Sciolti
“Le città invisibili” di Italo Calvino
di Cinzia Di Bernardo
Commento a “Le città invisibili” di Italo Calvino, Ed. Mondadori 1996 (Collana Oscar Opere di Italo Calvino)
«Così viaggiando nel territorio di Ersilia incontri le rovine delle città abbandonate, senza le mura che non durano, senza le ossa dei morti che il vento fa rotolare: ragnatele di rapporti intricati che cercano una forma». Queste parole concludono l’immagine descritta da Calvino della città di Ersilia, una delle cinquantacinque Città invisibili descritte dall’autore, ciascuna portatrice di un proprio denso valore simbolico: questa metropoli rappresenta l’essenza intricata dei rapporti umani, come questi si formino e si distruggano. Io, Ersilia, la leggo come la città dell’abbandono. Come immagini fluide si districano infatti le città di Calvino, davanti agli occhi del lettore e del Kublai Khan: si legge di morte, di rapporti umani, di specchi, di acqua, di ninfe. Le città invisibili di Italo Calvino è un viaggio del lettore attraverso i meandri delle percezioni umane: un vero e proprio viaggio dentro e fuori gli occhi dell’autore. Per ogni città descritta, a ciascuna delle quali lo scrittore assegna il nome di una donna, il lettore è invitato ad addentrarsi, in un fluente e al contempo intricato svolgersi di immagini e concetti, nella realtà complicata, nelle mille sue sfaccettature, espresse dall’autore con incredibile padronanza. Chi viaggia è Marco Polo, alla ricerca dell’ordine, a caccia di simboli, profumi, volti, occhi, da riportare e raccontare poi all’imperatore Kublai Khan, tra i fumi delle centinaia di sere trascorse nel giardino del palazzo. Marco Polo viaggia attraverso le città, osserva e racconta solo ciò che riesce ad esprimere, lasciando il Khan libero di immaginare il resto, il resto delle città esistenti e non. Nelle descrizioni delle città, Calvino segue una metodica che fa parte del suo essere scrittore, e vi assegna un’ulteriore denominazione che molto dice della loro essenza: le città e la memoria, le città e il desiderio, le città e i segni. Per dare un’idea di come l’autore abbia catalogato, filtrato e cucito l’insieme di immagini, nella presentazione al libro (pag VII1) scrive: «Tanti pezzi non sapevo classificarli e allora cercavo delle definizioni nuove. Potevo fare un gruppo delle città un po’ astratte, aeree, che finii per chiamare Le città sottili». Il letterato dalla voce esitante e dalla penna magica percorre, come un boomerang, le strade delle varie città e poi torna indietro con incollate addosso le botteghe, le voci, i colori, i comignoli, le bandiere. I temi affrontati sono vari, come sono varie le percezioni associate a ognuno di essi: si tratta di un classico che, come tutti i classici, esige un’immersione totale che mai si slega, però, dalla realtà; mai è fantasticheria effimera. Come spiega lo stesso Calvino in un’intervista: «Se tutto è fantasia non si tocca niente, non si realizza niente... se abbiamo intorno uno scenario di parallelepipedi, possiamo addobbarlo con bandierine, festoni e ali di farfalle; se abbiamo intorno invece uno scenario solo di ali di farfalle, non viene fuori niente». Un libro che richiede una lettura pedissequa, un viaggio da intraprendere poco per volta, magari una città al giorno, perché nelle strade di quelle città ci si viaggia per davvero: ci si può fermare ad ogni passo per osservare, incontrare gli occhi delle donne che ci vengono incontro, assaporare i profumi.
“Il gabbiano” di Sándor Márai
di Marina Brunetti
Adelphi eBook , Milano 2011
E non bisogna pensare che siano cose che succedono per caso, no... e nemmeno per una questione di diottrie, è il destino quello. Quella è gente che da sempre c’aveva già quell’istante stampato nella vita. (Alessandro Baricco, Novecento, p.12)
Già, un istante. È ciò di cui si sostanzia la vita stessa, oppure la felicità, che non è mai uno stato mentale, bensì una raccolta di limpidi istanti, “nel mezzo del cammin di nostra vita”, disseminati qua e là. Quant’è semplice il mutare degli eventi, legato com’è a meri dettagli… al punto che, come recita una frase entrata a far parte del repertorio comune “il battito delle ali di una farfalla in Brasile, può provocare una tromba d’aria nel Texas”, vale a dire come un minimo cambiamento possa trasformare e determinare il futuro. Viene da chiedersi quale peso abbia dunque il caso nella Storia dell’umanità, dando seguito a quel filone infinito di supposizioni che nasconde tuttavia quello a cui tutti aspireremmo, scoprire la verità:
“E all’improvviso si sente come chi viene bruscamente destato da un sonno profondo e torbido a causa di un qualche rumore o evento inatteso. È la fredda e terribile sensazione di lucidità che si prova quando una voce o un’esplosione, lo scherzo perfido o la crudele volontà di una persona ci costringe a riemergere dalle acque profonde del sonno verso la superficie, in mezzo ai gelidi fatti”.
(Sándor Márai, Adelphi eBook, Milano 2011, pos.1924)
Nei libri di Márai c’è sempre una messa a confronto con il destino, una resa dei conti con se stessi che viene spiegata poi dal dialogo tra due personaggi, sotto l’influsso di un terzo (però assente), che in realtà è sempre un monologo camuffato, come una sorta di voce interiore. In quei momenti il tempo non ha più passato, presente o futuro, si ammanta di una sorta di atemporalità che mantiene sospesi. Il protagonista di “Il gabbiano”, romanzo pubblicato per la prima volta nel 1943, riveste una carica di grandissima responsabilità, un consigliere di Stato che tiene in mano le redini del futuro di una buona parte dell’umanità, ma un uomo, nello scenario dellʼimmenso scacchiere della guerra, tuttavia solo e abbandonato, firmatario di un documento che condurrà il paese al conflitto:
[…] Sì, per effetto di tali parole la grande macchina, lo Stato, con i suoi milioni di raffinati ingranaggi si sarebbe messa in moto, e il grande organismo, la Nazione, si sarebbe ridestato con il cuore in gola. (ivi, pos. 31)
Documento di cui è a conoscenza lui e pochi altri fidati e che, se non verrà reso ufficiale mediante una dichiarazione, non cambierà il destino di tanti. Il Fato antropomorfo si concretizzerà sotto forma di donna, in un incontro che il funzionario giudica fatale e carico di reconditi significati:
“[…] Perché al mondo non ci sono soltanto la legge e i parlamenti e le consuetudini giuridiche. Esiste il capovolgimento dell’ordine e può accadere persino che chi muore risorga dalla tomba, e chi credeva di essere il centro del mondo – figuriamoci, un essere umano! – non sia che un giocattolo in mano a forze che non sono minimamente razionali”. (ivi, pos. 216)
Una donna, Aino Laine, il gabbiano, che ha le fattezze, ma non la voce, della donna che egli amava:
”se non mi controllo [...] attaccherò a ridere… ridere? No, a sghignazzare, a sbellicarmi dalle risa, a picchiare i pugni sul tavolo…” (ivi, pos.175). […] Perché “Non capita mica a tutti, pensa, di seppellire qualcuno che dopo un poʼ risorge dalla tomba [...] e di punto in bianco se ne sta lì sulla soglia, in pieno giorno, all’una e venti” (ivi, pos.188).
e che si è tolta la vita mesi prima per amore di un altro o per vendetta:
“Per lungo tempo non aveva capito che cosa avesse voluto dire morendo. In genere i suicidi vogliono vendicarsi. Ogni suicida vuole vendicarsi di qualcuno o semplicemente del mondo: vogliono che si abbia pietà di loro, che li si rimpianga”. (ivi, pos. 244)
La donna afferma di essere una finlandese fuggita dal proprio paese e in cerca di un lavoro e di un permesso di soggiorno; l’uomo ne resta folgorato: il nome della ragazza, le dice il Consigliere, “racchiude in sé due concetti commoventi e preziosi [...] l’‘unico’, che è pathos e ossessione […] e l’‘onda’ [...] che offre e toglie eternamente i suoi doni, fa incontrare caso e possibilità, crea un legame fra ciò che è unico e ciò che è casuale. Hai un nome bellissimo, Aino Laine. Non a caso è il tuo nome” (ivi pos.1284), dando con lei vita a un convegno durato un giorno, memorabile, in cui lo scrittore Márai ripercorre temi a lui cari, come ai suoi lettori, adusi a compiere profonde riflessioni e a convertire i suoi piccoli libri in manuali di filosofia essenziale, in uno stile estremamente seducente e suggestivo.
Come manichini nei depositi delle sartorie da qualche parte giacciono volti e corpi identici… non è oltraggioso?... Si crede di aver amato qualcuno di unico, nella sua fatale e magnifica individualità. […] (ivi, pos. 770)
L’impalcatura della narrazione poggia su molteplici sottili e seduttivi dialoghi tra i due, protagonisti di una notte, notte in cui arriva il momento che gli esseri umani temono di più, quello in cui ”la vita toglie loro la maschera” (ivi, pos.1242), in cui dovranno imparare ad accettare un destino imprevedibile, figure cardine e simboliche di un romanzo misterioso dai contorni indefiniti, al cui centro spicca un quadro man mano sempre più nitido ma che non si completa mai interamente, fluttuanti figure che discettano tra ciò che è onirico e prodigioso e quanto di più concreto e tangibile si possa concepire. Quello della maschera è un altro leit motiv tipico di Márai, qui rappresentato non solo dal fatto che nella prima parte della lunga notte i due protagonisti hanno assistito, all’Opera di Budapest, a Un ballo in maschera di Verdi, ma anche perché questo tema torna poi spesso, nel loro dialogo notturno:
“Ci sono notti nelle quali si partecipa ad un ballo in maschera… La notte ti ha chiamato e tu rispondi turbato. Svegliati, amico mio” dice Aino Laine al Consigliere (ivi, pos.1251) e lui, da parte sua, guardando la ragazza, pensa che “è come se indossasse dei travestimenti per poi spogliarsene, travestimenti e maschere diversi per ogni istante” (ivi, pos.1380), poiché “la notte mi ha chiamato, e devo rispondere. Ma la cosa meravigliosa è proprio quanto sia reale tutto questo. È meraviglioso che il prodigio sia in carne e ossa, che il destino, quando si presenta in varianti così inverosimili, abbia un visto e un passaporto…” (ivi, pos.1251).
Márai usa lo stratagemma del “doppio” (due donne, due notti “fatali” — quella di Budapest e quella vissuta da Aino Laine a Parigi, notti entrambe che precedono i giorni della guerra e della morte, due serate all’Opera…), per ricordare ai suoi lettori quanto invece sia preferibile il mutamento continuo rispetto alla fissità e il fatto che ci siano dei nostri sosia in giro per il mondo può spingere più facilmente a riflettere sul concetto di identità:
Uno immagina di essere stato creato in un unico esemplare, e un giorno è costretto a rendersi conto di essere una volgare copia. (ivi, pos. 770)
Aino Laine è e non è Ilona, la donna che il Consigliere amava. Appare come una sorta di sineddoche antropomorfa, una parte del tutto, e per tutto intendiamo l’universalità dell’essere umano che non può essere soltanto un “io”, ma porta con sé numerose caratteristiche affini a tutti; ogni essere umano, in fondo, si differenzia da un altro in virtù di semplici sfumature:
Ormai lo so. Nelle ultime ore ho capito che gli uomini temono un unico momento: quello in cui la vita toglie loro la maschera, e sono costretti ad ammettere che quanto custodivano così spasmodicamente e gelosamente sotto la maschera, l’«io», non è così assolutamente individuale come essi, nella loro supponenza, avevano creduto. L’«io» è qualcosa che si ripete, si duplica, si mescola e si rinnova in eterno, e non è assolutamente personale. Poco fa ti ho baciata. Bene, sappi che non ho baciato soltanto te, una donna che è tornata a me attraverso le intricate vie del mondo, ma anche un’altra donna di cui tu sei stata parte, e che, pur morta e sepolta, è solo un frammento del fenomeno che tu chiami «io». (ivi, pos.1242)
Scongiurare lo spegnimento dell’individualità, l’assoggettarsi e adeguarsi alla massificazione resta l’imperativo che ogni umano dovrebbe perseguire:
Queste persone sono sempre massa, anche quando sono da sole. La loro anima è semplicemente un atomo dell’anima della massa: una brulicante impersonalità, che ha un'”opinione” su ogni cosa, e non ha una reale conoscenza pressoché di niente, ma spaurita, piroettando, scintillando, disorientata e senza uno scopo cerca una direzione in cui sciamare… Perché ti stupisci? Questa massa è il cascame di una civiltà; queste donne dal volto imbellettato come mummie egizie, questi uomini dallo sguardo fisso e crudele, che indossano i loro abiti borghesi alla moda dal taglio impeccabile neanche fossero la divisa di una società segreta. Ovunque gelida complicità. (ivi, pos.434)
Esiste un’altra guerra oltre a quella che miete vittime sul campo, ed è quella che si combatte in nome dell’amore, qualcosa che accomuna gli esseri viventi, non solo gli umani, con tutto il suo corollario di delusioni, di incertezze, talvolta di dolore;
E’ questa l’altra guerra che si cela dietro quella visibile: la guerra delle coppie. Ma nessuno storiografo ne ha mai scritto. Peccato… Però si tratta di una guerra, Aino Laine, e miete non poche vittime. E chi ne è consapevole, a una certa età e dopo aver accumulato una certa esperienza, soppesa l’eventualità della vita e della morte quando si china verso il volto di un altro essere umano per baciarlo, un essere umano che è sì una replica, ma – purtroppo, o grazie a Dio – è anche diverso. Ma poi lo bacia ugualmente, vedi… l’esperienza non gli è servita a nulla. (ivi, pos.1623)
Il romanzo, in definitiva, s’incentra su Aino Laine che incarna, anche grazie al suo nome, la possibilità, l’andare e venire dell’onda a simboleggiare metaforicamente la vita che dà e che toglie, la ricerca di vita o la rinuncia della stessa; lʼapolide, colei che non ha più una casa, la fanciulla-gabbiano è anche, in qualche modo, una sorta di “doppio” dello stesso Márai, non solo perché lui stesso uomo dalle molteplici patrie (l’Ungheria, la Germania e la Vienna dell’adolescenza) ma anche di ciò che sarà da esule perché, come dice Aino Laine:
“[…] quando non si ha una casa, all’improvviso il mondo diventa così piccolo… puoi metterti in viaggio, come gli uccelli, come… sì, li abbiamo visti oggi, come i gabbiani.
Ma volare come loro non è facile, perché gli esseri umani si portano dietro anche i ricordi,“ […] E i ricordi ci tirano giù” (ivi, pos.1307).
Goffredo Parise, il romanzo di un’ossessione
di Marina Brunetti
Siamo tutti libri di sangue; in qualunque punto ci aprano, siamo rossi.
(Clive Barker)
”L’odore del sangue” (G. Parise, L’odore del sangue, Rizzoli, Milano, I ed. 1997) è un libro sinestesico e sorprendentemente attuale, in un aggettivo speciale, è noto a tutti, a cominciare dalla confidenza di cui ci mette a parte la compagna di vita degli ultimi anni di Parise, Giosetta Fioroni, testamentaria della cartacea eredità del grande scrittore veneto:
”Nell’estate del ’79 Goffredo rimase a lungo in campagna, a Salgareda in Veneto, e si dedicò alla stesura rapida e segreta di un romanzo, di cui non diceva altro se non che era un libro un po’ speciale”.
(E. Rasy, Goffredo, il sesso, l’amore e la morte, «Panorama», 12 giugno 1997)
Nella primavera dello stesso anno, Parise aveva avuto un infarto quasi mortale, e visse fino al 1986 in dialisi per problemi alle coronarie. Secondo la Fioroni, il romanzo sarebbe stato sigillato e chiuso in un cassetto immediatamente dopo la rapida stesura del 1979, e sarebbe stato riletto dall’autore, senza apportare correzione alcuna, nell’ultimo anno di vita. Sono, in Italia, gli ‘anni di piombo’, anni caotici di violenza, repressioni, attentati eclatanti che hanno la loro acme nell’assassinio di Aldo Moro nel 1978; anni in cui fare politica poteva essere sentito come una scelta necessaria che implicava altre scelte pericolose. I gruppi terroristici dell’estrema sinistra sono simbolo e capro espiatorio di questo periodo sanguinoso della storia italiana: il 7 aprile 1979 ci furono degli arresti di massa di cui fu vittima anche l’intellettuale Antonio Negri, che a distanza di anni riassume in questo modo l’atmosfera politica di allora:
”Oggi sappiamo che i primi atti terroristici sono stati decisi dallo Stato. Il terrorismo di Stato aveva instaurato una strategia della tensione. La produzione di paura rivelava il timore del governo di fronte alle masse… di conseguenza il governo incuteva paura alle masse per impedirne il movimento”.
(A. Negri, Il ritorno - Quasi un’autobiografia (conversazione con Anne Dufourmantelle), Rizzoli, Milano, 2003, p. 9)
Goffredo Parise in questi anni è accusato di disimpegno, termine improprio per colui che voleva analizzare i grandi eventi della storia da vicino, con la forza dell’intelletto ma anche con la più libera ricettività dei sensi, come dimostrano i reportage in Vietnam e nella Cina della Rivoluzione Culturale. Egli è ingorgato a tal punto in questa realtà da percepirne sensazioni apocalittiche, di un disastro imminente, e non ha bisogno di discettazioni ideologiche come Pasolini per poterne descrivere l’anima, che è il sangue. Il purpureo e plasmatico fluire, con il suo odore e il suo carico di morte, è il simbolo portante di tutto questo ”romanzo di un’ ossessione”, come lo definì Cesare Garboli, sia che dilaghi da una ferita di guerra, o che salga al cervello in un impeto morboso di gelosia coniugale, o che sia quello testosteronico degli anni giovanili, della passione, l’amore fisico, il desiderio carnale:
”[…] un odore molto simile a quello dei macelli all’alba, ma infinitamente più dolce e lievemente nauseabondo, anzi, per essere più precisi, esilarante. Mischiato a quell’odore c’era quello di alcool, di etere e ancora altri ma l’odore del sangue, con la sua dolcezza, con il suo zucchero umano, con la sua linfa, dominava su ogni altro e nemmeno i flussi d’aria che entravano violenti nell’abitacolo, riuscivano a portarlo via: stagnava, nella sua dolcezza, e per così dire parlava; si esprimeva, un po’ come potrebbe esprimersi un quadro. Quell’odore era un’opera d’arte e, proprio come l’opera d’arte, quando è veramente tale, esprimeva soprattutto il mistero, l’attesa, il rimando a capire. A capire che cosa? Non lo sapevo”. (ivi, p.5)
Il problema principale non è quanto Parise sia presente nell’opera, bensì quanto quest’opera sia capace di travalicare l’universo artistico per farsi organismo vivente. L’odore del sangue non è solo Parise, ma è Parise in quanto è l’‘uomo’, ed è questo l’unico compromesso possibile tra i suoi innegabili legami con la contingenza, e dunque con il contesto storico e col momentaneo stato esistenziale del suo autore, e l’eternità del fattore umano, cioè la sua capacità di sfuggire alla ieratica morte nella biblioteca universale per vivere come un uomo, fatto di anima e carne, e come un uomo morire. La prima cruda verità, di cui è reso testimone il lettore, è la natura ossessiva dell’odore del sangue, la sua forte valenza psicotica, il suo marcato ruolo di portatore di energia vitale e di vigore, peculiarità proprie della giovinezza che tendiamo a ricercare anche in età adulta avanzata, come semantiche pulsioni di ritrovata gioventù:
“[...] Sì, era chiaro, quello era l’odore della vita, l’odore più profondo essenziale ed unico della vita, ma perché mi attraeva tanto? Perché mi attraeva tanto, quale tipo, qualità di attrazione esercitava su di me? Forse quel tanto di belluino, perfino di antropofagico e vampiresco che, nel profondo più profondo, esiste ancora nell’uomo? Forse. Forse come una metafora, cioè come qualche cosa che allude ad altra o altre cose, per esempio alla brevità della vita, alla sostanza di cui siamo fatti, al fagotto di ossa carne e appunto sangue di cui siamo al tempo stesso contenuto e contenitore? Forse al Dove andiamo, chi siamo, da dove veniamo? a cui appunto allude Paul Gauguin in un suo famoso quadro? Certamente a tutto questo perché in quell’odore, nella dolcezza di quell’odore c’era anche una punta dell’odore di secrezioni, di sperma, cioè di acque e di ittico, una punta di quell’odore di mare che si coglie alle volte quando si ingoia un’ostrica fresca insieme alla sua acqua marina. Ma non più di una punta che bastava a spiegare tutto in una sola, chiara, ma in realtà vaghissima parola: la vita. Ancora, dunque, non capivo”. (ivi, p.6)
Tante domande a se stesso, ma Filippo, psicanalista di mezza età e Narratore in prima persona, non si spiega il perché del suo evocativo attaccamento all’odore del sangue, che diviene il punto centrale delle sue confessioni, in una parola l’enigma, come si evince ancora nel Prologo:
“Continuai per molti anni a non capire fino in fondo il senso di questa emozione che sapevo però si sarebbe potuta afferrare e capire; l’odore del sangue restò lì, nelle zone incerte della mia coscienza come appunto certi sogni che si ricordano solo a mezzo, o certe frasi che appaiono magiche, inspiegabili ma tanto più affascinanti e misteriose proprio per il loro suono e niente più. Poi, un bel giorno, accadde qualche cosa che era, appunto l’odore del sangue”. (ivi, p.7)
L’estasi che lo coglie ai primi sentori di quell’odore – come certi odori che eccitano la sensibilità di Proust – somiglia in qualche modo a quell'excessus mentis (espressione mutuata dal Pascoli, che designa una morte mistica, grazie alla quale Dante si rese protagonista della sua visione ultraterrena), alla separazione dalla realtà cui fa cenno Garboli nella Prefazione al romanzo, riferendosi a quello stato “fuori dal corpo e dal tempo” durante il quale Parise dovette avere scritto il libro, “senza mai alzare lo sguardo dai tasti e quindi lasciando affiorare sulla pagina, simili ai resti di un’ondata, dei segni astrusi e incompleti nei quali è arduo riconoscere il comune alfabeto”. Un romanzo torbido e personale sulla gelosia, come fece notare a pochi giorni dalla sua pubblicazione La Capria: “[…] un libro che Parise deve aver buttato giù di getto per liberarsi dall’incubo che lo ossessionava e che lo ha sempre ossessionato, e pensando, mentre lo scriveva, che comunque questo libro non avrebbe visto mai la luce perché non lo avrebbe mai pubblicato” (R. La Capria, «Corriere della sera», 15 giugno 1997).
L’obiettivo parisiano sarà, dunque, quello di buttare giù uno scartafaccio, in preda a una sorta di esperienza dolorosamente divinatoria, che è all’origine del romanzo, una veggenza che causa incubi e angoscia, perché “bisogna trovarsi a pochi passi dalla morte per lasciare un testamento così sanguinante” (Garboli, ivi). Il plot nasce da una visione, da un sogno che, con il procedere della trama, troverà riscontro e conferma nella realtà: Filippo è uno studioso del profondo, un uomo abituato a sondare certi meandri della psiche attraverso l’affilato bisturi della ragione, un analista che ha deciso di applicare su di sé i mezzi della sua professione in una fase delicata della sua esistenza, che lo vede impotente spettatore del tradimento della moglie, con cui condivide vent’anni di matrimonio nutrito di sessualità romantica, non carnale, si badi bene, quanto piuttosto platonica, in cui – afferma Parise stesso – l’erotismo rinuncia a quella reciproca e selvaggia scoperta animale, alla gioia cruenta e feroce, fatta di antagonismo e conflitto tra maschio e femmina, in cui esplode di regola il sesso, e si esprime in quel modo ammansito e addomesticato che nasce da una reciproca dedizione e da una profonda affettività:
“Ho guardato, anzi visto Silvia per la prima volta quando ho avuto la sensazione che mi tradisse. È questa una reazione diffusa, anzi banale, un po’ meno banale quando ciò accade a un uomo di cinquantacinque anni come me per una donna di cinquanta come Silvia. È vero che Silvia è ancora quello che si dice una bella donna, “ben tenuta”, e anche piena di fascino, è anche vero che si può essere gelosi a tutte le età come dimostrano le cronache ma nel mio caso non si trattò di gelosia, cioè di una passione antica come il mondo, bensì di curiosità, anch’essa una passione terribile ma di pochi e molto moderna. Sono un solitario, un saturnino, come dicono alcuni, e tendo alla fuga, a quella condizione di solitudine selvatica di certi animali. In particolare tendo a fuggire da lei nonostante la ami molto, anzi proprio perché la amo. Lei lo sa e per vent’anni di matrimonio mi ha sempre visto fuggire e anche tradirla: non con la rassegnazione tipica delle mogli sottomesse e sotto sotto interessate, ma, a sua volta, con la trepidazione delle donne innamorate e [così romantiche da] considerare la fuga della persona amata come una sorta di romantica irraggiungibilità, di mistero, dunque di fascino”. (ivi, p.9)
La coppia platonica, nell’immaginario parisiano e secondo quello del Narratore stesso, è inestricabile e simbiotica tanto quanto quella sessuale; per dare forza al suo pensiero lo scrittore ricorre a una similitudine vegetale, attinta al patrimonio dei suoi ricordi di viaggio nel Sud-Est asiatico, in cui lui si fa scultura e la moglie liana: “[…] quella inesorabile simbiosi che in natura si manifesta continuamente e che con gli anni si fa sempre più profonda e inestricabile. Questo pensiero m’era venuto naturale e spontaneo alcuni anni fa visitando da solo le rovine del tempio di Angkor Vat in Cambogia. […] Si trattava di uno stupa, letteralmente fagocitato dalla vegetazione. Gli alberi, le liane, non stavano soltanto attorno alla costruzione [...] ma in mezzo, dentro le sculture, cosi che , come la scultura stessa con stagioni, piogge e la forza potente della natura era finita essa stessa per diventare una liana […]. (ivi, p.24)
Filippo ha già, dal canto suo, compensato l’illanguidito ménage coniugale con una vita alternativa in un paesino lontano da Roma, nel Piave, con la silente compagnia di una ragazza, Paloma; nonostante questo allontanamento fisico, mentalmente quest’uomo resta ancorato all’immagine rassicurante e devota della moglie, totalmente al corrente della seconda vita del marito ma impossibilitata a ribellarsi in virtù dell’amore totalizzante per il marito e in vizio di incapacità di autonomia sentimentale. La relazione, ventennale, si assesta su una apparentemente pacifica routine, fatta di lunghe, quotidiane telefonate che al protagonista abbisognano come l’aria; il telefono, dunque è “il filo che li unisce sentimentalmente e li tiene lontani sessualmente, e fa capire comunque che il loro legame è forte, è una simbiosi” (R. La Capria, Parise. Vedi alla voce gelosia, «Corriere della Sera», 15 giugno 1997). Questo perché la comunicazione telefonica è, in qualche modo, la cartina al tornasole di Filippo per saggiare tutte le sfumature comportamentali di sua moglie, l’esaustivo modo per avere di lei una visione completa e assoluta: come afferma anche Márai ne "Il gabbiano", gli uomini si distinguono l’uno dall’altro per sfumature, appunto, e dalle pause, dalle reticenze, dalle omissioni, dai toni, dai respiri, dai silenzi, egli riesce a capire cosa succede a Silvia, in special modo quando inizia a germogliare quella che lei minimizzando definisce “sbandatina” per il giovane fascista con il culto della forza, della virilità:
“[…] Era un timbro di voce drammatico, appassionato, un timbro di voce che non le avevo mai sentito e, purtroppo, il timbro di voce della donna innamorata, perduta d’amore”. (ivi, p.19)
Nel romanzo, i tratti di Ugo, il giovane amore di Silvia, appartengono certamente ad un cliché. Parise non rappresenta l’altro come un individuo preciso, ma come un insieme di caratteristiche che potevano essere di molti giovani romani dell’epoca. La reticenza e le menzogne a cui ricorre la donna quando deve spiegazioni in proposito vedono la moglie vittima di un processo di autocensura, che la costringe a provare vergogna per il discutibile rapporto con un ragazzo molto più giovane di lei; questa deduzione induce Filippo a credere che quello di Silvia per il giovane non sia dunque amore vero ma plagio, condizione a cui la donna, per indole, si era già sottoposta. Si incentrano qui le macchinazioni mentali di Filippo che fanno di Silvia la vittima del rapporto con Ugo, e insieme della propria indole masochistica e passiva. Queste daranno vita, nel corso di tutto il romanzo, fin quasi al suo tragico finale, a visioni e sogni che vertono sul sesso orale.
La presenza di un terzo istituisce quella struttura triangolare che nella psicanalisi è il fondamento della gelosia. Questa struttura ignora la giovanissima Paloma, il quarto elemento; in realtà, si tratta di un passaggio traumatico da un triangolo ad un altro. Nel primo Filippo è al vertice. È lui a decidere quando stare da Paloma a Piave, e quando tornare a Roma da Silvia. Nel secondo il vertice diventa l’amante di Silvia, Ugo, sicché Filippo, re decaduto, viene posseduto da un sentimento di gelosia che gli induce uno stato narcotico:
“Da quell’istante si impadronì di me una strana passività, quasi narcotica, di cui mi resi conto perfettamente ma come il malato steso sul letto operatorio si rende conto che sta per precipitare in quel sonno artificiale e non naturale che è appunto la narcosi. E in quell’istante, l’ultimo di coscienza, sentii l’odore del sangue umano, quello della sala operatoria, quando si è curvi sopra il paziente già aperto, quell’odore dolce un po’ nauseabondo e un po’ esilarante, ma soprattutto dolce, e dolcemente funebre”. (ivi, p.12)
È da questo punto che ha inizio L’odore del sangue: dalla traballante geometria che ha messo una contro l’altra la generazione matura di Filippo e Silvia e quella giovanile dei loro amanti; dalla prospettiva di uno scontro antropologico che deve stabilire chi sia il maschio dominante, e in cui la donna, nell’ottica maschile, è il trofeo che decreta il vincitore; dall’ottenebramento della ragione di chi si sente abbandonato e spodestato allo stesso tempo, e i cui sensi sovraeccitati percepiscono qualcosa di misterioso che assume la forma «dolcemente funebre» dell’odore del sangue. Inscenare attacchi di illegittima gelosia o rinfacciare a Silvia di aver intrapreso questa relazione discutibile con un giovane di cui potrebbe essere madre, non sortirebbe a Filippo l’effetto sperato, al contrario solleciterebbe la già evidente reticenza e la chiusura di sua moglie; sceglie dunque di seguire i dettami della scienza che rappresenta, con psicologica acribia, per venire a capo della faccenda e, se possibile, tentare di ridimensionarla: “[…] Ma sentivo, sentivo tutto. Si trattava ora di sapere. La conoscenza delle cose reali essendo sempre stata, per me, durante tutta la mia vita, fonte di incredibile serenità. Infatti quale miglior metodo per esorcizzare qualunque cosa se non quella della conoscenza. Una volta conosciuta, e analizzata con la ragione, qualunque cosa oscura diventa chiara. Se non altro si sa cos’è, qualunque mostro sia, e una volta conosciuto cos’è si accetta, si combatte, si annulla”. (ivi, p.20)
Il gioco solleticante a cui Silvia invita Filippo ha il pregio di ridestare in lui, seppur con una data di scadenza breve, quella carica erotica e vitale che lo aveva soggiogato e rapito nel momento della prima conoscenza con la moglie stessa, quando si era invaghito dei suoi tratti somatici e del suo fiero corpo: “Fui naturalmente stordito. Cominciava fin da allora il gioco al massacro. Ma anche di questo nessuno dei due era consapevole ed esso era stabilito soltanto dal destino. Presi la macchina, corsi a Bologna, incontrai Silvia e, come ubriachi, ci chiudemmo per due giorni in albergo a fare l’amore. Mai si era fatto l’amore con quella intensità, quella voracità, quella crudeltà. Io mangiavo, letteralmente mangiavo la carne di Silvia, le sue lunghe cosce, le sue fossette alle caviglie i suoi splendidi piedi, sopratutto le sue meravigliose labbra, gonfie, carnose, contorte da una smorfia ripugnata e ripugnante che era la smorfia di quando l’avevo veramente vista per la prima volta”. (ivi, p.36)
L’insistenza descrittiva sulle labbra è interessante. Queste labbra “contorte da una smorfia ripugnata e ripugnante” ricordano quelle di Leda, protagonista del romanzo di Moravia, L’amore coniugale (L’amore coniugale e altri racconti, Bompiani, Milano, 1965, p. 9). Anche qui Silvio, la voce narrante, indugia sul volto della moglie Leda, spesso contratto da “una smorfia grossa e muta in cui parevano esprimersi paura, angoscia, ritrosia e al tempo stesso una schifata attrazione”, la stessa smorfia che gli rivelerà la sua essenza diabolica alla fine del racconto, quando scoprirà il tradimento della moglie col barbiere. «In entrambi i personaggi, tale piega delle labbra viene a compromettere l’immagine di serenità comunicata sin lì ai propri mariti» afferma Onofri nel suo “I misteri di Parise” («L’Unità», 6 luglio 1997), assurgendo ad elemento di disordine atto a scatenare il desiderio sessuale del soggetto desiderante:“Nel passaggio dall’atteggiamento normale al desiderio, è insito il fondamentale fascino della morte. Ciò che nell’erotismo è in gioco è sempre lo sconvolgimento dell’ordine, della disciplina, dell’organizzazione individuale, di quelle forme sociali, regolari, sulle quali si basano i rapporti da persona a persona. Ancor meno che nella riproduzione, nel contatto sessuale l’organizzazione individuale non è affatto destinata malgrado Sade a essere travolta, negata; essa dev’essere semplicemente turbata, scossa quanto più è possibile. Si tende a uno stato di fusione, ma solo a patto che questa, che significherebbe la morte degli esseri individuali, non possa riuscire ad avere partita vinta.
(G. Bataille, L’erotismo (1957), trad. it. di A. dell’Orto, Mondadori, Milano, 1969, pp. 26-27)
Nonostante tutto, quella è una fiamma momentanea che non può assimilarsi a intimità sessuale più consona al bisogno di riscatto dell’uomo dall’incipiente senilità, bensì a quella dell’affetto di stampo fraterno, o meglio, il sesso da Silvia è sublimato “in dedizione quasi religiosa e sopratutto in sentimento materno” (ivi, p.13), l’esatto contrario di ciò che Filippo vorrebbe da sua moglie, che vede come un’opera d’arte e nel cui abisso intravede la vorace passione, descritta talvolta con entomologica precisione. Infatti, come sostiene Bataille (op.cit., p.27), “l’erotismo dei corpi ha […] qualcosa di pesante, di sinistro”: esso “mantiene la discontinuità” individuale e assume sempre un po’ il senso di un egoismo cinico.
Non vi è differenza tra Silvia e Filippo, in questa ricerca di fuga dalla senilità, mentre ricorrono a rapporti che sublimino ancora quel sangue che fatica a scorrere, se non quella della presa di coscienza e del disincanto di lui:
“Sapevo, per esperienza, che, lungi dall’esprimere vitalità, il rapporto tra due persone con venti, trent’anni di differenza, era il primo atto della senilità, cioè del rimpianto per la vitalità. E che la vitalità che noi vediamo o crediamo di vedere nel nostro giovane partner non è la nostra, bensì la sua. È lui che richiede, che agisce, che usa il sesso in modo al tempo stesso innocente e inconscio, noi in realtà non siamo altro che gente che guarda e, guardando, crediamo di agire, cioè di vivere. In realtà invecchiamo e molto più rapidamente cercando disperatamente di allontanare quel pensiero fisso e definitivo che la natura, sempre così misericordiosa, provvede ad allontanare appunto con l’illusione”.(ivi, p.114)
Cinismo e freddezza scientifica sono due caratteristiche portanti della capacità descrittiva di Parise, in particolar modo quando tratta del sesso e della funzionalità del sesso di Silvia; attitudine che ritroviamo, nel romanzo, anche quando tratta del suo rapporto con la madre. Sia Filippo che Parise sono orfani di padre, non essendo stati riconosciuti ed avendo vissuto con la sola madre fino a dieci anni. Quando la madre si sposa, entrambi instaurano con il patrigno un ottimo rapporto a discapito di quello con la genitrice, dalla quale progressivamente si staccano:
“Con mia madre mi pareva di non aver più niente da dire e infatti non avevo più niente da dire né lei aveva più niente da dire a me avendo lei concluso le sue funzioni naturali e protettive di madre e io quelle di figlio da essere protetto”. (ivi, p.125)
Tale assenza di comunicazione pare comunque riconducibile al naturale esaurirsi delle “funzioni naturali e protettive” di madre, nonostante Filippo ammetta di averla amata immensamente, dall’infanzia alla prima giovinezza, e di esserne stato ricambiato, fino al tempo della separazione per lavoro avvenuta quando aveva diciott’anni, perché “le persone si amano finché si hanno sotto gli occhi; qualunque sia il rapporto affettivo tra due persone, se cessa la continuità, e la presenza, cessa anche l’affetto” (ivi, p.128). Pur condividendo o meno quest’ultimo pensiero parisiano, occorre ricordare che a volte la “sindrome da nido vuoto” che accomuna parecchie madri, viene tacitata e ammansita ricorrendo all’accumulo di memorie infantili appartenenti al figlio; nel caso della madre di Filippo, il divario affettivo tra lei e il protagonista ultracinquantenne, che va a trovarla per un ipocrita dovere, è talmente incolmabile che viene soppiantato dalla presenza di un bambolotto che incarna Filippo stesso nell’infanzia, un mediatore-rivale che conferma e aggrava il distacco da colei che l’ha generato: “Mia madre aveva veramente perso il suo bambino, perché io ero cresciuto e maturato e non avevo piu bisogno di lei. Ma lei era rimasta ferma, nel suo sentimento di maternità, a quegli anni, agli anni dell’infanzia, e su quelli, con il tempo, gli anni e le occasioni, aveva costruito un piccolo museo , come io fossi veramente morto”.(ivi, p.129)
Come Silvia aveva finito per amare un giovane, cosi la stessa madre di Filippo continuava ad amare un ragazzo, quello che lui era e che lei considerava ormai morto: “Come si usa dire, non ero affatto rientrato nel ventre di mia madre, come desideravo in quei giorni, ma, al contrario, crudelmente ne ero stato respinto, sostituito dai bambolotti. Il mio dolore e il mio terrore dunque aumentarono”. (ivi, p.130)
Goffredo Parise era un pessimista, ma un pessimista innamorato della vita, quella smorfia amara che lo connotava altro non era che un sentirsi tradito dall’esistenza stessa e mi preme ricordarlo attraverso le parole illuminate di Andrea Zanzotto: “Tutta l’opera narrativa di Parise vive nella meravigliosa e terribile diplopia, nello sguardo che trapassa la realtà e in essa rientra quasi attraverso l’allucinazione, ardendo di un amore «incontentabile» per la vita, per il suo donarsi e sottrarsi continui che lasciano, rispetto a questa immensa capacità di amare, un margine ineliminabile di frustrazione”.
(A. Zanzotto, «Introduzione», in G. Parise, Opere, a cura di B. Callegher e M. Portello, Milano, Mondadori, 2006, vol. I, p. XXXII-XXXIII)
"Cuore cavo" di Viola Di Grado
di Marina Brunetti
Questo romanzo di Viola Di Grado inizia da una fine, con un titolo che sembra la trasposizione antropologica di ciò che accade nel mondo vegetale a un tubero, la patata, che da malata assume appunto il romantico appellativo di “cuore cavo”, quando muore al suo interno per mancanza di acqua, per siccità.
Il parallelo metaforico con la protagonista del libro, Dorotea Giglio, che si congeda dal mondo per sua stessa mano, sembra inevitabile. Qualcosa, anzi molto, doveva mancare nella sua vita, al punto da indurla al “guasto perfetto senza ritorno”; mancava una finestra, mancava la luce, parafrasando Yates (Undici solitudini); ciò che per il tubero è l’acqua, così per l’essere umano la linfa di ogni tempo è data dall’amore che si è avuto, in cambio di quello dato ma incompreso.
“Nel 2011 è finito il mondo, mi sono uccisa.
Il 23 luglio, alle 15.29, la mia morte è partita da Catania. Epicentro il mio corpo secco disteso, i miei tre cento grammi di cuore umano, i seni piccoli, gli occhi gonfi, l’encefalo tramortito, il polso destro poggiato sul bordo della vasca, l’altro immerso in un triste mojito di bagnoschiuma e sangue”.(ivi, pos.12)
Stordisce i sensi e li rapisce questa scrittura originale che assesta pugni ovunque, per destare dal torpore e dalla noia la gente che non s’accorge del suo addio, che non accomuna neppure il suo ultimo respiro al fiotto del vulcano:“Alzando gli occhi al cielo i catanesi sono stati sorpresi da una pioggia dura e nera. Qualcosa si era fermato, qualcosa non poteva più essere rimediato. Tutti hanno abbassato gli occhi brucianti, nessuno mi ha riconosciuto”. (ivi, pos.34)
Da sempre il cuore è la sineddoche umana per eccellenza, inerme ricettacolo di gioie ma soprattutto di colpi inferti dal destino o dalla semplice apatia affettiva degli altri; è il primo organo a soccombere e annullare le sue proprie funzioni, il rigor mortis lo attacca e lo costringe, ancora una volta, a ripiegarsi su di sé, a ispessire le pareti, per la finale delusione: “Poi è toccato alle palpebre e a tutti i muscoli del mio viso smunto. […] Dodici ore dopo ero interamente rigida. Poi è toccato al resto del pianeta”. (ivi, pos.45)
Fino a quell’afoso attimo di luglio, la vita scorreva nella malsana routine esistenziale, fatta di pochi esami restanti, di un lavoro e di una serie di tarli che avevano iniziato a lavorare molto tempo prima che da morta, uno sfiancante lavoro di evitamento del dolore, di rifiuto affettivo da parte di una madre traumatizzata dalla perdita di una sorella suicida, dall’assenza di un padre, «la paternità non è che un piccolo risultato - direbbe Lalla Romano - mentre la maternità è paradiso e inferno», dall’abbandono di un amore: “Era facile abbinare i brividi ai ricordi. A quelli miei o a quelli che mi aveva contagiato mia madre”. (ivi, pos.55)
L’ansia da abbandono che lavora solerte, l’assenza di un padre che avrà, come sempre accade, ripercussioni nell’attesa continua di un segno: “Dentro la bara soffro come se la solitudine fosse ancora rimediabile. Come se mio padre potesse tornare da un momento all’altro a rimboccarmi la pelle rimasta” (ivi, pos.202); i perché di un gesto sono tanti: la latitanza materna, l’anaffettività, l’incapacità di accudimento, vuoti esistenziali sempre pronti a “trucidare i momenti belli che passavo con Lorenzo”, il quale, nonostante l’adoperarsi iniziale per sopperire medicalmente alle gravi carenze di Dorotea, finisce per soccombere di fronte alle di lei insanabili fragilità: “Lorenzo mi aveva abbandonato in settecento caratteri, la misura massima consentita da un sms prima di sforare nella tariffa doppia, mentre studiavo sul dondolo della villa di zia Clara a Costa Saracena”. (ivi, pos. 67)
La catabasi nella materia-inferno della giovane protagonista, non ha nulla a che vedere con il “gorgo muto” di Pavese, o con l’apoteosi descrittiva di Dante, se non nel fatto che anche la sua anima in pena non faccia che ripercorrere i propri passi, obbligata a scontare un dolore pari ai peccati commessi durante la vita, oppure con quella di Ulisse, che resta sulla soglia del regno dei morti: è un percorso fantasmatico accurato di quanto le accadrà nei tempi del disfacimento fisico, delle tenere prese di coscienza che non avranno alcun riscatto nel futuro, “Non volevo crescere. Volevo rimanere bambina per quando un giorno mio padre sarebbe tornato. Non volevo che quel giorno, aprendo la porta, non mi riconoscesse”, "Dovevo rimanere come un fossile, sepolta nella mia casa polverosa finché il suo ritorno mi avesse riesumata” (ivi, pos.416 e 530), un’analisi entomologica che lei riporterà doviziosamente in ogni sua sfaccettatura, rivelando una cultura sorprendente sul mondo degli insetti, poveri incaricati consolatori nel buio di una bara, se da una parte le faranno compagnia, dall’altra la consumeranno. Non c’è un divario netto tra la vita e la sua fine, non vi è un traumatico passaggio dallo stato sensoriale a quello del silenzio eterno, dei sopiti sensi. Non vi è un alto scalino oltre il quale aspettarsi il vuoto e non è neppure un “lasciare ogni speranza”, la vita sembra quasi continuare, pagina per pagina, in un continuo incedere e spiare coloro che restano, la madre, la zia o il datore di lavoro, o colui di cui si innamora da morta, Alberto: “Signore e signori, la malattia è finita: il cuore si è fermato, e con lui gli altri sintomi. Signore e signori, lasciate accanto alla mia lapide un contributo in fiori pari al vostro cordoglio. Adesso non potete più usarmi o farmi del male: è il turno dei vermi. Né potete calpestarmi: arrivano prima le radici degli alberi. Signore e signori, non andate via: la mia morte, sottoterra, continua, continua, continua”. (ivi, pos.219).
La Di Grado affronta temi interessanti racchiudendoli in frasi, come quello del significato del dolore: “Avevo capito che il dolore è una matrioska: non finisce si nasconde solo dentro nuovi dolori e ogni nuovo dolore li contiene tutti” (ivi, pos.521) e della morte: ”Ecco cos’è la morte: una matrioska di stanze vuote. Peccato, proprio adesso che l’amore sarebbe stato davvero eterno” (ivi, pos.1205). L’intento della scrittrice, tramite Dorotea che le fa da portavoce, è quello di abbattere la barriera tra vita e morte, “questo noioso tabù occidentale, non risparmiando alla (sua) analisi nessuna fase dell’esistenza. Vita e morte non come evento, ma come processo, da mosca a mosca”. (V. Merlini, Intervista a Viola Di Grado, «Panorama» 1 marzo 2013) Un’acribica documentazione della decomposizione che può, per qualcuno, divenire elemento perturbante durante la lettura e questo anche perché, “culturalmente, tutti noi poniamo una barriera tra la vita e la morte: il disfacimento fisico inevitabile, un altro dei nostri tabù, si trova a una fase intermedia, quindi ambigua e che mette in discussione questo muro presentando la morte per quello che è davvero: non un evento ma un processo” (ibidem).
Non esiste una vera fine, sostiene la Di Grado, quando rappresenta Dorotea da morta come un fenomeno geologico universale: “Il mio sangue alla base dell’Etna, sotterraneo, arginato dalla roccia. Il mio sangue che spinge da sotto gli steli e le radici delle querce. Raggrumato dentro ogni pianta, prosciugato nella bocca aperta di ogni petunia rossa. Inspirare, adesso, è vento” (ivi, pos.1245); gli atomi si riciclano in altri esseri umani, tutto si trasforma, lasciando campo aperto a tutta una serie di interrogativi inerenti la metempsicosi: “Equivalgo a tutto il resto, come accade a chi non è più nulla. Sono una libera associazione, una figura vuota, un album da colorare. Ma anche se sono uno sguardo volatile fuori dal mio scheletro, posso tornare dentro la mia gabbia toracica quando voglio. Posso stringere il metacarpo e le falangi come quando tenersi per mano era consolante. Posso fare tutte queste cose perché io e il mio scheletro ci amiamo: siamo in una specie di relazione aperta, e io sono gelosa di tutti gli insetti, del vento e della pioggia, dei batteri anaerobi”. (ivi, pos.617). Per questa ragione e per tutto il corso del libro la giovane continua a vivere le sue giornate, a vedere da invisibile, a interagire con persone defunte, a lavorare, ad amare ma, nonostante questo, l’inaccettazione da parte della società è ugualmente avvertita, da viva come da morta:
“Il mio nome sparì presto dalle bocche di tutti , e quando usciva aveva l’alito di alcol e di sonno disturbato. Il mio nome non c’è più nei pensieri di Lorenzo ma lì è sparito già da tempo, ora pero è sparito anche dalla sua rubrica telefonica. Quando il mio nome viene pronunciato, io non rispondo: il silenzio è il mio centralino, risponde per me. Il mio nome è una casa abbandonata” (ivi, pos.767)
L’unico peccato della giovane è quello di non sentirsi accettata, prima ancora che dalla società, da se stessa: “Era una liberazione, essere finalmente fuori di me: da viva passavo troppo tempo dentro di me, segregata nel freddo monolocale del mio cervello, con tutte le finestre rotte e le serrature da oleare. Soffocavo nell’aria viziata della mia infanzia, coinquilina di tutte le me del passato senza avere le chiavi di casa” (ivi, pos.978). Credo sia questa la frase chiave di questo coraggioso e magnifico romanzo, indelebile gesso bianco su lavagna nero inferno che, una volta di più, ci sussurra una lezione che andava ripetendosi anche un grande del passato:
“Devo perdonarmi per il mio bene. Non si può sempre nutrire una serpe in seno, né alzarsi ogni notte a seminare spine nel giardino della propria anima” (Oscar Fingal O’Flahertie Wills Wilde).
Lʼultimo giorno di un condannato a morte
di Daniela Marras
Victor Hugo – Newton Compton Editori – Aprile 2014
La Newton Compton Editori ha di recente pubblicato alcuni testi, classici e meno classici, a prezzi contenuti e che tutti possono permettersi. Tra questi “Lʼultimo giorno di un condannato a morte” di Victor Hugo, pubblicato per la prima volta nel 1829.
Lo scritto di Hugo è preceduto, in questa edizione, dallʼintroduzione-saggio “Lʼultima notte della vita” di Arnaldo Colasanti nonché dalla Prefazione dello stesso Hugo alla quinta edizione del marzo 1832 e dalla “specie di prefazione in forma di dialogo” che accompagnava la terza edizione.
Come chiarisce lʼautore, “Lʼultimo giorno di un condannato non è altro che unʼarringa, diretta o indiretta, per lʼabolizione della pena di morte... è lʼarringa generale e permanente per tutti gli accusati presenti o futuri... E perché lʼarringa fosse vasta quanto la causa, egli ha dovuto – e per questo Lʼultimo giorno di un condannato è così fatto – sfrondare ovunque nel suo soggetto il contingente, lʼaccidentale, il particolare, lo speciale, il relativo, il modificabile, lʼepisodio, lʼaneddoto, lʼevento, il nome proprio, e limitarsi (se questo si può dire limitarsi) a patrocinare la causa di un condannato qualsiasi, giustiziato un giorno qualsiasi per un crimine qualsiasi. ”Egli si prefiggeva di “dare il suo colpo di scure... allargare... il taglio aperto da Beccaria, sessantasei anni” prima, con la sua celebre opera Dei delitti e delle pene.
Lʼopera di Hugo avvince sin dallʼincipit, ça va sans dire:
“Condannato a morte!
Sono cinque settimane che convivo con questo pensiero, sempre solo con esso, sempre agghiacciato dalla sua presenza, sempre curvo sotto il suo peso!
Un tempo, perché mi sembra che siano anni piuttosto che settimane, ero un uomo come un altro. Ogni giorno, ogni ora, ogni minuto aveva la sua idea. La mia mente, giovane e ricca, era piena di fantasie.... Era sempre festa nella mia immaginazione. Potevo pensare a ciò che volevo, ero libero.
Ora sono prigioniero. Il mio corpo è in ceppi in una cella, la mia mente è prigioniera in unʼidea. Unʼorribile, una sanguinosa, unʼimplacabile idea! Non ho ormai che un pensiero, una convinzione, una certezza: condannato a morte!”.
E così, dalla rievocazione dellʼemanazione della sentenza, fino alla sua esecuzione, il lettore viene, con sapiente ma leggera maestria, trasportato nellʼultimo viaggio mentale, volutamente ossessivo, del condannato a morte. E, se prima della sentenza, di fronte alla possibilità, prospettatagli dallʼavvocato, di una condanna ai lavori forzati a vita, il protagonista esclama indignato: “Ma che dite signore?... piuttosto cento volte la morte!”, lo stesso protagonista, avanti nel suo viaggio, si trova a pensare: “La grazia! La grazia! forse mi faranno la grazia. Il re non ce lʼha con me. Si vada a cercare il mio avvocato! Lʼavvocato, presto! Le galere mi vanno bene. Cinque anni di galere, e che tutto finisca – oppure venti anni – oppure lʼergastolo, con il ferro russo. Ma la grazia della vita!
Un forzato è qualcosa che cammina ancora, che va e viene, che vede il sole.”
Ebbene, egli, il condannato, si trova a realizzare che la vita è preferibile alla non-vita, che esserci è meglio che non-esserci, che lʼesistere è auspicabile più del non-esistere e che, per quanto la vita, lʼesserci, lʼesistere possano essere duri, implacabilmente difficili e desolanti, al limite, allʼapparenza almeno, della propria dignità, essi hanno invece valore in sé, essi sono un valore!
Sappiamo tutti che siamo destinati alla morte, per alcuni questa è lʼunica certezza della nostra esistenza, certezza e destino che, di per sé, danno valore al peso contrapposto, alla vita appunto, finché dura.
La Vita per la Vita quindi, valore principe, valore cardine per tutti coloro che ritengano essere parte di una società e non di un “club di suicidi”, come è stato autorevolmente detto.
Ma, nelle nostre società “moderne”, al giorno dʼoggi, perché si dovrebbe leggere questʼopera di Hugo, la sua “arringa” nella forma di non-arringa?! Egli non perora la sua causa con tesi, antitesi e riflessioni filosofiche, etiche e politiche: egli lascia che il suo protagonista esponga tutti i suoi pensieri angosciati e angoscianti, facendo leva più sulle emozioni che sulla razionalità, più sul “cuore” che sul “cervello” - si potrebbe dire -, scelta che sicuramente favorì la “presa” sui lettori e il successo dellʼopera.
Di certo non si ha la pretesa, in queste poche righe, di dar conto del ricco dibattito relativamente alla pena di morte, compreso il confronto, che pure è stato ed è da taluni prospettato, in tema di costi materiali tra detta pena e il carcere a vita...
Tuttavia, non si può non sottolineare che ancora in tanti, troppi, Paesi “evoluti”, la pena capitale è al giorno dʼoggi prevista dalle leggi statali e tanti, troppi, individui si vedono privati del loro bene primario per mano dello Stato medesimo.
Ebbene, noi tutti, discendenti di Caino, siamo chiamati, più o meno di sovente, a compiere scelte e a soppesare opportunità, mettendo sulla bilancia del nostro processo decisionale valori, principi, beni diversi, valori, principi e beni che spesso se non coincidono, almeno coinvolgono o sfiorano, il valore, il principio, il bene della Vita.
Magari pensiamo che sostenere “Nessuno tocchi Caino” perché lontano da noi non si ricorra più alla pena di morte, sia sufficiente per esonerarci da scelte di valore nella nostra esistenza quotidiana; magari lasciamo che altri compiano queste scelte, decidendo al posto nostro; magari riteniamo che certi valori, certi principi, certi beni, siano “acquisiti” e non siano in pericolo nelle nostre società... magari...
Ecco la risposta al perché leggere lʼarringa-non-arringa di Victor Hugo: per dare una scossa alle nostre coscienze sopite, perché ci si interroghi, perché si dubiti e perché si cerchino risposte, auspicabilmente personali e non preconfezionate, il che non vuol dire che tali risposte non siano e non possano essere condivise e condivisibili.
Potrebbe essere considerato fuori moda, al giorno dʼoggi, parlare di valori, principi e beni: il valore su cui tutti si è dʼaccordo è il valore dei soldi, non solo quale potrebbe essere definito da un esperto di economia e finanza, ma soprattutto come bene con cui pesare tutti o quasi, gli altri “beni” della nostra esistenza, in modo così “connaturato” che quasi non ci si pensa più. Ad esempio, basti riflettere un momento sul bene “lavoro”, bene posto a caposaldo della e dalla nostra Costituzione: è scontato che unʼattività lavorativa venga “retribuita” col denaro e si è portati a pensare che tanto più unʼattività lavorativa è retribuita, tanto più essa sia, o debba essere, considerata “di valore” e di prestigio, personale e anche sociale. Non così, invece, se la stessa attività non viene “retribuita” in termini monetari, sia essa lʼattività di una casalinga o sia essa la stesura di una recensione per diletto (da “dilettante” appunto, il che letteralmente può voler dire da “incompetente”, “inesperto” così come da “appassionato”, “amatore”).
Per concludere, ritorniamo alle parole di Victor Hugo il quale, nella sua Prefazione, espone anche alcune vicende “contingenti” sulla discussione parlamentare in Francia in tema di abolizione della pena di morte:
“Quattro uomini dellʼalta società, quattro uomini a modo... avevano tentato, nelle alte regioni politiche, uno di quei colpi audaci che Bacone chiama delitti e che Machiavelli chiama imprese. Ora, delitto o impresa, la legge, brutale per tutti, punisce questo con la morte.... Che fare e come fare?... Ci fosse almeno una ghigliottina di mogano!
Bene! non resta che abolire la pena di morte!
Ed ecco che la Camera si mette all’opera.
…
avremmo preferito che la Camera scegliesse unʼaltra occasione per proporre lʼabolizione della pena di morte.
…
Che cosa è successo? che, dal momento che voi non eravate sinceri, gli altri hanno diffidato di voi. Quando il popolo ha visto che volevano imbrogliarlo, se lʼè presa con lʼintera questione senza fare distinzioni, e, cosa notevole! ha preso le parti di quella pena di morte di cui pure sopporta tutto il peso.
…
Il processo dei ministri fu portato a termine. … Le quattro vite furono risparmiate. Ham fu scelta come giusto mezzo tra la morte e la libertà. … Non si parlò più di abolire il supplizio capitale e, una volta che non fu più necessaria, lʼutopia ridivenne utopia, la teoria teoria, la poesia poesia.”
Questa vicenda, su cui vale la pena soffermarsi, appare significativa perché fa luce sui meccanismi politici e sociali che stanno alla base di tante decisioni che ci riguardano, decisioni dei politici appunto e pure del popolo, “popolo” si spera e non “massa”, “gregge”, ma questo è un altro discorso ancora...
Altri articoli...
Pagina 4 di 18
«InizioPrec.12345678910Succ.Fine»