Sciolti
Conversando di letteratura allʼUniversità della Terza Età
di Raffaelina Di Palma
Il corso di “Conversazioni letterarie” dellʼUniversità della Terza Età dellʼanno accademico 2007/2008, era particolarmente interessante.
Il programma verteva sulla poetica dellʼermetismo e la letteratura tra le due Guerre e comprende tre tra i poeti più noti della nostra poesia contemporanea: Quasimodo, Ungaretti e Montale.
A chi come me ha la passione per la lingua italiana e per la poesia, queste lezioni danno uno stimolo emozionale intenso e un valore intellettuale di alto livello; sono lezioni interessantissime, attraverso le quali riesco a relazionare lo spazio tra sentimento e realtà: segmenti che uniscono molto bene passato e presente.
Mi hanno suscitato un profondo interesse, in modo particolare, le poesie e gli scritti di Giuseppe Ungaretti, il quale in uno di questi, datato 1963, così scrisse: “La mia poesia è nata in realtà in trincea. La guerra improvvisamente mi rivela il linguaggio. Cioè io dovevo dire in fretta perché il tempo poteva mancare e nel modo più tragico...[…]
In fretta dire quello che sentivo e quindi, se dovevo dirlo in fretta, lo dovevo dire con poche parole e se lo dovevo dire con poche parole lo dovevo dire con parole che avessero avuto unʼintensità straordinaria di significato”.
In quel contesto, così tragico, della Prima Guerra Mondiale, il poeta fa acquisire alla parola un profondo significato e dà un senso quasi sacro, da cui attinge la forza per superare la brutalità di quei terribili momenti vissuti in trincea.
Anche dopo la fine della guerra, in ogni suo verso è sempre nella parola che sente la necessità e il desiderio di far nascere e di rinnovare ogni volta quellʼignoto, magico strumento che porta lʼindividuo a chiedersi perché, se il mistero torna a galla dalla coscienza, è in grado di illuminare il mondo?
Sempre la parola, ha il potere di riassumere la magia, lʼattesa, la rivelazione, la fatica del vivere quotidiano, liberandola dalla retorica; remota, nuda come filigrana dalla quale traspare la sofferenza: un atto dʼamore come risposta alla violenza.
La poesia ne è la più alta espressione: scavata dalla solitudine, nel vorticoso cammino della vita, può rappresentare una fonte di luce persino quando le difficoltà si accavallano; essa ha la facoltà di dominare e di recuperare con la ragione, per raggiungere, pur se in pieno deserto, quellʼoasi dʼamore dove ognuno sogna di sostare, prima o poi, anche se soltanto per un brevissimo istante.
La poesia, insieme con la speranza, è nel foglio bianco del futuro; per capire e dare il pieno, profondo significato ad ogni singola parola ci vogliono amore, rispetto, civiltà, abnegazione... soltanto con il suo dono, pur se cadiamo in ginocchio, saremo in grado di addolcire un poco le nostre e le altrui solitudini.
Grandi schermi, piccoli uomini. Gli italiani nel cinema americano.
di Alberto Piccini
Il cinema è immagine ossia immediatezza e al tempo stesso è memoria, poiché è la conservazione dell’immagine nelle conoscenze dello spettatore che crea in un primo temo un’affabulazione ed in seguito una tradizione orale e non solo che porta ad un’autentica riproduzione culturale. La stessa storia dell’emigrazione italiana, per fondate e riconosciute ragioni, necessita di energie e di processi riproduttivi in molti sensi tributari o riconducibili all’oralità. Il fenomeno dell’emigrazione è coevo alla comparsa ed allo sviluppo del mezzo cinematografico e l’elemento che con qualche licenza poetica possiamo chiamare “l’occhio della cinepresa” ha senza dubbio colto una serie d’aspetti ad essa connessi. Una serie d’aspetti, dico, non eccessivamente vasta, in quanto all’epoca dei bastimenti in navigazione per le Americhe e del doloroso sradicamento dalla Patria, ci sono giunte immagini in massima parte retrospettive e quasi sempre viziate da una facile retorica. L’emigrante italiano – che in un determinato momento farà cinema e vedremo come – “diventa” cinema durante il suo non sempre felice inserimento. Non è un caso che al rincorsa degli stereotipi, segnatamente del personaggio recisamente riconosciuto come “il gangster” parta dagli anni Trenta, contemporanea agli ultimi fasti del proibizionismo e che porti sullo schermo una figura emergente e dalla tragica catarsi, di boss. Il mito negativo di Al Capone, traspare nei personaggi di malavitosi dalla resistibile ascesa, ritratti nei giorni cruciali della propria amara parabola. Curiosamente quasi sempre interpretati da attori di origine ebraica, “Piccolo Cesare” del 1930 è impersonato da Edward G. Robinson e “Scarface” del 1932 da Paul Muni, i gangster italo – hollywoodiani non presentano i segni di una ricerca naturalista che li potesse modellare dalla fauna attiva sui marciapiedi e degli slums più delle tare riscontrabili in personaggi da tragedia shakespeariana. Vero è che il personaggio di Paul Muni porta il medesimo soprannome con cui Alphonse Capone era noto a Chicago, ma ugualmente vero è che al rovina del capo divenuto troppo potente non si potrà imputare ad una decisa azione di polizia ma alla sua follia tragicamente innescata. Ed avverrà inoltre che negli anni ’80, un film dallo stesso titolo e dalla trama estremamente simile, avrà come protagonista un gangster cubano a dimostrazione di un filo rosso che identifica il crimine organizzato con l’emigrazione più disperata e recente.
Gradatamente, il cinema americano decide di porre l’attenzione sui particolari più noti e riconoscibili fra quelli che caratterizzano la comunità italiana e alla panoramica mai totalmente esaurita sulla storia e l’azione dei grandi clan mafiosi si affianca la disamina sulla cultura familista italiana. La famiglia italiana che presta se stessa la ritratto di Hollywood non è mai “grande” e non genera una saga, essendo questo un genere riservato alle stirpi anglosassoni; lo sguardo che al coglie, scegli un momento di particolare affanno in una salita modesta ma soddisfacente o l’anticamera di una crisi che spesso affonda in difficoltà di radicamento o di evoluzione. A farsi io narrante in queste occasioni, sono spesso giganti della cultura americana, che in seconda battuta pilotano nello schermo loro collaudate prove teatrali. “Uno sguardo dal ponte”, che porta la firma di Arthur Miller, nobilita in cadenze da tragedia greca passioni segrete e torbide che, in tempi di urbanizzazione e di omologazione, non avrebbero fatto che riempire pagine di cronaca. Il commediografo, si spinge oltre: gli obblighi parentali dell’ospitalità e del sostegno al parente nuovo immigrato, ancorché somigliare a convenzioni paesane, ricalcano usi antichi ed è nientemeno che un fato trasportato a New York insieme ai suoni del dialetto siciliano e alle valigie precarie a spezzare al tranquillità della dimora dei Carbone. Altra mano che sulla vita degli italiani d’America si è esercitata, più marcata nel tocco sensuale e quasi onirico, appartiene a Tennessee Williams, che il suo tipo di donna dalla sensibilità lancinante e dalla fragile complessione morale, bene ha saputo adattare a ombrose italiane disperse nel torrido sud ed interpretate invariabilmente da Anna Magnani. La piccola società, anche qui siciliana e riprodotta nel turgido dramma “la rosa tatuata” (1955) richiama ad uno stato “tropicalizzato” della stessa. Donne scalze e scarmigliate, si rincorrono per un quartiere che è quasi un villaggio, dove la superstizione si mescola con la pratica religiosa e contrabbando e prostituzione fanno parte del panorama. Se la protagonista, votata al culto della memoria di un marito fedifrago e coinvolto in loschi traffici, simboleggia tale di stato di sottosviluppo, la figlia sceglie la strada della ribellione e del distacco, integrandosi a pieno titolo nell’America dei giovani, con il conseguimento di un diploma e un fidanzato yankee. Un’altra Magnani di tetra passionalità adattata a Tennessee Williams, la si ritrova in “Pelle di serpente” (1959) in cui la rievocazione del linciaggio del proprio padre fa echeggiare un Sud poco conosciuto e spietato, dove la giustizia sommaria venne utilizzata frequentemente e atrocemente verso molti figli d’Italia colpevoli di troppa intraprendenza commerciale e di un troppo rilassato atteggiamento riguardo le questioni razziali. Le cifre ci raccontano che il gruppo etnico maggiormente martoriato dai linciaggi, dopo i neri, sia rappresentato dagli italiani. Altri italiani riprodotti in nucleo, residenti nelle grandi città e non necessariamente coinvolti nel fenomeno mafioso, ci sono vivacemente riportati da opere di sicuro spessore degli anni’50. La maggiore di queste, insignita di 4 premi Oscar e da svariate nominations, è “Marty” di Delbert Mann (1955): Lo scenario è il Bronx e gli italiani che vi abitano non si dedicano alla dolorosa arte d’arrangiarsi ma a professioni dignitose e retribuite. Hanno frequentato scuole regolari, parlano lingue straniere e somigliano pochissimo ai latin lovers dell’epoca. Il bar, il baseball, la TV e tutti gli accessori della vita americana, contrastano con l’autorità di madri anziane e possessive, la cena a base di spaghetti e l’innamoramento casto e tardivo ma forse felice. La forza della famiglia, esportata dall’altra parte dell’Atlantico, sta al centro di un altro dramma di derivazione teatrale che, precocemente, affronta la tematica della droga come retaggio di abitudini contratte in guerra. Si tratta di “Un cappello pieno di pioggia”, (1957) storia basata sulla forte relazione tra due fratelli, relazione che sminuisce anche l’autorità paterna. Il tentativo di uscire dall’universo della morfina è affrontato nell’ambiente familiare, l’unico forse conosciuto ed affidabile per il giovane reduce e lascia aperta la soluzione nel finale. Al contrario, nel misconosciuto e probabilmente mal compreso anche al tempo della sua uscita “Full of life” del 1956, tratto da un romanzo di John Fante e da lui stesso sceneggiato, un padre fiero della propria professionalità di muratore ed affatto scosso nel ruolo patriarcale che ha assunto per diritto di nascita, interviene non positivamente nella crisi umana e creativa del figlio, un intellettuale in procinto di formare una problematica famiglia. Il progetto del figlio scrittore di comporre un’opera sulla vita di un brigante abruzzese, fallisce miseramente, così come il tentativo di recuperare il rapporto col genitore; malgrado l’atmosfera tenue da commedia garbata, il film sancisce una perdita dolorosa e definitiva di radici.
Altre enclave, altre piccole Italie paesane e turbolente, affolleranno gli schermi dei decenni ’60 e ’70, quando l’attenzione alle minoranze, sia per quanto concerne i personaggi che gli autori di cinema,si farà sempre più ampia. Il grande successo commerciale e l’eco mai del tutto spenta anche grazie ai successivi sequel, ci spingono a riconoscere “Il Padrino “ di Francis Ford Coppola come la somma opera dedicata al mondo degli italo – americani. Non più un gangster – movie, né un film sulla mafia ma “nella” mafia, può essere letto come un racconto non immune da nostalgia intorno ad un’onorata società che non è più e che rassomiglia più ad un potere feudale che a uno spietato business, che non uccide che per difesa e non tratta la “polvere”. I mafiosi di Coppola trasudano onore e fedeltà, rispettano amicizia e obblighi, valutano premi e punizioni e non abbandonano mai l’aura bonaria dell’espressione dialettale e della pratica di cucina, dove nelle pause della guerra di mafia preparano allegramente mastodontiche pentole di salsa rossa. Oltre al greve luogo comune dell’italiano cuoco e goloso, un altro più aspro pregiudizio emana dalle figure del “Padrino”: l’organizzare complotti, il tramare e il tradire, senza conoscere compassione. Gli stolidi e minacciosi gregari di Cosa Nostra sono scherani dei Borgia rivestiti in completo a righe e cappello, i loro capi illetterati allievi del Machiavelli. Italiani, scriveva Flaubert tra i suoi luoghi comuni, tutti cantanti e tutti traditori.
L’affresco più vivido e certamente di maggiore impatto sociologico, si può considerare il celebrato (sia pure in ritardo e solo sulla scia del successo internazionale di Robert De Niro) “Mean Streets” che Scorsese firma nel 1973. In una Little Italy agitata dall’imminente festa di San Gennaro il buon vivere italiano e il buon andamento delle attività mafiose si mescolano pacificamente fino a confondersi. I giovani del quartiere, cattolici praticanti, vivono di traffici illeciti ed ascoltano con pari entusiasmo le hit delle star USA come le vecchie canzoni napoletane. Uno zio mafioso rappresenta l’opportunità di fare carriera, come altrove il conseguimento di un master universitario, il bar è scuola di vita e osservatorio sui fatti del mondo, ai quali si resta totalmente indifferenti, siano essi un omicidio senza movente o l’esplosione di follia di un reduce del Vietnam. Piatti di lasagne o di spaghetti, parafernalia che annoverano il busto di Giovanni XXIII a fianco di quello di Mussolini, canzonette e romanze che echeggiano ad ogni angolo, evocano l’Italia: tuttavia non è essa la Patria degli spaiati e disinvolti ragazzi di Scorsese e neppure sono Patria gli States dei quali risultano cittadini. La terra che i protagonisti si sono scelti e dalla quale non evadono che per brevi e sterili spostamenti è proprio il quartiere, con i suoi locali equivoci, le scommesse clandestine, lo slang parlato agli angoli, tra un lustrascarpe e un poliziotto compiacente.
Tanto nel “Padrino” che in “Mean Streets” si palesano, beffardi, due interventi della regia che si fa deus ex machina: la vittima dell’attentato mafioso più raccapricciante nel primo dei film,è il grande produttore cinematografico, scosso nella sicurezza della propria alcova, mentre nella seconda opera, il killer che, tra gesti scaramantici attenta alla vita dei due protagonisti, è addirittura lo stesso Scorsese, quasi chiamato a fare giustizia di una gioventù che, parzialmente, gli è certo appartenuta.
La teorie delle piccole patrie d’oltreoceano non si interrompe qui: si torna ai luoghi biografici di carriere delinquenziali, ancora una volta dipinti dall’impietosa mano di Scorsese, dove le grandi famiglie allargate dei clan conferiscono grevi sicurezze a ragazzi dalle problematiche origini e dove l’infinita e cospicua cascata di dollari tranquillizza e giustifica i protagonisti per ogni crimine. I titoli sono anzi tutto “Quei bravi ragazzi” (1990) resoconto dell’escalation criminale di un futuro “pentito” al quale, una volta venuta meno la protezione mafiosa, non resta che buttarsi nuovamente come soggetto subordinato, nelle braccia di uno stato che si fa protettore, compiendo ilo proprio destino di nullità ed ancora “Casinò” del 1995, un autentico film – saggio sul gioco d’azzardo, non esente dal mostrare toni nostalgici che ai pratici del tavolo verde sembrano appartenere da sempre. La caricatura non tralascia i personaggi e le situazioni delle due pellicole: i killer appena reduci dall’occultamento di un cadavere scempiato, si strafogano di pastasciutta cucinata dalla madre di uno di loro e i riti collettivi di matrimoni e battesimi sono celebrati con sfarzo e entusiasmo paesano. In “Casinò” i boss la cui potenza decide i destini della grande Las Vegas, sono bizzosi vecchi che cucinano in un retrobottega, altercando in stretto siciliano. Caricatura più marcata ed esplicita sarà tracciata in quel divertissement firmato da Brian De Palma (1986) che è “Cadaveri e compari” in cui i gangster sono messi in ridicolo calcando sugli aspetti più grotteschi della violenza e dell’avidità.
I personaggi “italiani” che il cinema USA continuerà a proporre nelle sue storie, non necessariamente marchiati dal sospetto di appartenenza all’universo criminale, si troveranno a fare parte di un’America che è sempre un grande paese ma si compiace delle proprie sfaccettature etniche. Il microcosmo italiano di “Stregata dalla luna” (1987) conserva, in un’atmosfera di successo economico e di ottima integrazione, caratteri originari indelebili. A Brooklyn, commercianti di specialità alimentari orgogliosamente italiche mantengono legami vistosi e felici con il paese non più dei padri ma dei nonni,: foto di antenati baffuti ed olografie napoletane caratterizzano le dimore, ma il comportamento sentimentale e sessuale diviene sempre più disinvolto e pienamente “americano”. I protagonisti mescoleranno e risolveranno vite e destini nella fatale serata della rappresentazione della “Bohème” di cui non si vedrà una sola immagine, essendo l’autentico melodramma quello messo in scena dalla vivace famiglia Castorini (anche l’Al Capone di De Niro in “Gli intoccabili”, dopo avere commissionato un feroce omicidio, si commuoveva per il dramma di Canio in “I pagliacci”) all’indomani la rassicurante apparenza di una quiete ritrovata apre il prossimo futuro.
Si potrebbero portare altri interessanti esempi in cui “l’italiano” fa da carattere aggiuntivo a personalità eminentemente americane e ottimizza la dialettica con cui i personaggi si confrontano con le realtà più svariate. Italiani sono i protagonisti di “Nick e Gino” (1988) delicata e malinconica commedia, dove un gemello ritardato mantiene con il proprio lavoro di spazzino l’altro gemello specializzando in medicina e dove un gravissimo fatto di cronaca riapre un passato familiare doloroso. Ancora “Palookaville” (1995), che porta chiarissime origini italiane essendo tratto addirittura da un racconto di Italo Calvino, un universo di frustrazioni in un sobborgo del New England, dove essere parte di una famiglia rappresenta un sostegno non solo morale e dove la tentazione della criminalità costituisce ulteriore materia per un fallimento umano.
Il Diario di Mr. Darcy di Amanda Grange
di Daniela Marras
TRE60
Nel mese di ottobre 2013, è stato pubblicato in Italia “Il diario di Mr. Darcy” di Amanda Grange, romanzo uscito in Gran Bretagna nel 2005.
Come si viene informati dalla copertina, si tratta di “Orgoglio e pregiudizio: la versione di Darcy”. Nel risvolto della stessa si legge poi che il romanzo in oggetto è “coinvolgente e fedele rivisitazione di Orgoglio e pregiudizio”, “la storia di Darcy ed Elisabeth... raccontata dal punto di vista di lui... Per la prima volta”.
Chi ama e apprezza Jane Austen, non può non avvicinarsi con curiosità a questa “interpretazione creativa” (l'espressione è tratta anch'essa dal risvolto di copertina) di uno dei suoi più famosi romanzi, che è diventato un classico della letteratura.
Sono note anche le “interpretazioni creative” della sua opera nel mondo del cinema e a breve, a conferma di quanto appena detto, uscirà un nuovo film sulla vita dell'amata autrice, che gode quindi ancora di rinnovata fama.
“Orgoglio e pregiudizio” fu scritto tra il 1796 e il 1797 inizialmente col titolo “First Impressions” che poi, nel 1813 (anno di pubblicazione) diventerà “Pride and Prejudice”; da allora è passato davvero tanto tempo, ma ciò non intacca il successo delle opere della Austen.
Il romanzo di Amanda Grange viene dunque ad inserirsi in questa ondata di “favore” verso i romanzi della famosa autrice britannica e verso lei stessa.
Al contrario di quanto riportato nel risvolto, non è però la prima volta che la storia di Darcy ed Elisabeth viene raccontata dal punto di vista di lui: infatti, nel 2012, la Casa Editrice “Petites Ondes” ha pubblicato in Italia il romanzo “Pregiudizio e Orgoglio” di P. R. Moore-Dewey, pseudonimo ridondante di un’autrice non britannica, ma italianissima.
Tuttavia, è senz'altro il primo esempio che la rivisitazione di “Orgoglio e pregiudizio” viene effettuata in forma di diario. Amanda Grange (che non è nuova alle rivisitazioni letterarie, sotto questa forma, dell'opera di Jane Austen) ha infatti creato un calendario dettagliato della narrazione che si svolge, nel suo romanzo, dal 1° luglio 1799 fino al Natale 1800, con un'appendice di due pagine in data 4 marzo 1801.
Nella fascetta che accompagna l'edizione italiana del romanzo in oggetto, si legge che si tratta del-“la più bella storia d'amore di tutti i tempi come non l'avete mai letta”. Si può obiettare però che la storia raccontata dalla Austen non sia tanto una “storia d'amore”, quanto piuttosto la storia di un “innamoramento”: innamoramento sulla cui origine i due protagonisti, Elisabeth e Darcy, si interrogano alla fine del romanzo “austeniano” nel sessantesimo capitolo, il penultimo dove, nella traduzione italiana, i due innamorati lasciano il “voi” e passano a darsi del “tu”.
Il diario è tenuto da Darcy, ovviamente, e comincia con le preoccupazioni del protagonista sulla sorella minore Georgiana che, in questa rivisitazione, è molto più presente rispetto al romanzo dell’autrice.
La trama è stra-nota, per cui il lettore non si aspetta novità e colpi di scena che non siano già presenti nel romanzo “austeniano”.
Nel diario però, fugati tutti i dubbi sul reciproco falling in love e, superati tutti gli ostacoli dovuti a orgoglio e pregiudizi di vario genere, tra i due protagonisti arrivano anche i baci e Darcy giunge a scrivere: “Era così bella che ho ceduto al desiderio di baciarla. In un primo momento è stata sorpresa, ma poi ha risposto con affetto, e in quel momento, ho capito che il nostro matrimonio sarebbe stato felice in ogni senso” e poi, nel giorno delle nozze, “Attendo con impazienza questa sera. Dopo cena, il nostro matrimonio inizierà”. Azzardo di un'autrice dei nostri tempi rispetto a una storia ambientata secoli fa nel mondo di Jane Austen o semplice concessione al punto di vista di un uomo innamorato?
Benché il romanzo in oggetto sia ufficialmente un “diario”, ufficiosamente diventa una storia ricca di dialoghi e discorsi tra i vari personaggi che Darcy riporta fedelmente, ricorrendo alla trascrizione del discorso diretto, quindi piuttosto un romanzo narrativo “tradizionale” mascherato da “diario”; questo nonostante – si deve ammettere – la scansione degli eventi venga dettata dal calendario ricostruito da Amanda Grange e benché non manchino le riflessioni meditate, i commenti personali, le rivelazioni sugli intimi stati d'animo dell'autore nei confronti di un “quaderno segreto” che, quale suo confidente, ne raccoglie le confessioni.
La traduzione ricrea una narrazione scorrevole, anche se non manca una svista inopportuna laddove si dice che “Miss Bennet era ancora indisposta questa mattina, e Caroline e Louisa hanno insistito affinché restasse a Netherfield fino al suo completo ricovero”: ovvio che Miss Bennet sarebbe dovuta restare fino alla sua completa guarigione, in inglese recovery. Ma, appunto, deve trattarsi di una svista.
Vale dunque la pena di leggere “Il diario di Mr. Darcy”?
Vale se ci si vuole dilettare con una lettura leggera e non troppo impegnativa, avvicinandosi all'opera, come già detto, con quella sorta di curiosità e “affetto” per il mondo e la scrittura di Jane Austen che rimane – è indubbio – impareggiabile: il brio, la sottile ironia, l'effervescenza della sua narrazione restano ineguagliate.
Come dimenticare, infatti, il ritratto efficace e ben riuscito che, fin dall'inizio di “Orgoglio e Pregiudizio” e poi nel corso del romanzo, si delinea dell'arguto e ironico Mr. Bennet?
E' quindi sicuramente consigliabile cogliere l'occasione per rileggere l'opera della Austen che ancora, in un mondo tanto cambiato rispetto al suo, riesce a suscitare interesse, ammirazione, forse desiderio di emulazione, perfino amore letterario e magari un pizzico di rimpianto!
“Storia di una professoressa” - Vauro Senesi
di Daniela Marras
Edizioni Piemme – 2013
E' uscito di recente “Storia di una professoressa” di Vauro Senesi, non nuovo nel cimentarsi in opere di narrativa.
Nel retro della copertina si legge quella che, visto che il romanzo è dedicato “A Simone”, forse vuole essere una dedica supplementare, “a Ester”, che gli “ha donato la storia della sua vita. A migliaia di insegnanti che non hanno tappi di cera nelle orecchie. Che ci credono ancora. Nonostante tutto. Sempre. A otto milioni di studenti. E agli scolari che tutti noi siamo stati”.
Dopo un prologo in terza persona, la narrazione prosegue fino alla fine in prima persona: è Ester che parla e racconta, partendo dalla metà degli anni sessanta per arrivare fino ai giorni nostri.
Ester appartiene a una famiglia di “tutti matti”, come dice la nonna che porta il suo stesso nome, un nucleo familiare che però è molto simile a quello di ciascuno di noi, a cominciare dalla nonna (o la mamma) che dice “Vorrei vedere come farete quando io non ci sarò più” o “Sembri un'anima in pena” (quando “come un gas invisibile e impalpabile, dal grigiore dell'atmosfera esterna la noia umida si insinua all'interno della casa”), oppure dal padre che “da quando è andato in pensione sembra aver iniziato a invecchiare a velocità accelerata”.
Ester studia dalle Orsoline e ha la sua prima esperienza di insegnante proprio quando Suor Veremonda, in un giorno diverso dagli altri, dopo l'esplosione in Piazza Fontana a Milano, indignata per il comportamento delle allieve che ridono e sghignazzano, le chiede di continuare la lezione e lei, dapprima titubante, si lascia poi percorrere da un brivido di felicità.
Prosegue poi l'esperienza di insegnamento con la “libera scuola Don Lorenzo Milani” organizzata col supporto di Don Carlo e dei suoi amici.
E' durante questo doposcuola che si ritrova la familiare, per alcuni, “danza del serpente che vien giù dal monte per ricercare il suo codino che ha perduto un dì...” ed è proprio durante i preparativi per il doposcuola, che Ester trova “Se questo è un uomo, Primo Levi, Edizioni Einaudi” che decide di tenere con sé, anche se il libro è vecchio e la copertina ingiallita: “La neve non è bianca, sembra sporca” vi legge. Ed è l'incipit del prologo, o quasi: “La neve non era bianca. Era sporca come l'aria”. E' quasi un leitmotiv, la tragedia della Shoah, che attraversa tutto il libro fino alla fine. Come il fiocchetto rosso donatole da Suor Veremonda e come lo striscione di carta della libera scuola, nonostante le canzoni di sottofondo e gli accadimenti della Storia (se vogliamo, quella con la S maiuscola) cambino e si susseguano nel corso della vita di Ester e della narrazione.
Quello che resta un punto fermo è, a dispetto di tutto, Giovanni, il suo primo e forse unico amore che sposa giovanissima, diciassettenne, con rito civile “per rispetto l'una dell'altro”, visto che lui aveva perso la fede; un uomo che, un'estate, mentre lui è impegnato in un viaggio di studio a Mosca, tradisce senza pensieri, “così, solo per il gusto di farlo”. Lo lascia e si trasferisce in una città del Nord, per la sua prima supplenza in una scuola di confine, città in cui conosce Edoardo e con cui va a vivere.
E così la narrazione prosegue con i piccoli e grandi cambiamenti di una vita “ordinaria”, come potrebbe essere quella di ciascuno di noi, insegnante o meno.
L'autore ha dichiarato più volte (in alcune interviste in rete) che la storia di Ester gli è stata regalata dalla stessa protagonista che ha incontrato ogni venerdì, per sette mesi. La Ester del romanzo, a suo dire, affronta la vita con grande passione, di insegnante e di donna; sentimento intenso, il suo, che viene messo a confronto con l'amarezza, il cinismo e la disillusione dei colleghi, come anche con la calma, il “rispetto”, il “suo fare da gran teorico pessimista”, il “tono professorale” di Giovanni o la prevedibilità di Edoardo.
Ma come Shlomo (invitato da Ester a parlare ai suoi allievi della sua esperienza in un lager) “racconta con dovizia di particolari e grande meticolosità”, “come se raccontasse la storia di altri”, così – si può azzardare – sembra fare anche Vauro Senesi: è vero, mette in bocca alla protagonista frasi appassionate o le fa assumere atteggiamenti infervorati, soprattutto contrapponendola, di volta in volta, agli altri personaggi, siano essi le compagne di scuola, la sorella, la madre, i colleghi, Giovanni, Edoardo e via dicendo, ma qualcosa manca... Forse è proprio così, “come se raccontasse la storia di altri”.
Il libro è ben scritto ma il ritmo è lento, forse troppo: sicuramente un thrill seeker, chi cerca il brivido, l’emozione, non si aspetta grandi scossoni nella storia di una professoressa e non è incuriosito dal libro, ma anche un lettore che non cerchi i suddetti stimoli potrebbe restare deluso.
E poi questa donna, che si sposa diciassettenne senza grandi problemi in famiglia, va a vivere con Giovanni in un appartamento col sostegno della nonna e dei familiari, tradisce il marito, che la ama e rispetta, senza pensare “a lui nemmeno per un momento”... passa di rado a trovare i genitori stanchi e malati... beh, un tantino antipatica alla fine lo è!
Esercizi di stile: Il Grande Ski-lift
di Marina Brunetti
Con il suo talento linguistico e narrativo, Raymond Queneau ci ha insegnato a giocare con le parole, mostrandoci le infinite possibilità espressive che poggiano, per esempio, su un solo, semplice racconto. Uno stimolo a misurarci con il linguaggio e partire per le nostre personalissime esplorazioni...
Uno dei libri che tutti dovrebbero leggere è "Esercizi di stile" ("Exercices de style"), scritto da Raymond Queneau, pubblicato per la prima volta nel 1947 e successivamente aggiornato nel 1969. In Italia, invece, è uscito solo nel 1983 con traduzione di Umberto Eco e testo originale a fronte, dopo aver intuito, come afferma lui stesso nell’introduzione, che la cosa fondamentale era decidere cosa significasse, per un libro del genere, essere fedeli e la risposta era: capire le regole del gioco che Queneau si era poste e quindi giocare la stessa partita con un’altra lingua. Ma perché è tuttora un must? Il motivo è presto detto: questa opera d’arte racconta la stessa storia in ben novantanove modi diversi.
La storia è semplice: il narratore nota sull’autobus un giovane, dal collo lungo e dal cappello curiosamente decorato con una specie di treccia al posto del nastro. Il giovane ha un battibecco con un altro passeggero, poi va a sedersi in un posto che si è liberato. Più tardi, il narratore incontra nuovamente il ragazzo, ora in compagnia di un amico, il quale gli consiglia di fare aggiungere un bottone al soprabito. Questo banale episodio di vita quotidiana viene raccontato novantanove volte, e ogni volta in modo diverso, mettendo in gioco tutte le figure retoriche, i generi letterari (dall’epico al drammatico, dal racconto gotico alla lirica giapponese), giocando con il lessico, frantumando la sintassi. Il risultato: novantanove versioni dello stesso racconto (secondo una tecnica ben nota ai musicisti, la variazione) all’insegna dell’umorismo, della fantasia e del virtuosismo linguistico.
Sulla falsariga di Queneau, tuttavia armata di notevole umiltà, mi sono cimentata nelle versioni “arcaico-retorica”, “inamidato-ampollosa” e "british-sincopato style” dell’incipit del romanzo “Il Grande Ski-lift”, di Anton Soliman (Robin Edizioni IT, 2001), edizione curata da Francesca Pacini.
IL GRANDE SKI-LIFT (TESTO ORIGINALE DI ANTON SOLIMAN)
“IL PUNTO DI EMERSIONE”
Un piazzale enorme, senza costruzioni a parte una baracca di legno che doveva essere la biglietteria e un altro edificio incompleto, senza finestre. Alcuni ferri arrugginiti sbucavano dal solaio, intorno ai manufatti mucchi di neve marcia, appesantiti da una pioggia sottile. Arginati a stento dalla montagna densi banchi di nebbia scendevano attraverso le punte degli alberi di una foresta di conifere che si sviluppava a perdita d'occhio lungo la valle.
Oscar Zerbi scese dall’auto infilandosi un cappuccio di lana per ripararsi dal freddo, poi si girò lentamente su sé stesso alla ricerca di qualche valligiano a cui chiedere informazioni ma il luogo era deserto. Dalla baracca di legno uscivano i cavi di acciaio che sostenevano le cabine della funivia. Seguì con lo sguardo i piloni dell'impianto che come una fila di giganti pietrificati dall’inverno salivano ripidi sulla montagna, sfumando dopo qualche centinaio di metri ingoiati dalla nebbia.
Ricordò quanto gli era stato riferito sul Grande Ski-lift. Forse l’intera faccenda era stata un equivoco. In realtà si trovava in un posto abbandonato e quell’impianto sarebbe presumibilmente servito a trasportare il legname che si tagliava nei boschi in quota durante l’estate. L’informazione sul Grande Ski-lift gli era stata fornita da un amico che passava per una persona attendibile, appassionata di montagna. Gli aveva parlato del Grande Ski-lift in toni esaltanti: centinaia di chilometri di piste lungo catene montagnose seppellite dalla neve, laghi ghiacciati, foreste, paesaggi alpini incontaminati… Aveva evocato un mondo sublime in cui Oskar avrebbe potuto trascorrere le vacanze in assoluta libertà. E in cui si aspettava di dimenticare molte cose.
Aveva forse sbagliato itinerario? Eppure era stato ben indirizzato sulla strada da percorrere, sui segnali da seguire che aveva puntualmente rilevato lungo il percorso. Aveva ubbidito a tutte le istruzioni in modo da escludere possibili errori. Poteva anche pensare a informazioni deformate ma ritenne che, in questa circostanza particolare, non potersi trattare di un semplice disguido.
IL GRANDE SKI-LIFT: VERSIONE ARCAICO-RETORICA
Un’area di smisurata ampiezza, priva di opere murarie, non fosse che per un ligneo casotto d’atavica funzione cedolare, accompagnava un altrettanto imperfetto fabbricato, quest’ultimo orbo di esteriori affacci. Un imprecisato numero di metalli grigio-argento alla mercé, oramai, della patina ossidante, faceva bella mostra di sé dall’abbaino, la coltre bianca ormai corrotta avvolgeva le artigianali creazioni, aggravate da atmosferico, esile rovescio. Malamente contenuti dal massiccio montuoso, fitti ammassi di natural vapore s’adagiavano attraverso le arboree estremità, appartenenti a una comunità vegetale di aghifoglie, estendendosi fin dove l’occhio umano può vedere.
Oskar Zerbi s’accomiatò dalla vettura calzando in tutta fretta un copricapo di ovino crine per schermare il forte gelo, roteando con il corpo a destra e a manca, onde cogliere presenza di un autoctono soggetto da cui elemosinare ragguagli utili allo scopo, ma codesto spazio appariva non toccato da umana specie. Dal suddetto ligneo casotto sortivano cime di ferrosa lega, utili a sorreggere il gravame dei parvi teleferici abitacoli. L’occhio assecondava i sostegni verticali dell’abnorme struttura e codesti, come una ciclopica teoria dal gelo irrigidita, ascendevano malagevoli diretti al gran massiccio, digradando dopo molteplici distanze, fagocitati da una densa bruma. Rimembrò, in quell’istante, quanto dello Ski-lift gli era stato tramandato. Si fece strada il dubbio che la questione intera fosse stato un malinteso. Alla luce dei fatti, era chiaro che fosse un luogo abbandonato e che quell’immane catafalco fosse utile al traino di alberi recisi in altura nell’assolata stagione. Il ragguaglio proveniva da bocca di fidato confidente, sostenitore caloroso dei massicci montuosi.
Costui gli riferì dello Ski-lift con vigore inebriante: estesissime radure di sciistici percorsi delimitati da montani gruppi, giganti giacenti sotto spesse coltri nevose, enormi pozze gelate, selve, panorami alpestri non toccati da specie antropomorfa. Vagheggiante, immaginaria Arcadia di incantevole universo in cui Oskar avrebbe finalmente adagiato le stanche membra di svago bisognose. E nel quale aspirava ad obliare una moltitudine di fatti. Aveva forse preso un granchio nel tragitto? Eppure era stato ottimamente aggiornato sul percorso da seguire, sugli indizi da sorvegliare e che aveva, come previsto, riscontrato cammin facendo. Aveva ottemperato ad ogni regola impartita, così da scongiurare eventuali abbagli. Facile supporre che gli indizi dati fossero alterati, ma reputò che, in questo dato accadimento, non potesse essere opera di puro malinteso.
IL GRANDE SKI-LIFT: VERSIONE BRITISH-SINCOPATO STYLE
Cortile vasto, spuntava giusto un chiosco, artritico e legnoso. Il resto era deserto, a parte un edificio orbo, non finito. Cosa esce dal solaio? Ferraglia invecchiata male e poi la neve – o quel che ne restava – falcidiata com’era da una pioggerella che noi di Londra conosciamo bene…
La montagna goffa, inutilmente spesa a frenare vivaci banchi nebbiosi, impegnati com’erano a flirtare con punte di boschi sconfinati. Oskar Zerbi: piede sinistro fuori auto e mano destra già in saccoccia a cercare di corsa il berretto. Piroetta danzante e infreddolita ad avvistare qualche anima, mendicando informazioni. Nulla da fare, giusto l’eco lo avrebbe degnato di attenzione.
Un chiosco pensionato, un passato da dispensatore di allegri biglietti, un presente da pietoso camuffatore di cavi e piloni, giganti buoni proiettati verso un nebbioso futuro, anche loro. Memoria che confligge col reale: dove sono capitato? Questo luogo desolato forse aveva un suo perché: ascensore en plein air per le cataste di legna in estate.
Eppure. Ricordava bene il bagliore nello sguardo dell’amico: «Non crederai ai tuoi occhi: lunghe piste, vasti laghi, incomparabili paesaggi». Chiudendo gli occhi, assaporava il lauto e onirico banchetto che avrebbe saziato la fame di libertà e gli avrebbe dato il dono dell’oblio. Acquolina dall’amaro retrogusto: sbagliato strada, segnali trascurati, informazioni mutaformi? No, in questo caso no. E allora cosa?
IL GRANDE SKI-LIFT: VERSIONE OXFORD INAMIDATO-AMPOLLOSO STYLE
Trovo assai arduo descrivere, signori, l’ambascia che provai allorché una sola delle mie estremità fu costretta ad affondare in quella sorta di molle pianura, lasciata all’ignavia di uno sparuto gruppo di incivili alpigiani. Ero già con un occhio al cielo per lo stupore, se non fosse che l’altro notò, mon Dieu, con un moto di disgusto, un ricovero di forma squadrata, forse un vittoriano – ma cosa dico? – lungi da me voler fare ingiuriose associazioni coi miei avi … Mi azzarderei ad avanzare l’ipotesi che fosse un improvvisato quanto empirico strumento per erogare biglietti, come se ci fosse stato qualcosa che ne legittimasse, lì, l’intento …
Dovunque spaziasse il mio limpido e lucido sguardo, nulla che facesse presagire la recente presenza di qualcuno, eccezion fatta per una struttura impudicamente lasciata a se stessa e, forse, equivoco rifugio di malintenzionati. La ripugnanza giunse al culmine allorché la vista andò a posarsi su imputriditi cumuli di neve, orribilmente sfatti da acquerugiola costante; trattenni a stento il mio usitato aplomb, lo ammetto, lasciandomi avvolgere dalla più cupa mestizia.
Dimenticai, pardon, per lo sgomento, di citare, dal succitato, la fuoriuscita di alcuni cavi ferrosi, ricettacolo prolifico di tetano, qualora qualche sprovveduto avesse avuto la malaugurata tentazione di toccarli a mani nude. La mia vista era offuscata dalla bruma che mi costrinse a ripulire – sacrilegio – le lenti degli occhiali con i guanti di camoscio; a quel punto notai che la suddetta tentava inutilmente di forzare il colosso montagnoso, perdendo di vigore man mano che s’inoltrava nelle densità della fitta foresta.
Solo e pensoso, avviluppato nel circostanziale disagio, notai la presenza di un giovane di belle speranze ormai infrante, tale Oskar Zerbi, anch’egli attento a scendere da una povera auto ormai compromessa, nel medesimo tempo preoccupato di proteggere dal freddo una testa che, se avesse funzionato a dovere, non lo avrebbe portato qui, mi perdonino l’ardire. Era smarrito, lo sguardo prima furtivo a cogliere qualsivoglia presenza e poi catatonico, di chi sospetta che non avrà facile ricovero. Lo notai soffermarsi sulla violenta presenza di importanti piloni che andavano a formare una catena cementizia, mischiandosi poi con la molesta nebbia di cui sopra.
Mentalmente visualizzava il memorandum relativo a quel deprecabile scenario: l’ipotesi più accreditata era che quel, diciamo, “fantasmagorico luogo” fosse solo una verbale creatura nata dalla megalomane mente di un suo amico, reo di aver magnificato il tutto come un paradiso abitato da laghi sinuosi, enormi foreste, impareggiabili vedute. Orbene, nulla di tutto ciò: lo scenario si commentava da sé ed era puro turpiloquio. Il povero Oskar aveva tutta l’aria di chi era stato omaggiato, mesi prima, di un’udienza a corte, per venir poi liquidato poco prima dall’ultimo dei servi di Sua Maestà, per impegni inderogabili. Il suo volto tradiva delusione, smarrimento.
Orbene, e la vacanza alpestre? Cosa ne sarebbe stato degli spritz capaci di stornare dalla mente i brutti pensieri e di pacificare il suo spirito ribelle? Lo vidi riattivare i suoi ricordi: aveva ligiamente dato seguito ai consigli, percorrendo le strade descrittegli con doviziosa cura, senza omettere attenzione alcuna.
Concluse, dunque, che non si fosse trattato di puro “qui pro quo”.
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