Sciolti
Fiori secchi
di Ester Maria Schmitt
«Sei l’unico a potermi dare una risposta, e in effetti, ora che tutto è finito, la risposta l’hai data con la tua vita. Alle domande più importanti si finisce sempre per rispondere con l’intera esistenza» (Sándor Márai, Le braci).
Guardo dei fiori appassire, manca acqua nel vaso ma non ne aggiungo, lascio che la natura faccia il proprio corso.
Penso alla morte, da qualche tempo è un’immagine ricorrente. Stanze di ospedale affollate di malati sofferenti, incidenti stradali che coinvolgono i miei familiari, malattie di cui non sono a conoscenza che mi stanno indebolendo poco a poco. Rimugino su cose del genere ogni giorno, spontaneamente. Chissà se da morta penserò con altrettanta frequenza alla vita.
Morte, vita. Te le insegnano come opposti incompatibili, in necessaria antinomia, ma è da molto che per me non lo sono più: sono una di fianco all’altra, spesso si compenetrano a vicenda, possono anche convivere all’interno dello stesso corpo come fossero un tutt’uno – io tante volte ero viva eppure ero morta, morta eppure viva. Io l’ho visto, che può non esserci alcuna differenza, ma so anche che da un momento all’altro tutto può cambiare, che il confine si fa improvvisamente netto e devi decidere: o di là, o di qua.
Ora sono di qua, e ci sto bene. Sono di qua e lo sono per intero, ma qualcosa, da di là, mi ha seguito. Deve aver sentito in me un terreno facile, forse per la simpatia che ho sempre provato per le cose tristi e cupe, la carta da parati che si scolla, una tazza sbeccata, l’autunno. I fiori secchi. Mi affeziono alle persone che hanno negli occhi la malinconia, vedo il dolore dentro di loro e le sento amiche; forse la morte ha fatto con me lo stesso ragionamento, e ha deciso di starmi vicino.
***
Sei morto in maniera continuativa da settecentoquarantadue giorni, ma anche tu eri già morto e rinato in diverse occasioni. Morivi ogni volta che la tua mano colpiva il suo viso, quando maledicevi il giorno della nostra nascita e scaraventavi cornici e cristalli contro le pareti, riducendoli in frantumi. Rinascevi dopo qualche ora, quando ti dimenticavi di quello che avevi fatto. Era facile, per te. Prima di qua, poi di là, poi di nuovo di qua. Ogni volta che tornavi era un pezzo di noi ad andare dall’altra parte, e ogni volta un pezzo più grosso, in un viaggio senza ritorno.
Sulla tua tomba qualcuno ha messo dei fiori finti, di plastica fucsia, sono di così cattivo gusto che la cosa mi entusiasma, mi diverto ad innaffiarli regolarmente. Mi sembra di sentire le imprecazioni uscire dalla tua bocca e risuonare dentro la bara, le mani fremono ma non le puoi muovere – hai esaurito i colpi, la rabbia rimbalza intrappolata nella tua carcassa, accelerandone la decomposizione.
È il tuo contrappasso, poteva andarti peggio.
***
E il nostro, qual è? Cosa spetta a noi sopravvissuti, ai brandelli di noi che ce l’hanno fatta, ai cocci raccolti e malamente incollati? Cosa mi merito io, che di te racconto il peggio ora che non puoi difenderti? Che prezzo pagherò per questa amara, triste, stupida ed inutile vendetta?
Pago tanto e lo pago ogni giorno, perché quel che esce sono briciole rispetto a quel che resta dentro, il passato non è mai alle spalle, il passato è nello stomaco.
***
Raccolgo dei fiori di campo e compongo un mazzetto, abbellisco la tavola il giorno del tuo compleanno. Sono gialli, profumano di fresco, di pace, di futuro, so che ti stai commovendo e mi ringrazi, non sai che non lo sto facendo per te.
Lo faccio per me perché devo darmi una speranza, dimostrare di non essere marcia del tutto, di non essere diventata te. Non mi fai più paura ora che sei sottoterra ma mi spaventa la tua presenza dentro di me, l’eredità con cui prima o poi so di dover fare i conti. Salviamo i morti dall’oblio tenendone vivo il ricordo dentro di noi: ma che conforto è per me questo?
***
Torno in cimitero e aggiungo fiori veri ai fiori finti, il contrasto che creo è fastidioso alla vista eppure sono convinta che non ci sia niente di più giusto. Contrapposti gli uni agli altri acquistano autenticità e la loro natura, portata agli estremi, è ora sfacciatamente manifesta: i finti divengono posticci in maniera inconfutabile, quelli veri sono adesso di una verità stupefacente, come non riuscivano a esserlo da soli. C’è morte dove c’è ancora vita, c’è vita anche se c’è morte, e noi stiamo un po’ di qua, e un po’ di là.
«Le candele» dice distrattamente, mentre i suoi occhi si fermano sui mozziconi di cera che fumano nei candelabri sopra la mensola del camino. «Guarda, le candele si sono completamente consumate» (ivi).
Ciao papà, a presto.
Giochi di luce
di Ester Maria Schmitt
«Chiude gli occhi … e fa centro»
(Julio Cortázar, Il gioco del mondo).
Guardo la realtà senza occhiali. La visione sfocata mi mette a disagio, eppure è quella mia più vera. Poso le lenti e tutto diventa incerto, i contorni si perdono; il mondo mi appare lontano, strizzo gli occhi per mettere a fuoco e penso che invece li dovrei spalancare, avvinghiare con lo sguardo quello scenario sfuggente.
Mia madre la ricordo elegante, sebbene non lo fosse per nulla. Non vestiva bene e non curava granché la propria femminilità, almeno non da quando c’eravamo io e mia sorella. Ma se chiudo gli occhi – « … mi accorsi subito che per vederti come volevo io era necessario cominciare col chiudere gli occhi … » (ivi) – la vedo in piedi, bellissima, con indosso un abito lungo, di lana, e al collo un filo di perle. Conserviamo quello che vogliamo, i ricordi sono nostri e dunque siamo liberi di modificarli, abbellirli, costruirli da zero. Illuminiamo qualcosa, mettiamo in ombra qualcos’altro. Giochi di luce: avete mai perso tempo a osservare? A giocare con gli occhi? Chiuderne uno, poi riaprirlo e chiudere l’altro, piegare la testa di lato, sbirciare attraverso le dita. Da bambina trascorrevo pomeriggi interi così, volevo decidere io quanto mondo far entrare dentro di me, come quando respiriamo, che possiamo farlo più o meno profondamente.
Possiamo ignorare una parte di realtà, possiamo filtrare, alleggerire, lasciar fuori qualcosa. Si potrebbe pensare che è il contrario che non ci è permesso fare, prendere più di quel che di fatto c’è: ma è possibile fare anche questo, con un po’ di maestria: ingannare la nostra memoria. «Quando si tratta della propria realtà, è l’artista ad avere l’ultima parola» (Tom Robbins, Coscine di pollo). Qualcosa può non essere mai accaduto, tuttavia sembrarci più vero di tanti ricordi reali. È falso, ma lo sentiamo sinceramente nostro. Come certe bugie, ripetute nella mente così tante volte che hanno finito col confonderci, e noi col convincerci che si tratta di verità.
Guardo la realtà con gli occhiali, ritrovo sicurezza e familiarità, abbasso la guardia. Ho sempre detestato dover indossare gli occhiali, così pesanti, così ingombranti e di impaccio, così evidenti, proprio lì in mezzo al viso. Da adolescente aspettavo con ansia la maggiore età per poter fare l’operazione e correggere la miopia, essere libera dalla montatura e dalle insicurezze. Ora sono quasi adulta, potrei realizzare questo desiderio, ma non lo faccio: forse non ancora, forse non lo farò mai. La sensazione sgradevole, quasi angosciante data da una visione annebbiata è ormai parte di me, e non sono più sicura di volerci rinunciare. Un disorientamento che il più delle volte evito, ma di cui ogni tanto, consapevolmente, vado in cerca.
Dalle mie parti la nebbia è un fenomeno comune, fa capolino col finire dell’estate e ci accompagna per tutto l’inverno, fino a primavera. E io la adoro: la nebbia ha una consistenza e un odore ben precisi, la nebbia si tocca, la nebbia è latte, un latte in cui si perdono riferimenti, si smarrisce la via e ci si sorprende soli. Ma è quando si è soli che ci si ritrova, ci si conosce davvero, si prende coscienza delle proprie forze.
Amo camminare nella nebbia, e amo guardare senza occhiali. Mi piace sentire la consistenza e la presenza del mio corpo quando tutto attorno sembra invece diventare evanescente. Non vedo quel che mi circonda, non sono più sicura di dove mi trovi: il mondo sembra fermarsi per qualche secondo, mi fermo anche io, respiro. Provo smarrimento, agitazione, allora aspetto. Conto fino a otto – io conto sempre fino a otto. È tutto confuso, ma io ci sono, il mio fiato è caldo, sono carne sono viva. Chiudo e apro gli occhi, alterno il nero delle ombre al fumo bianco, mi mescolo all’oscurità, divento foschia.
Penso agli animali, a quando, illudendosi di nascondersi, chiudono gli occhi: loro non ci vedono più, e credono che sia lo stesso per noi. Sorrido, e mi torna in mente quando, da piccola, facevo qualcosa di simile: iniziava la conta del nascondino e io correvo dietro una tenda, coprivo testa e busto ma, trattandosi di tende corte, lasciavo completamente scoperti le gambe e i piedi. Non ci pensavo proprio a nascondermi tutta, per intero: è con gli occhi che si vede, e se quelli erano coperti, lo sarei stata anche io. Un pensiero ingenuo e infantile, eppure così straordinariamente vero: noi siamo i nostri occhi.
Non c’è una sola realtà, ce ne sono tante quanti sono gli occhi della gente: tutto dipende, sempre, da come guardiamo.
«Sulla piccola tela … Ellen Cherry … aveva l’ultima parola: capovolgeva montagne, trasformava i macigni in salici, e i salici in torte meringate al limone. … Il prodotto finito? Be’, non era né una cruda fetta di realtà né un innocuo batuffolo di fantasia … Sotto la poco promettente superficie della nuda roccia, aveva scoperto una capricciosa girandola di emozioni … » (ibidem).
Giochi di luce.
Senza il mio nome
di Anna Bertini
Invito alla lettura della nuova silloge di Adriana Gloria Marigo.
Poesia è attitudine al pensiero difforme, alla frase in orlo che sfrangia il periodo, o in calce a rivelarne lo scurore, implica l’asse d’equilibrio tra mente e cuore * Adriana Gloria Marigo, Minimalia.
Senza il mio nome, è il titolo della nuova opera poetica di Adriana Gloria Marigo, della quale voglio parlarvi disponendo di questo spazio.
Mi accosto a quest’opera non come critico, con il linguaggio proprio di quella disciplina che non mi appartiene né mi è consono, ma come lettore, e soprattutto, come estimatore della parola dell’autrice, alla quale mi sento legata grazie al meccanismo del “riconoscimento”; lo stesso per tramite del quale mi sono espressa su queste pagine un anno fa circa su Grace Paley. Ad Adriana Gloria sono riconoscente perché lo scambio con lei ha maturato consapevolezze di scrittura che mi mancavano; da lei mi sento riconosciuta, perché ha potuto identificare nel mio esprimere una vicinanza interiore e di creazione che le ha permesso di redigere la nota introduttiva alla mia silloge Profusioni, pur esistendo una sostanziale differenza tra i nostri due modi di espressione poetica. Questo tributo non lo sento come un “dovere di scambio” in alcun modo: lo vorrei ascrivere a quelle comunioni artistiche, quelle conversazioni proficue tra creativi che rimandano al passato, quando il sostenersi e lo scambiarsi intorno alla parola erano parte del processo del divenire autoriale.
Senza il mio nome è un titolo che alcuni hanno sentito come ammantato di arcano, e che ha stretta attinenza invece con la scelta di liriche che l’autrice colloca in questa sua terza raccolta poetica, andata in stampa alla fine dell’anno 2015 per i tipi di Campanotto Editore. Nella lettura è ben rinvenibile il motivo di questa apparente “mancanza di firma”.
Già in “Crescendo l’ora rovente”:
Tutto il tempo affinare il nome
Sull’acuta menzogna esacerbare
di stelle la trafittura d’ossido
crescendo l’ora rovente
farsi sciolta ogni cosa adveniente
primo d’implicanze ancora
essente il nome
e poi nella chiosa al volume;
*
Perdimi, lasciami
ove più non si intessono
fronda e nido -
indietro, alla morgana
mangia i semi di Persefone
dimentica la specie che sono
la cucitura eccellente
sulla veste di festa –
vivere ti è consentito
senza il mio nome.
La Marigo ci porta fuori dal “nominabile”, identificabile e catalogabile in modo certo, prima del tempo o fuori da esso, laddove i fenomeni sono accolti in una vasta naturalità che prelude ogni nascita, ogni eugenetica.
Non vi è un’umanità che è tale perché differenziata, eretta ed eletta, calzata e vestita, e più avanti ancora, distinta a tramite de “la cucitura eccellente sulla veste di festa”, ma esiste un’umanità che si sente appartenente ad un tutto, alla tessitura “di fronda e nido”, che percepisce la rivelazione stellare allo stesso modo della temperatura del giorno che fa “sciolta ogni cosa adveniente”, che è viva come Proserpina quando esce dagli inferi e determina la gemmazione vitale della natura.
Essente il nome, arrivano le “implicanze”, la menzogna che ci separa dal tutto. L’autrice ci invita quindi ad entrare in questo suo cosmo come scalzi, senza nome, prima di esserci nutriti dei semi di Persefone, che ci ancorano all’Ade e alla nostra mortalità. Prima del nome, si è in un tutto, immortali. E si può comprendere appieno il messaggio polifonico del creato, al quale siamo legati tramite un cordone ombelicale che veicola gli strumenti per decifrarlo.
È una natura, come dice Flaminia Cruciani nella sua nota introduttiva, “di sacralità pagana” , nella quale la Marigo si colloca con devozione alla ricerca “dell’invisibile che schiude la parola”.
In: “Di presente acceso”:
Presto sciogliamo le ombre
delle ore acute alla misura
lenta d’umana attesa
presto andiamo ai voti
della luce e da oscure lettere
per numinoso nominare
sorgesse bruciante parola.
O anche a seguire:
*
Evidente l’incuria della parola
alleva un serpentario
facile di morso e veleno
sfoca la soglia al sentimento
in più densa scoria
aggruma contorce involve
il balsamo del terebinto
bianco di taglio
d’issoppo il medicamento
La parola quindi innalzata a rito, bisognosa di numi tutelari per non essere profanata, svilita, per non generare sentimenti bruti, perché essa non sfochi “la soglia al sentimento”.
Comprendo il “lento di umana attesa” proprio come un peggiorativo dovuto all’allontanamento dalla fusione tra lo spazio fisico e quello metafisico, dove il tempo scivola di lato e non più può rallentare, impedire la visione globale e catartica, dove non c’è bisogno di ricorrere alle piante bibliche, il terebinto, l’issopo con le loro stupende assonanze, per curarsi da ciò che “aggruma, contorce, involve”.
La silloge Senza il mio nome ha una potenza epica. È un cosmo splendidamente autarchico ma allo stesso tempo onnicomprensivo. Non ti fa entrare facilmente, ma quando hai scoperto la parola d’ordine e puoi attraversare il limine ti stupisce con visioni, veggenze e rivelazioni, perché in quella dimensione tutto può essere descritto e letto, niente ti deve tirare in basso, togliere la voglia di danzare insieme al creato, far sentire impotente di fronte a una fenomenologia che schiaccia;
“Amor Coeli”
Sovrastati dal suono della luce
Non ci trattengono basse correnti
dove motteggia sempre vero
il tonfo della specie
bassura transitiva di minimo
non accettabile all’inquieto
malleolo in danza.
È la liberazione - certamente ben collocata anche in chiave psicanalitica – dall’ego, che ci permette di avvicinarsi alla parola in modo nuovo, non lontano dal sentimento ma scevro dalla connotazione autoreferenziale.
Nell’interpretazione formale e superficiale del fenomeno invece, la parola si sbiadisce e contemporaneamente perde impeto, forza liberatrice, non consente il volo puro “come a Samotracia la Nike”, la vittoria del sé nella riappropriazione dell’anelito liberatorio, la folgorazione energetica universale che ci fa potenti, luminosi:
*
Fu per l’esiguità di sostanza
La ridondanza di forma
che la parola s’appassionò
alla beltà scandalosa
di un emistichio
dispiegate le ali come
a Samotracia la Nike.
La convinzione di proporre una lettura che nutre e “ala” mi fa qui chiamare l’attenzione del lettore su Senza il mio nome, un’opera non facile, non immediata, ma capace di lasciare segni profondi su chi - abbandonata ogni remora - vi si accosti con necessarie doti di semplicità e apertura.
Adriana Gloria Marigo vive tra Padova e Luino. Dopo gli studi universitari in pedagogia a indirizzo filosofico, ha insegnato nella scuola primaria. Attualmente cura la presentazione di libri e saggi di poesia; scrive recensioni per la rivista online Samgha e, nella stessa rivista, è ideatrice e responsabile della rubrica di poesia “Porto Sepolto”; ha collaborato con Polo Psicodinamiche Prato nell’ottica della relazione tra letteratura e psicoanalisi e con Sebastiano Aglieco in un progetto di poesia per la scuola primaria; scrive nel blog Compitu Re Vivi. Da settembre 2015 è curatrice della collana di poesia Alabaster per Caosfera Edizioni, Vicenza.
Ha pubblicato le sillogi Un biancore lontano - LietoColle, 2009, L’essenziale curvatura del cielo - La Vita Felice, 2012, Impermanenza – plaquette di una poesia illustrata dall’autrice per le edizioni PulcinoElefante, 2015, Senza il mio nome – Campanotto Editore, 2015.
Predilige la diffusione della poesia in una dimensione multidisciplinare e all’interno di altre espressioni artistiche, quali pittura e fotografia: nel giugno 2014 ha presentato a Castelfranco Veneto il lavoro poetico sulle fotografie di viaggio di Imaire De Poli nell’evento “Di Terra e Arte” del Centro di Ricerca Artistica Immaginario Sonoro.
L’educazione di Antoine
di Alberto Piccini
A Parigi corre l’anno 1968, ma Truffaut finge di non saperlo e sui titoli di testa non canta Jim Morrison, ma uno Charles Trenet datato 1942. Vero è che l’inquadratura investe la Cinématheque del Trocadero, chiusa a data da destinarsi, ma l’eco della politica e dei movimenti parigini si spegne qui. Antoine Doinel, che abbiamo lasciato precoce uomo innamorato in “L'amore a vent’anni”, si annoia in una squallida guardina militare, leggendo “Le lys dans la Vallée” di Balzac, tra gli anacronismi delle divise e dei suoi capelli lasciati lunghi. L’ufficiale che lo riceve per decretargli la riforma definitiva, ha i modi bonari e ruvidi di un maestro di provincia e appunto come ad un bambino gli si rivolge: neppure la caserma, dalla quale viene radiato, ha potuto farne un uomo. Come al tempo in cui era un tribolato scolaro, l’ex soldato Doinel corre trafelato verso casa, attraversando Place de Clichy in diagonale e rischiando di essere investito due volte dalla stessa auto. Il primo appuntamento non fissato è in un alberghetto equivoco, dove scegliere un’annoiata e infreddolita prostituta, per festeggiare a modo suo il ritorno alla vita borghese.
La seconda tappa a casa dei genitori di Christine, la ragazza che ha tormentato le sue notti nostalgiche di soldato senza vocazione. Nell’assenza della ragazza – che a differenza di Doline sa vivere nel suo tempo con studi regolari, amici, gite in montagna – viene proposto al ragazzo un provvisorio lavoro e di qui comincia la sua avventura nel mondo degli adulti. Portiere di notte in un compiacente alberghetto, si trova ben presto invischiato in un caso da echi di cronaca, con la scoperta di un adulterio. Emblematicamente, di fronte ai due fedifraghi scoperti, che nella loro semi nudità non esprimono né paura né rabbia, Antoine volta la faccia verso il muro, sogghignando come un chierichetto timido. Niente di grave accade nella camera del peccato, non a esternare, il marito tradito, maggiore violenza del lancio di fiori fradici da un vaso di vetro, sebbene istigato dall’anziano detective autore dell’agguato. E tanta mesta pantomima frutta ad Antoine la perdita del posto, cui il saggio investigatore offre un’ancora di salvezza.
Un nuovo segugio così percorre le strade di Parigi: tra bistrot e portinaie si muove goffo e volenteroso, al punto da essere scambiato da un’avvenente ragazza che pedina per un maniaco, o ritenendo che un berretto sia di per sé un ottimo mascheramento, ma felice di narrare ai genitori di Christine le sue gesta e gli strani casi che vengono trattati all’agenzia. Il lavoro, romanzesco e improbabile, gratifica Antoine che lo vive esattamente come un gioco e portare fuori la sua indecisa e attonita amica in una serata di indagine, è una gioia inattesa. Lo strano e, in fin dei conti, squallido caso del prestigiatore che viene ricercato dal suo ex-amante omosessuale, che alla scoperta del suo nuovo legame con una donna, non accetta la rivelazione e si ribella aggredendo il direttore dell’agenzia, è il ripetersi del boccaccesco caso del piccolo albergo ed anche qui Antoine si defila con gli occhi sgranati, mentre un vicino di casa dentista calma il forsennato tradito con sane e sonore sberle e i presenti sperano solo che la parcella sia stata già pagata.
I pedinamenti non si arrestano qui: un uomo, maturo e deciso, con un impermeabile ed una faccia che evocano il Quai des Orfevres, segue come un’ombra Christine, generando un mistero collaterale alla narrazione ed è la stessa ragazza che tallona, non sempre discretamente, il suo svogliato amico. L’Antoine che cerca di crescere tra indagini goffe e caotiche riunioni in ufficio, avrà la chance di un’avventura da lui riconosciuta subito come balzachiana e disperata ed avverrà per la volta di uno sconcertante cliente del suo principale. L’uomo, un Michel Lonsdale che, nella sua prolifica carriera ha saputo far vivere decine di antieroi, ordina un’indagine al fine di scoprire perché egli sia così impopolare e antipatico; personaggio limitato e malmostoso, ama avere l’ultima parola e mostra una malcelata ammirazione per Adolf Hitler. L’ambito dell’azione di Doinel, qui addirittura agente infiltrato, sarà il fiorente negozio dell’uomo, dove giornalmente si scontra con il malumore e la sfacciataggine delle commesse. Ma non ci sono solo padroni scorbutici e parigine di “bon bec”, nell’emporio di calzature: una sera, proprio come dice il protagonista subito rapito, vi appare la consorte del padrone che, quasi danzando più che camminare, ordina un paio di scarpe. Delphine Seyrig, volto molto caro a Luis Buñuel e già protagonista di “L’anno scorso a Marienbad”, dà le sue fattezze alla donna che sconvolge il giovane romantico. Seduta alla poltroncina, riproduce la postura della madre di Antoine, ne “I 400 colpi”, quando, al ritorno dall’ufficio, incolpava il figlio di essere venuto al mondo e l’impatto più che edipico soggioga il protagonista. Ad uno specchio confida il suo innamoramento, ripetendo, come in uno scioglilingua o in un infantile sortilegio, il nome suo, di Christine e dell’affascinante Madame Tabard. Gli accenti che usa in questa pantomima solitaria, ci fanno intuire come la graziosa semplicità della ragazza ceda di fronte allo charme di una donna che non ride ma sogghigna, che non vede ma accarezza con lo sguardo e che evapora nella notte dopo il primo incontro. E non le si potrà nascondere neppure per un breve tempo l’infatuazione, che banalmente consocerà ascoltando i discorsi del negozio e avrà l’agio di prendere l’iniziativa, ricevendo Antoine a fine pranzo, proprio come gli era avvenuto a casa di Christine. L’imbarazzo farà rovesciare la tazza di caffè e fuggire come un ladro scoperto il giovane. Con l’indagine ad un punto morto e i suoi amori sospesi, saprà colpire la signora Tabard con una lettera zeppa di citazione dal suo romanzo preferito e l’invio della missiva, seguita nel percorso della posta pneumatica, è forse un simbolo dell’ardua navigazione parigina che costruisce questa storia. Ottocentesca anche la resa armata di Madame, che di buon mattino si reca nell’appartamento da scapolo di Antoine (quinto piano senza portiere, molto Balzac), col presente di tre cravatte e con un’altra citazione galante tra le labbra, la chiave della camera nascosta e i due, al pari del regista, lasciano che lo spettatore immagini.
Inutilmente e ignara di ogni cosa Christine bussa alla porta, senza udire risposta e mentre il suo semplice cappotto si confonde nella folla parigina, sempre sotto l’occhio vigile del suo misterioso inseguitore, pensiamo che l’abito haute couture della signora Tabard sia già adagiato tra il disordine di casa Doinel. Non è un’avventura senza conseguenze, in quanto dall’agenzia ci si era premuniti di far seguire la moglie del curioso cliente, e la rivelazione di Antoine provoca l’ira del titolare e il suo licenziamento in tronco, né è l’unica scena da dramma che investe la terribile giornata: nello stesso istante Monsieur Henri, l’anziano e sagace detective che aveva fatto assumere il giovane, crolla ucciso da un infarto.
L’incontro proibito e l’irruzione della morte chiudono un grosso capitolo e i fotogrammi ci restituiscono un Antoine come scaltrito, alla guida di un camioncino e con le improbabili mansioni di radio riparatore. Naturalmente si scontra con un automobilista, niente altro che il padre di Christine e tale accadimento convincerà la ragazza a richiedere l’assistenza per la propria TV. Nessuna riparazione verrà effettuata, ma in un weekend di sole autunnale i due ragazzi si ritroveranno insieme, senza più patire le ubbie e i rancori di una relazione immatura. La passeggiata nella mattina di domenica, ha un terzo incomodo, l’uomo dall’aria di poliziotto che, sempre sottolineato da un’incalzante motivo, ha seguito Christine dall’inizio.
Scopre le carte e altro non è che un appassionato corteggiatore, ingenuo, illuso e forse disturbato mentalmente, un personaggio i cui piedi poggiano sulle nuvole più saldamente ancora di quelli di Antoine. Sul verde del viale parigino, si chiude il film ancora con la canzone di Trenet del principio. C’è l’inizio di un amore, ma c’è già anche qualche nostalgia.
Che senso ha, oggi, rivedere Truffaut, ritrovare Truffaut? Già al tempo, ne sono testimoni le musiche, le citazioni cinematografiche, il gusto per una certa letteratura, qualcosa di demodé pervadeva la sua opera, non ultimo l’obiettivo di far rivivere nella gioventù degli anni ‘60 le angustie e gli entusiasmi della generazione precedente, dei figli della guerra e dell’occupazione, dei ragazzi sbandati già esaminati da Cayatte e fotografati da Carnè nelle accezioni più drammatiche. Il mite Antoine Doinel, in casa propria, custodisce una foto delle sorelle Papin, le autrici di uno dei delitti più raccapriccianti nella storia di Francia, ispiratrici delle “Serve” di Genet. La prigione militare è una tappa non troppo infamante, la prostituzione una frequentazione normale. Si nota subito la forte distanza dai figli del benessere permissivo dell’epoca, degli studenti impegnati o degli aderenti alla cultura hippy. L'erudizione di Antoine è arruffona, autodidatta, Christine studia violino come una sua coetanea di una generazione antecedente. Alberghi, uffici, case private, paiono non avere un tempo e i personaggi che si rincorrono negli spazi mai troppo vasti della narrazione, paiono interpretare il mondo adulto e serioso come un ventenne può concepire.
In questo soprattutto sta la “gioventù” di questo film, nel focalizzare i problemi e le realizzazione proprio a misura di giovane, con l’amore che è sofferenza e azzardo e il lavoro che può arrivare o no, con un futuro che è ancora possibile rimandare e ripensare. Anche per questo ed esattamente in questi particolari giorni ha senso rivedere “Baci Rubati”: un film sulla gioventù e su Parigi, le due cose che a Truffaut sono state maggiormente care nella sua vita e che oggi sono state violentate e oltraggiate ad onta del mondo civile. E forse, noi che a Parigi siamo stati giovani, chi per molti anni e chi per alcuni giorni, domandarci con gli stessi accenti di Charles Trenet, “Que reste t-il?”.
"Buongiorno, notte"
di Nina Ronzino
Non credo fosse a questo che si riferisse Marco Bellocchio con il suo film. Ma ogni mattina, da ottobre a questa parte, quando mi sveglio e fuori vedo un buio pesto che più pesto non si può, mi ripeto:
- Buongiorno, Notte! – E fino alle 9 passate continua ad essere notte, e bisogna alzarsi, lavarsi, preparare la colazione, uscire fuori col cane in mezzo alle ombre tetre della notte. Ma certo, è notte, non riesco ancora a convincermi mai che queste siano mattine.
E per quanto mi vogliano ripetere che la Finlandia è un paese sicuro, rimarrà sempre difficile non pensare che quel tizio che mi viene incontro sul marciapiede – nell’assoluto deserto della mattina polare - coperto dalla testa ai piedi, con solo gli occhi di fuori, non mi aggredirà agevolato dalle tenebre e fuggirà impunito perché tanto non lo vede nessuno! E se pure lo vedessero, nessuno parlerebbe: i finlandesi son rinomati per essere gente silenziosa! È davvero buio. Buio pesto!
Alla fine, per un gran colpo di fortuna, il tizio in questione non mi ammazza, ma finché non la faccio davvero franca il pensiero scorre comunque: ho esperienze argentine nelle vene, io. E anche questo fa parte della notte, certo. Anche i pensieri più oscuri fanno parte della notte. Ma per fortuna, poi, viene il tramonto. Qui l’alba è un po’ come il tramonto. Il sole sorge, e subito cambia idea. - Troppe nuvole - deve pensare.
E ci pensa per circa quattro o cinque ore, poi decisamente decide che è ora di tornare a letto. E dalle 15 in poi si indossano di nuovo indumenti fosforescenti, con lumicini attaccati ai cappotti per evitare di essere investiti da un camion, non si sa mai.
Ma se ci si immerge di più in un centro abitato, allora la storia delle lucine alle finestre cambia gli stati d’animo e trasforma l’atmosfera in magia del nord. Da quando comincia ad arrivare il buio, quello pesto, quello costante, alle finestre compaiono luci e lucette, lampade e abat-jour di tutti i tipi. Solitarie davanti a queste grandi vetrate, riscaldano i pensieri del passeggiante.
Il 6 dicembre è la festa nazionale finlandese, giorno dell’Independence Day.
È una festa seria, una cosa fatta con tutti i crismi, perché da 97 anni a questa parte i finlandesi hanno preso il coraggio a quattro mani ed hanno deciso di non voler sottostare più a nessuno e lo hanno dimostrato con le unghie e con i denti, tenacia e coraggio. E ce l’hanno fatta. Ma questo ha significato 97 anni di riflessione sulla loro identità, sulla manifestazione di ciò che vuol dire essere suomi, con tutto l’orgoglio possibile permeato ogni tanto da qualche dubbio amletico sul loro essere o non essere all’altezza. La verità è che sono portentosi.
Durante questa festa, quest’anno, dopo tre anni qui – caspita quanto mi ci vuole per capire le cose! – sono venuta a sapere che dalle 18 alle 19 del 6 dicembre, in ogni casa finlandese si spengono le luci e si accende una candela che verrà appoggiata in finestra. Se nessuno te lo dice, difficile immaginarlo, e non ti viene in mente d’affacciarti proprio a quell’ora.
Nel proverbiale silenzio finnico, una volta svelato questo segreto, mi affaccio alla finestra e queste candele si accendono come migliaia di occhi nel mezzo della notte.
Una dopo l’altra. I finlandesi non parlano, non sprecano parole, ma con quelle fiammelle si dicono:
- Fratello, sono qui. –
Si abbracciano nel ricordo di questa storia che è un fuoco vivido dentro di loro, anche se è di tanti anni fa. Nel loro tramandarsi le tradizioni e i ricordi, devono aver ammesso passione e onesto dolore, tanto che nessuno di loro ignora il potente significato del giorno in cui sono diventati liberi.
Anche la notte di questo dicembre, all’improvviso, non è più tanto buia. Sembra fatta per pregare per quelli che hanno lottato, o per noi che non sappiamo più lottare. Oggi mi viene in mente che la luce c’è, ma non si vede perché è “ dentro”. Dentro una casa, dentro le persone.
Le candele vive che ricoprono la città la fanno apparire, finalmente, nella sua vera luce interiore.
Ho spento la luce e ho acceso una candela anche io. Chissà come sarebbe accendere una candela il 2 giugno?
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