misurare le distanze seppure tale termine non indichi propriamente un oggetto tangibile; i rapporti tra persone distanti sono oggi molto vicini seppur non ci si possa vedere o toccare fisicamente. Possiamo quindi dire che, i micro-universi tangilibili, sono affiancati da micro–universi astratti, non tangibili fisicamente ma esistenti.
E sono proprio i micro-universi astratti i più difficili da conoscere e dei quali è ancora più arduo raggiungere una totale consapevolezza. Parallelamente anche nel genere umano è possibile riscontrare tale distinzione. I due generi conosciuti Uomo-Donna, rappresentano due macro-universi le cui differenze fisiche sono tangibili, conosciute e concrete, ma la sensibilità che li contraddistingue è sempre in via di sviluppo e non è facilmente prevedibile. Anzi, le varianti che li caratterizzano sono molteplici, addirittura nello stesso individuo.
Questi due macro-universi umani hanno delle fasi che sono state, nel corso dei secoli, ben studiate e catalogate: infanzia – adolescenza – maturità…
Tuttavia il modo in cui sono espresse, non è unico. Ecco i micro-universi: le variazioni che incidono sull’universo astratto dell’uomo sono variabili perché dettate da un fattore unico nel suo genere, il fattore umano. Ed è il fattore umano, dettato a sua volta dalla sensibilità che, a sua volta, è legata alle esperienze delle singole persone le quali, pur avendo caratteristiche uniche e uguali nel genere, nello specifico sono diverse. È una catena i cui anelli si saldano tra loro ma in maniera diversa.
Ecco che l’uomo, macro-universo nel suo genere, è composto da micro-universi dell’essere: bambini gioiosi nell’infanzia, poi proseguono la crescita divenendo adulti consapevoli e maturi; oppure uomini ancora bambini; donne e uomini adulti ma ancora immaturi; ragazzi già grandi e via dicendo…
L’uomo, inoltre, è sempre stato attratto da un altro universo particolare, fisicamente tangibile: il corpo. Sforzi, affanni, studi, ricerche, hanno visto impegnate le svariate civiltà succedutesi nel corso dei secoli ed è grazie a loro che oggi mani attente ed esperte, guidate da menti altrettanto veloci e rapide, sanno sfogliare questa sorta di enciclopedia vivente. Nulla, però, è fisso e la ricerca a scoprire sempre di più, è inarrestabile. Non appena si raggiunge una meta, ecco sorgere un’altra complicazione e bisogna ricominciare tutto dall’inizio.
Svariati fenomeni sono nascosti nel conosciuto DNA che non finisce mai di intrecciarsi e che sicuramente rappresenta un micro-universo di macro importanza. È un’elica che senza sosta prosegue il movimento ma la rotta talvolta è bloccata da inaspettati cambiamenti. Ed è proprio nella fase di stallo che equipe di medici, scienziati, si adoperano per salvare la situazione e seppur talvolta non raggiungano la conoscenza totale, si avvicinano alla soluzione.
L’uomo nasconde, al suo interno, un universo astratto e sempre in balia di cambiamenti. Talvolta possono sembrare prevedibili ma può accadere che nell’istante in cui si stia pensando ‘Bene, ho capito’ tutto muti nuovamente.
L’evoluzione che fisicamente caratterizza l’uomo è studiata a tavolino e ogni mutazione dà adito a una serie di interrogativi ai quali truppe di soldati combattono per ottenere la libertà dall’oppressore che non ha forma fisica ma compare in un semplice dubbio espresso dal più comune avverbio interrogativo: “Perché?”
Ed è proprio questo dubbio, micro-universo all’interno del macro-universo linguistico, ad alimentare l’inesaudibile sete di conoscenza dell’uomo.
Hannah Arent “Vita activa”: politica come partecipazione
di Francesca Di Nola
In un’ epoca in cui la nozione di politica perde del suo valore intrinseco, il libro di Hannah Arent allieva di Husserl, Heiddeger e Jasper “Vita Activa”, rappresenta un’importante ripresa di un concetto sano di fare politica, mai come oggi rappresenta un pensiero attuale rievocare “l’agorà greca” come punto di sutura di un confronto del dibattito politico. Harent pone l’attenzione sulla sua mitologia sociale, contrapponendo all’inevitabilità dello stato macchina, una concezione dell’agire politico nella sua forma pura, e cioè come suprema attività umana di compartecipazione. Attività che mai fu squisitamente colta come nella polis greca a cui Arent si riallaccia per riscoprirla come un deterrente per una libertà che diventa reale, unicamente come libertà, dove il discorso filosofico si sveste di un concetto statico di esperienza, per porre un fondamento di esistenza e di comunità tale da designare le basi del vivere bene eu zen, nella formula magistralmente espressa da Aristotele. Hannah Arent nelle sue dinamiche di pensiero sviluppa una concatenazione di visioni tra loro sovrapponibili che spezzano una monotonia, lanciando una provocazione alla condizione umana cerca una diversa definizione dell’identità dell’ essere umano (chi è l’uomo) e la trova nella rivoluzione dell’agire. La più importante di queste premesse è l’uomo nella sua pluralità. L’azione è la sola capace di mettere in rapporto diretto gli uomini senza la mediazione di cose materiali, l’azione fonda e conserva gli organismi politici crea le condizioni per il ricordo cioè la storia. Il valore intrinseco dell’azione politica è la risultante necessaria per tenere gli uomini uniti in modo ordinato da qui ordinamento giuridico, dettami di leggi, norme di regolamento . Con la scomparsa della Polis greca l’antica città stato, il termine vita activa perde il suo significato politico, il fare diventa complemento della tecnica ed il pensare trova ad avere come unico oggetto il mondo interiore e la sfera dell’agire viene sottomessa a quella del fare inteso come produzione dell’utilità,il risultato finale e la spoliticizzazione dell’agire ed il trasferimento del gioco del politico nelle mani di pochi privilegiando l’economico come valore aggiunto e rilanciando ad un sistema del progresso l’ identità nuova ciò che in chiave tradizionale era lo stato e il potere di organo supremo che ne scaturiva lascia il posto alla pura amministrazione , a quello stato di affari che Marx predicava come la fine dello stato. Dall’altro canto la società si aspetta da ciascuno dei suoi membri un comportamento che tenda a normalizzare imponendo regole che tendono ad omologare svariate condotte ,via via spegnendo l’azione spontanea o l’impresa eccezionale . Nella polis vigeva lo spirito agonistico, distinguersi dagli altri, mostrare con gesta ed imprese fuori dal comune di essere il migliore, perché alla sfera pubblica era riservata il valore degli uomini, desiderosi di condividere la responsabilità della giustizia, della difesa e dell’amministrazione degli affari pubblici, perché il corpo politico rendeva possibile la realizzazione di un’opportunità. Agire è dunque la parola chiave del suo percorso che nella cultura greca prima di Platone aveva un sublime primato, subordinato al pensiero nel successivo periodo, svalutato dalla contemplazione nel cristianesimo, soppiantato dalla conoscenza obbiettiva nell’epoca moderna fino a terminare nel trionfo del lavoro nell’epoca attuale, un trionfo guardato con sdegno, sdegno giustificato dall’impotenza dell’effettiva realizzazione.
I Greci distinguevano la vita attiva fatta di lavoro, creazione artistica e azione politica, dalla vita contemplativa. Nella prima l’uomo plasmava le cose al fine di renderle utili, durevoli, di conquistarsi quella immortalità dell’operare che poteva renderlo presente ai mortali anche dopo la morte. Nella vita contemplativa l’uomo era messo di fronte all’eternità del divino, che lo portava all’ascesi e al misticismo. Aristotele distinse tre modi di vita (bioi) che gli uomini potrebbero scegliere in libertà, cioè in piena indipendenza dalle necessità della vita e dalle relazioni da esse originate. Il prerequisito di questa libertà escludeva tutti i modi di vita dediti alla conservazione della vita stessa non solo il lavoro, che definiva l’esistenza dello schiavo, del tutto condizionato dalla necessità di sopravvivere e dal dominio del padrone, ma anche l’operare del libero artigiano e l’attività acquisitiva del mercante. In breve osserva Arent esso escludeva chiunque, involontariamente o volontariamente, per tutta la vita o temporaneamente, avesse perduto la libera facoltà di disporre dei suoi movimenti e delle sue attività. Questi tre modi di vita invece, avevano la caratteristica comune di conoscere il “bello”, cioè le cose né necessarie né meramente utili: la vita dei piaceri corporei in cui il bello, come si offre, viene consumato; la vita dedicata alla polis, in cui l’eccellere produce belle imprese; e la vita del filosofo dedita all’indagine e alla contemplazione delle cose eterne, la cui immortale bellezza non può essere prodotta dall’intervento produttivo dell’uomo, né mutata dal fatto che egli li consumi. La differenza che si delineò tra l’accezione aristotelica e quella medievale del termine “Vita Activa” risiede nel fatto che la bios politikos si incentrava solo sul regno degli affari umani, insistendo sull’azione, la praxis, necessaria per istituirlo e mantenerlo in vita, né il lavoro, né l’opera avevano la forza tale da costituire un modo di vivere autonomo e autenticamente umano tenendo in qualche misura l’uomo schiavo delle necessità. La vita politica sfuggiva a questa dinamica perché nella concezione greca della polis essa si concretizzava in una forma di organizzazione dettata dalla libera scelta, non era di certo una forma di azione necessaria per tenere gli uomini uniti in modo ordinato. Con la scomparsa dell’antica città stato, il termine Vita activa perde il suo significato specificamente politico per indicare ogni genere di partecipazione attiva alle cose di questo mondo. L’azione veniva ora annoverata tra le necessità della vita terrena, cosi la sola contemplazione bios theoretikos tradotto come vita contemplativa, poteva essere ritenuto un modo di vivere veramente libero. Anche se il termine vita contemplativa sembra avere una valenza pressoché cristiana non è propriamente così infatti già in Platone ritroviamo questa visione, dove l’intera riorganizzazione utopistica della vita della Polis non solo è diretta dall’intuizione superiore del filosofo, ma non ha altro scopo che rendere possibile il modo di vita del filosofo stesso. All’antica libertà delle necessità della vita e dalle costrizioni degli altri, il filosofo aggiunge la libertà e il ritiro dalla vita pubblica(Schole). Il termine medievale Vita activa comprendente tutte le attività umane e definito dalla assoluta quiete contemplativa, viene vista anche strettamente collegato alla askholia greca, inquietudine, con cui Aristotele designava ogni attività, piuttosto che bios politikos. Questo perché ogni genere di attività perfino i processi di puro pensiero devono culminare nell’assoluta quiete contemplativa per fare frutti, perché devono cessare davanti alla verità, sia essa la verità dell’essere o la verità cristiana di Dio che ha il potere di rivelarsi solo in una completa serenità. Il primato della contemplazione sopra l’attività si fonda sulla convinzione che nessuna opera prodotta dalle mani dell’uomo possa eguagliare in bellezza e verità il Kosmos fisico, che ruota nell’eternità immutabile tradizionalmente precisa Arent il termine vita activa riceve il suo significato dalla vita contemplativa il cristianesimo con la sua fede in una vita futura le cui gioie si annunciano nell’estasi della contemplazione, conferì una sanzione religiosa alla degradazione della vita activa a funzione secondaria, dipendente; ma la determinazione di questo ordine coincise con l’effettiva scoperta della contemplazione(teoria) come facoltà umana che si verificò nella scuola socratica e che da allora in poi ha governato il pensiero metafisico e politico durante tutta la nostra tradizione..”Con l’età moderna, la vita attiva e quella contemplativa perdevano la loro ragion d’essere. Il theoréin passava dal filosofo allo scienziato o meglio ai suoi strumenti, diventando così la più astratta delle attività pratiche. Il fare diventava un complemento della tecnica e il pensare si trovava ad avere, come suo unico oggetto, il mondo interiore per il tramite dell’introspezione. Una tale trasformazione influì anche sulla sfera sociale: la sfera dell’agire fu sottomessa a quella del fare e dell'utilità. Il risultato fu la “spoliticizzazione” del fare e il trasferimento del “gioco politico” nelle mani di pochi. La Arendt critica la società moderna perché ha privilegiato l’economico ed ha dimenticato il vero significato dell’agire. Ogni azione è un inizio. Quando un essere umano nasce è una singolarità assoluta, che apre un imprevisto nel mondo. E’ agendo che noi ci mostriamo. Nell’azione c’è anche rischio perché le conseguenze di ogni azione sono senza limiti e non dipendono da noi. Iniziare qualcosa è politico, perché è visto e rilanciato dagli altri. Presuppone dunque una pluralità di esseri umani in rapporto tra loro. Però non è sufficiente agire perché ci sia una vera e propria azione significativa. Occorre che quella azione venga raccontata. Bisogna che ci sia qualcuno che faccia conoscere quella azione a chi non era presente e la tramandi alle generazioni future. E solo così il tempo che viviamo non è semplicemente quello biologico della vita e della morte, ma ha un passato e un futuro significativi. Alla radice della convinzione moderna c’è la statistica, la scienza sociale per eccellenza,le leggi della statistica sono valide solo quando si applicano alle leggi dei grandi numeri,il senso si ritrova in un aumento della popolazione e in una perdita delle deviazioni. Il comportamento uniforme che si presta alla determinazione statistica e quindi alla corretta previsione scientifica, non può essere spiegata con l’ipotesi liberale di una naturale armonia di interessi, ma come una finzione comunista che consiste nel riconoscimento di un unico interesse della società, è una mano invisibile che guida il comportamento contrastante degli uomini e produce armonia dei loro interessi, ma ciò è impossibile. Vivere insieme nel mondo significa includere la sfera privata in un contesto di pluralità, laddove la sfera pubblica ci mette in relazione ed ha la capacità di riunirci così come di separarci, ispirandosi ad un concetto sano di valorizzazione del proprio talento, non dovrebbe l’amministrazione pubblica incarnare un ruolo determinante dei bisogni da soddisfare qualcosa che può essere usata e consumata, ma qualcosa che perdura, un punto di riferimento per ogni esigenza. La fine del mondo comune è destinata a prodursi, quando esso viene visto sotto un unico aspetto e può mostrarsi in una sola prospettiva, perché scaturisce una paralisi, che sfocia in una crisi di identità con la classe politica con l’involucro di stato, si acuisce il divario tra politica e cittadino e si manifesta con l’ astensione alle urne ed incapacità di rappresentanza…
Francesca Di Nola- giornalista e saggista
Il giornalismo culturale, tra carta e web
di Giulia Linfozzi
Quali i rapporti futuri tra libri, scrittura, editori e giornalisti? Come cambiano queste figure? Una tavola rotonda, a Milano, per discuterne meglio….
Il Master in Professione Editoria cartacea e digitale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, in collaborazione con l’Associazione Italiana Editori, organizza per il secondo anno consecutivo il ciclo di incontri “Editoria in progress”, per una riflessione comune sul senso e sulle pratiche del mestiere editoriale. Lo scorso 18 aprile, presso la storica sede di Largo Gemelli dell’Università Cattolica, si è svolto il secondo di questi incontri, dal titolo “Scegli me. Giornalismo editoriale tra carta e web”.
La tavola rotonda proponeva una riflessione attorno al tema del rapporto tra editoria e giornalismo: in che modo si parla di libri nei media, siano essi cartacei o digitali? In che modo il giornalista che si occupa di cultura sceglie tra i quasi 65.000 titoli che vengono pubblicati ogni anno? E sul fronte degli editori, in che modo si riesce a imporsi all’attenzione di lettori, autori e giornalisti per farsi scegliere?
La coordinatrice nonché docente del Master in Professione Editoria, Paola Di Giampaolo, ha rivolto queste domande agli ospiti presenti. Quattro diverse esperienze, alcune molto diverse tra loro, e quattro punti di vista originali: Fiammetta Biancatelli, responsabile dell’ufficio stampa e relazioni esterne della casa editrice Newton Compton; Paolo Di Stefano, giornalista del Corriere della Sera e Corriere.it; Umberto Lisiero, autore di News(Paper)revolution. L’informazione online al tempo dei social network e coautore di Viral Video. Content is King, Distribution is Queen; Francesca Santarelli, ideatrice del portale Tropico del libro.
Oggi il mondo editoriale è molto affollato: ogni giorno escono fino a 200 titoli nuovi e sono 8400 le case editrici che operano in Italia, senza contare il fenomeno nascente del self publishing. Tante sono anche le fonti di informazione: riviste specializzate, quotidiani storici, inserti culturali, radio e televisione, portali di informazione ed e-commerce, blog personali e social network (questi ultimi a volte usati anche come fonte di informazione alternativa).
In un panorama così complesso e certamente non esente dagli effetti della crisi economica si impone la necessità di trovare nuovi modelli di business e nuove forme di mediazione culturale.
Il primo a prendere la parola è Umberto Lisiero, autore, blogger, giornalista pubblicista e esperto di social media. Oltre ad essere co-fondatore di Promodigital, società acquistata nel 2010 dal gruppo francese Ebuzzing, specializzato nella diffusione di video online, è autore e coautore di libri sul mondo della comunicazione e dei social media. In News(paper)revolution. L’informazione online al tempo dei social network, edito da Fausto Lupetti Editore, Lisiero si propone di esplorare il web dal punto di vista culturale, interrogandosi su quale sia la direzione del giornalismo su web e quali gli strumenti a disposizione.
Nasce per chiare esigenze economiche: la carta costa troppo e si cercano mezzi alternativi. Da subito, però, ci si rende conto delle enormi potenzialità del web per migliorare la professione giornalistica. News(paper) revolution parte dall’idea che internet sia un media a sé, ma arriva alla conclusione che si tratta invece di un punto di incontro, una sorta di sovrastruttura nella quale gli altri tipi di giornalismo si fondono. La vera svolta è passare da un giornalismo-lezione a un giornalismo-conversazione, e questo vale per tutto il sistema dei contenuti. Gli utenti si aspettano che le notizie siano spunto di riflessione, per questo chi scrive deve fare in modo di scatenare una reazione in chi recepisce il messaggio.
Alla domanda di Francesca Santarelli su cosa si intenda, in questo caso, per reazione, Lisiero risponde con un esempio di grande attualità: il quotidiano online Huffington Post. Nell’edizione statunitense raccoglie migliaia di commenti, tanto da essersi reso necessario l’acquisto di una società che mediasse i commenti in maniera automatica. L’Huffington Post, anche nella versione italiana, è una tipica dimostrazione di come internet sia un forte canalizzatore di reazioni da parte degli utenti, e di come il suo utilizzo sia la chiave vincente anche per il giornalismo.
Paolo di Stefano, giornalista nato professionalmente nel “Corriere del Ticino” ed ora inviato speciale del “Corriere della Sera”, sottolinea come il suo lavoro sia radicalmente cambiato nel corso degli anni. Le pagine culturali sono resistite, a volte in modo un po’ goffo, fino ad oggi, e nel tempo si è sentita sempre più l’esigenza di integrarle nei giornali, di non tenerle confinate alla terza pagina. Negli anni Ottanta nasce la figura del giornalista culturale vero e proprio, così come la cronaca e l’attualità culturale, a testimonianza della prevalenza del giornalismo sulla letteratura. Il giornalista della carta stampata ha vissuto tutte queste trasformazioni, fino all’ultima: la nascita del giornalismo digitale. Ciò non ha significato la scomparsa del cartaceo in quando, secondo Di Stefano, la cultura digitale non va accolta interamente nei giornali.
L’informazione dovrebbe essere gerarchica, e il digitale non deve significare appiattimento. Il segreto sta nell’accompagnare le due velocità: da una parte è necessario accogliere la cultura digitale, dall’altra bisogna anche proporre qualcosa di alternativo. Questo è proprio ciò che Di Stefano cerca di realizzare tramite il suo lavoro per il supplemento culturale “La Lettura” del “Corriere della Sera” e nel blog “Leggere e scrivere” di “Corriere.it”. Così come è interessante dare la propria opinione, essere critici letterari e scrivere recensioni (e Di Stefano vorrebbe un ritorno alla recensione come istituto critico e analitico vero, motivato, fatto da persone competenti e in grado di dare giudizi), allo stesso tempo è altrettanto importante ascoltare le opinioni e le emozioni dei lettori, “sentire la pancia” del pubblico. Il contatto diretto non manca nel blog “Leggere e scrivere”, così come non è mai mancato con i lettori del “Corriere della Sera”, ma chi scrive di cultura, soprattutto sulla carta, deve essere in grado di mantenere sempre una certa autorevolezza, non deve mai perdere di vista la dimensione etica della professione, altrimenti il suo contributo è inutile e rischia di compromettere la sopravvivenza del giornalismo editoriale sui giornali cartacei.
Davvero tanti gli spunti di riflessione dell’intervento di Paolo Di Stefano: l’importanza di filtrare le informazioni, di scegliere ciò che effettivamente è notizia, la funzione comunicativa dei social media attraverso il contatto diretto con il pubblico, l’autorevolezza che il giornalismo tradizionale mantiene. Di Stefano parla della sua esperienza di bloggista e di come i suoi lettori siano variegati ma tutti preparati, a volte addirittura fonte di conoscenza e altre volte di aiuto nell’interpretazione di alcuni fenomeni editoriali. Nell’inserto “La lettura” si cerca invece di coniugare e rispettare le due velocità, proponendo un prodotto autorevole, con buone e responsabili recensioni, e considerando contemporaneamente le novità, l’infografica, le illustrazioni.
Molto innovativa è l’esperienza di Francesca Santarelli, ideatrice e co-fondatrice di Tropico del Libro, portale di informazione editoriale indipendente. Online dal settembre del 2011, questo blog “stimolatore del dibattito” nasce come progetto di promozione della lettura. Francesca e i suoi collaboratori, da lei stessa definiti “i residui dell’editoria”, iniziano con rassegne stampa, piccole notizie su inesplorate realtà editoriali, per poi rendersi conto che gli utenti del sito erano più interessati agli approfondimenti, e così gli articoli si sono allungati: come a dire che, nell’esperienza del Tropico, non valeva la regola del “più breve è, meglio è”. Tropico del libro non fa recensioni, non sceglie di presentare singoli titoli ma si occupa di far conoscere piccole e belle idee di editori indipendenti e start up. Il portale vuole amplificare delle voci, far emergere nuove idee e mettere in dialogo le varie parti della filiera (l’esempio classico è quello dei librai e dei bibliotecari, così vicini eppure a volte così lontani per la loro mancanza di comunicazione efficace).
Tropico del Libro si pone a metà fra una start up e una testata giornalistica: lo scopo non è solo quello di fare informazione ma anche di progettare nel settore editoriale. Francesca Santarelli parla di “deontologia fai da te”, caratterizzata da un forte senso etico e a volte anche da scelte controcorrente, partendo sempre da ciò che è nuovo e sondando, anche attraverso questionari, il sentiment degli editori, in modo da tenere le sezioni del portale costantemente aggiornate.
L’ultimo intervento della tavola rotonda è quello di Fiammetta Biancatelli, responsabile ufficio stampa e relazioni esterne di Newton Compton. Paola Di Giampaolo le chiede come, sul fronte degli editori, siano cambiate le strategie di comunicazione. E la risposta di Fiammetta Biancatelli, già fondatrice della casa editrice Nottetempo, si pone in linea con quanto detto finora: il web ha cambiato tutto.
L’ufficio stampa di una casa editrice, per promuovere un libro, devi dividersi fra stampa, radio, televisione e web, ma quest’ultimo ha una capacità di viralizzazione nettamente superiore, e finisce per acquisire sempre maggiore importanza. Promuovere l’anteprima di un libro su siti internet molto visitati e su social network dà un raggio di viralizzazione della notizia che una recensione su “Repubblica”, per quanto prestigiosa, non potrà mai fornire.
Sul web c’è soprattutto bisogno di comunicazione, e lo si vede tutti i giorni. Se sui giornali, come afferma Di Stefano, spesso le recensioni sono fatte da persone che quei libri non li hanno mai letti, altrettanto di frequente sui blog personali si trovano recensione valide e estremamente dettagliate. I blog possono diventare punti di riferimento e conversazione, anche per i giornalisti. Per questo mai come in questo momento è necessaria la creatività, bisogna reinventarsi continuamente, in tutti i settori.
Parlando di scouting sul web Fiammetta Biancatelli cita un esempio significativo. Da quando è nato il self publishing, è stato un fiorire di e-book auto pubblicati online. E’ stato proprio così che Newton Compton ha scoperto l’autrice di “Ti prego lasciati odiare”, Anna Premoli, primo caso in Italia di self publishing di successo approdato a una casa editrice. Altri cinque autori scoperti sul web sono attualemente in fase di pubblicazione con Newton Compton.
Nel web hanno una larga diffusione anche i video. Ma in che modo possono essere distribuiti negli ambiti editoriali? Lisiero, in Viral Video. Content is King, Distribution is Queen parte dal presupposto che non è vero che basti avere il contenuto. Come suggerisce il sottotitolo del libro, dietro i video di maggior successo c’è una strategia di distribuzione precisa: bisogna pianificare e investire per garantire risultati. La viralizzazione non è a costo zero, né prima dell’upload né dopo.
In editoria e nel mondo del giornalismo, anche cartaceo, il web va visto soprattutto come una grande opportunità. Ѐ importante non perdere mai il desiderio di sperimentare, condividere, fare informazione. L’approccio non va mai dato per scontato: la comunicazione sul web non può essere generica, deve essere personalizzata per chi la riceve, bisogna prima studiare cosa interessa all’altro: in questo modo si dimostra di apprezzare il destinatario, lo si gratifica anche chiedendo consigli e suggerimenti. La comunicazione, insomma, deve essere costruttiva e costituire un valore aggiunto. Francesca Santarelli cita le metafora del pavone, che si fa apprezzare da chi già lo apprezza: è proprio ciò che va evitato, per cercare di uscire dal circolo ristretto di pochi intimi, ma senza arrivare ad una comunicazione indiscriminata di massa. Le parole d’ordine della tavola rotonda sono proprio queste: personalizzazione e efficacia della comunicazione, sulla carta come sul web.
Intervista a Susanne Scholl
di Sara Meddi
Susanne Scholl (1949) è una giornalista e scrittrice austrica, dal 1991 al 2007 è stata corrispondente a Mosca per l’emittente ORF. Per le sue inchieste sulla guerra in Cecenia ha subito l’arresto e la censura da parte delle autorità russe. Sulla Cecenia ha scritto il romanzo-reportage Ragazze della guerra (Voland, 2009).
Il suo ultimo libro Russia senz’anima? è un’indagine su cosa significa essere russi oggi.
C’è un brano nel libro in cui dici che è difficile conoscere la Russia, soprattutto se si fa il tradizionale giro di tre giorni “Mosca-San Pietroburgo”. Visto che tu hai vissuto tanto in Russia ti volevo chiedere secondo te cose dovrebbe cercare di vedere un viaggiatore che per la prima volta si avvicina alla Russia.
Secondo me come turista non si riesce mai a vedere il paese, se non conosci la lingua non riesci a parlare con la gente. Quello che si dovrebbe fare è cercare di conoscere le persone, di girare per la città e non bisogna aver paura. Io ho vissuto tanti anni a Roma e se uno non ha avuto paura a Roma perché dovrebbe aver paura a Mosca…
C’è il capitolo in cui parli di Tania, la signora che vende lino al mercato, e parli del suo sentimento religioso nato andando in chieda quasi di nascosto dalla famiglia, una cosa che nel nostro immaginario è molto russa perché noi abbiamo quest’idea dell’anti-religiosità sovietica…
Sì, questo è vero soprattutto per quanto riguarda l’inizio della rivoluzione sovietica in cui la chiesa era davvero osteggiata, andando avanti le alte gerarchie si sono tutte avvicinate al KGB mentre i piccoli religiosi erano perseguitati, le chiese erano trasformate in ritrovi, come sale da sport ecc. Alla fine dell’unione sovietica si è creato un enorme vuoto ideologico e moltissime persone cresciute in modo assolutamente areligioso hanno ritrovato un nuovo sistema di valori andando in chiesa. All’improvviso tutti andavano in chiesa, nelle repubbliche mussulmane tutti andavano alla moschea e tutti sostenevano che nei loro cuori erano sempre stati religiosi. Questo è più simile a una conversione politica che a una conversione religiosa.
Emerge nel libro la difficoltà di avere una libertà di stampa. Qui in Italia abbiamo avuto un sistema di controllo dei media da parte della politica simile a quello della Russia, e in Italia abbiamo avuto una grande risposta da parte della satira. Mi chiedevo se anche in Russia ci fosse stato un fenomeno del genere…
Sì, specialmente adesso c’è e anche molto forte. Sotto Eltsin era ancora più libera, c’era una trasmissione chiamata “Bambole” in cui si diceva veramente di tutto su quelli che facevano politica. Putin questo l’ha limitato ma quelli che fanno satira ci sono sempre, è viva, per fortuna.
Ti volevo anche chiedere che tipo di letture consiglieresti a chi vuole conoscere la Russia.
Mah… di quelli moderni io consiglierei molto Ludmila Ulitzkaja e Zachar Prilepin che parlano della quotidianità post-sovietica. Ci sono tanti autori nuovi ma non tutti riescono già a parlare della contemporaneità, non è tanto facile. Si parla più che altro dell’unione sovietica che è un metodo per arrivare poi all’oggi.
Storia e scrittura: il linguaggio della memoria
di Simonetta Cinaglia
Barbara Raggi ha pubblicato per i tipi di Editori Riuniti un libro che è solo a somma di un percorso che ha a che fare con le parole, dal recupero di quelle giù scritte, che testimoniano la storia dell'uomo, a quelle ancora da scrivere, per raccontare quella stessa storia attraverso percorsi attuali, interpretazionim confronti con la modernità. Il linguaggio ci serve per capire il passato, fissato su carte e documenti, e ci auta anche a capire meglio il futuro...
È uscito da poco Baroni di Razza. Come l’Università del dopoguerra ha riabilitato gli esecutori delle leggi razziali, Editori Internazionali Riuniti di Barbara Raggi e prefazione di Pasquale Chessa. Ultimo, in ordine di tempo, arricchisce la bibliografia della produzione storiografica dell’autrice. Barbara è la mia “amica di penna”, originaria del mio stesso paese, in bilico tra Toscana e Umbria, in cui passava le estati e poi ritornava a Roma. I nostri colloqui sono fissati nelle infinite lettere che ci si scambiava per lunghi inverni e sono ancora lì a testimoniare che la lontananza, allora, produceva testimonianze scritte del nostro tempo. Ora ci confrontiamo su un presente che, ancora di più, predilige la scrittura, divenuta mestiere. Lei storica e la scrittura è sempre tra di noi. Stavolta non è nostra esclusiva ma è il tramite con cui comunicare e veicolare i propri testi e le proprie curiosità.
Cara Barbara, parla un po’ di te:
Sono nata a Roma l’8 maggio 1965. La mia formazione è stata influenzata molto dalla famiglia d’origine, soprattutto dalle mie due nonne, una toscana, ambedue, ciascuna a suo modo, affabulatrici e narratrici di storie e canzoni. È stato poi un vantaggio e un privilegio crescere in una casa piena di libri di ogni genere e vedere gli adulti trarre un piacere, quasi fisico direi, dalla lettura.
Da dove nasce e trae energia il tuo amore per la scrittura?
Non lo so. Da quando ho imparato, ho sempre scritto, non sto sostenendo di scrivere bene o di avere un talento. Per me la scrittura è una forma naturale di comunicazione tra le persone. Sarà per questo che le e-mail hanno rimesso in gioco corrispondenze, veri e propri carteggi con amici e colleghi, vicini e lontani. Per affrontare un saggio, invece, ho bisogno di molta energia, una spinta non contenibile a raccontare un’epoca, un avvenimento. Nel profondo sono pigra: il mio sogno è acciambellarmi sul divano a leggere.
Parlami della tua bibliografia e delle tue collaborazioni:
Ho collaborato con le pagine culturali del Manifesto molti anni fa. Ora, qualche volta, scrivo per la Repubblica. Se fossi meno pigra, lavorerei di più… Ho scritto tre libri: La segregazione amichevole – La Civiltà Cattolica e la questione ebraica 1845-1945 (con Ruggero Taradel); L’Ultima lettera di Benito (con Pasquale Chessa) e Baroni di Razza – come l’Università del dopoguerra ha riabilitato gli esecutori delle leggi razziali».
Parlami del tuo ultimo libro:
Baroni di razza racconta i meccanismi attraverso i quali i docenti universitari che avevano partecipato alle Istituzioni preposte alla persecuzione antisemita, e sono stati riabilitati dai loro colleghi nel primo dopoguerra. La scelta narrativa è stata di puntare, per ogni capitolo, su un personaggio importante, raccontando la parte biografica mancante. Un oblio che non si sarebbe potuto mantenere così a lungo senza la collaborazione omertosa della gran parte delle élite italiane del dopoguerra. Di fatto, i protagonisti del saggio hanno avuto il massimo successo durante gli anni Cinquanta e Sessanta. Sono riusciti, a dispetto di tutto e di tutti, a mantenere inalterato il proprio potere accademico ed extra accademico.
Come nasce l’idea di scrivere su un determinato tema?
Di solito scrivo perché non trovo libri su ciò che mi interessa, lavoro sugli interstizi, sullo spazio lasciato libero.
Illustrami le modalità tecniche di studio delle fonti, con quale approccio ti muovi davanti ai manoscritti, quale metodo usi per individuare quelle giuste, dove le trovi?
Gli archivi sono dei luoghi meravigliosi, c’è un piacere fisico nell’aprire un faldone, estrarre le carte, spesso freddi documenti ministeriali, vedere il singolo documento all’interno del contesto che lo ha prodotto. Poi c’è il passaggio successivo: mettere in relazione la tua documentazione all’interno della trama della “storia grossa”. C’è un equivoco di fondo: ogni storico inizia una ricerca partendo da un’ipotesi e, se è onesto intellettualmente, cerca nei documenti la conferma o la smentita all’ipotesi iniziale. Nessuno va in un archivio sperando di trovare una sorta di “illuminazione” dalla lettura confusa di documenti o di fondi archivistici sparpagliati. Ho almeno un paio di ricerche abortite perché la mia ipotesi di partenza non ha trovato conferme documentali.
Come si crea un libro dalle fonti, come si passa dall’archivio, dalla letteratura grigia, che spesso nasconde notizie fondamentali, e se ti sei basata su questo tipo di fonti, insomma i ferri del mestiere che servono alla costruzione di un volume.
Ipotesi iniziale, ricerca delle fonti primarie e poi lettura di quanto più possibile è stato prodotto sul tema: libri, riviste, articoli di giornali. Per quanto si possa essere accurati qualcosa scappa sempre. Ci vuole molta pazienza, molto tempo per controllare tutta la documentazione, non cedere al tedio perché la pagina successiva del noioso saggio che hai in mano potrebbe avere una nota fondante per il tuo lavoro. Oppure, una lettera scritta in puro politichese può contenere informazioni personali preziose per la tua ricerca. E non pensare mai che, se lo storico più importante non è riuscito ad accedere a un documento, è meglio lasciar stare. Ci vuole anche un pizzico di fortuna e un fisico bestiale.
Sarebbe importante sapere da te qualche considerazione sul mercato editoriale, visto che ne fai parte e ne conosci i meccanismi, impegnatissima come sei ora a promuovere il tuo ultimo libro Baroni di razza:
«In Italia si legge poco in generale e ancor meno saggistica. Per di più si è affermata una saggistica storica molto narrativa, senza note, senza riferimenti, senza bibliografia. Ora, questi libri vendono molte copie ed è normale che un editore ci punti. Manchiamo di una buona editoria universitaria sul modello anglosassone. Al netto delle considerazioni, gli editori con collane di saggistica, e di storia in particolare, sono eroici: investono tanto per ricavare, a volte, molto poco. Ma quel che è più importante è che l’editore ti affianca un editor, una delle figure più importanti e più precarie della macchina editoriale. Un buon editor, e io ne ho avuti di ottimi, ha confidenza con la tua materia ma è capace di vedere il lavoro “da fuori”, di proporre correzioni fondamentali. È il vero tramite tra chi scrive e il lettore. L’editor è la voce del lettore. Irrinunciabile. Ed è irrinunciabile anche un buon ufficio stampa.
Altri articoli...
Pagina 12 di 18
«InizioPrec.1112131415161718Succ.Fine»