Sciolti

I greci, i romani e noi

di Eleonora Mammana

CantarellaGreci e Romani erano davvero così diversi da noi? Per molti versi sì, è innegabile, ma per certi altri no.

Questo, almeno, è ciò che lascia intendere nel suo ultimo libro Eva Cantarella, ex docente di Diritto romano e di Diritto greco all'Università Statale di Milano e autrice di numerosi saggi su usi e costumi dei nostri illustri antenati.

“Perfino Catone scriveva ricette”, edito da Giangiacomo Feltrinelli Editore nel 2014, è una raccolta di micro racconti usciti settimanalmente nelle rubriche “Vanitas” e “Mitologica”, che un paio d'anni fa recava il Corriere della Sera. Lo scopo di quelle “pillole”, come l'autrice stessa le definisce, era di mettere in luce un mondo la cui conoscenza ormai è sempre più appannaggio di pochi. Non appesantendo la narrazione con ipotesi storiografiche o con approfondimenti, ma semplicemente raccontando aspetti della vita di greci e romani, che potessero incuriosire il lettore.

Quattordici sezioni raccolgono questo notevole materiale raggruppandolo in base ad affinità di argomento: Le età della vita, Benessere del corpo e della mente, Pratiche alimentari, Sesso, amore e matrimonio, Donne, diritti e doveri, Bellezza e seduzione, Feste e riti, Superstizioni e magia, Città, campagna e viaggi, Vivere con i miti, Fatti e misfatti, In tribunale, Stravaganze. Ogni contributo poi, è introdotto da un titolo che ne identifica l'argomento specifico, da Vecchiaia orribile a Il fitness delle Spartane, da Il bon ton del banchetto a Sposarsi, il male necessario, da Le gladiatrici a Maschere di bellezza e così via.

Ciò che si coglie sfogliando questa sorta di guida del mondo classico è la quantità di aspetti che paiono accomunarci con gli antichi. Partiamo dal campo in cui forse abbiamo ereditato di più: la cura del corpo. In primo luogo, se anticamente i Romani facevano il bagno una sola volta ogni nove giorni, con la conquista della Grecia iniziarono ad adottare i costumi dei vinti, tra i quali la consuetudine di recarsi alle terme (p. 29): e che cos’erano questi stabilimenti se non gli antenati delle nostre spa? Peraltro, oltre a bagni rigeneranti, all’interno ci si poteva concedere anche massaggi e trattamenti di vario genere, depilazione inclusa. In secondo luogo, che i Greci tenessero a esibire un fisico scolpito è risaputo, meno noto è, però, che anche le donne, almeno a Sparta, si dedicassero allo sport, alla corsa in particolare (p. 31), e oggi, onestamente, in palestra, non saprei dire se sia più facile trovare donne o uomini intenti a sollevare pesi... Che dire poi della passione che i Romani nutrivano per i profumi (p. 115), per le maschere di bellezza, alla cui applicazione erano preposte delle schiave specializzate (p. 117), per il makeup, rossetti, ombretti, kajal (p. 117), per le tinture per i capelli e le parrucche (p. 121)? Ancora, non può non farci sorridere sapere che già i nostri virili antenati ricorressero al riporto in caso di calvizie (p. 120).

Sempre in tema di bellezza è curioso scoprire che già a Roma le donne prestassero attenzione a proteggersi dai raggi solari, ma per un motivo meramente estetico: la pelle bianca era simbolo di femminilità (p. 113). Quanto alla salute, infine, non esistendo gli ospedali, in caso di bisogno, ci si doveva rivolgere alle cure di un medico a domicilio, simile al nostro medico di base, con la differenza che allora queste prestazioni erano esclusivamente a pagamento (p. 32).

Il benessere del corpo per gli antichi, però, andava di pari passo con le gioie dello spirito: i Romani in particolar modo le coltivavano attraverso la lettura e il riso. A Roma nel IV secolo d.C. esistevano ben ventotto biblioteche pubbliche, senza contare quelle private, oltre alle numerose librerie in cui gli autori potevano leggere le loro opere di fronte a un pubblico attento e quanto mai critico; usanza non così dissimile, ma assai più frequente, delle nostre presentazioni di libri (p. 34). Quanto al riso, ogni occasione era buona per sbeffeggiare qualcuno: matrimoni, trionfi di comandanti e perfino funerali (p. 37)! Pare poi che sia Greci che Romani amassero le barzellette e che, come noi, usassero prendere di mira determinate categorie di persone (p. 36)...

Veniamo ora a un altro aspetto della vita quotidiana importante allora come ora, o quasi: l'amore. Di ben vecchia data pare essere la pratica di incidere sui muri dichiarazioni d’amore, come mostrano i graffiti ritrovati a Pompei (p.63). Antico anche il metodo “chiodo scaccia chiodo”, che già Orazio consigliava di adottare per superare la fine di una relazione (p. 67). Non è proprio possibile, poi, non pensare ai nostri giorni leggendo i versi in cui Ovidio si lamenta di non essere riuscito a soddisfare la passione che da tempo nutriva per una donna: momenti di defaillance capitavano anche allora… (p. 69) Quanto al matrimonio, a quale uomo oggi non è capitato di pensare, anche solo per un istante, che “vivere con le mogli procuri inevitabilmente delle noie” (p. 61)? Parlando di tradizioni nuziali, invece, se abbiamo ereditato la torta, fortunatamente non ci è stato trasmesso il modo di acconciare i capelli della sposa, complesso e un po' inquietante: il futuro sposo doveva dividere la capigliatura della compagna con una bacchetta che simboleggiava il potere al quale la donna, attraverso il matrimonio, sarebbe stata da quel momento sottoposta (p. 62).

Più delicata la questione della maternità surrogata. I Romani, quando desideravano avere figli, ma non riuscivano o non potevano averne, ricorrevano a un metodo alternativo: prendevano letteralmente in prestito il ventre di una donna incinta (p. 62).

In comune con i nostri avi abbiamo anche alcuni tipici problemi cittadini: lo smaltimento dei rifiuti (p. 151) e lo stress causato dall’affollamento, dai rumori e dall’inquinamento. Già i Romani si lamentavano dell’eccessivo caos prodotto dai locali limitrofi, se pure allora si trattasse di terme e non di discoteche (p. 150). Ancora oggi, poi, in alcune zone non esistono i nomi delle vie: a Roma era normale, solo le strade più importanti ce l’avevano; quando perciò bisognava indicare a qualcuno dove si abitava, si doveva necessariamente specificare vicino a che cosa si trovava la propria dimora; a un tempio, ad esempio (p. 149). Infine, un concetto che almeno in alcune aree del nostro paese è ancora molto sentito è quello dell'ospitalità, che per i Greci era sacra (p. 153). Esisteva un vero e proprio cerimoniale che consisteva nell’offrire al nuovo venuto un bagno caldo, un buon pasto e infine dei doni, che sancivano l’inizio di un nuovo legame sociale.

Ovviamente è giunta fino a noi anche qualche pratica “poco ortodossa”: gli episodi di violenza negli stadi di calcio che accadono spesso oggi, ad esempio, allora si verificavano negli anfiteatri durante i combattimenti di gladiatori (p. 188). Anche l’usanza di gettare oggetti vecchi dalla finestra per propiziare l’inizio del nuovo anno deriva da una tradizione antica, che prevedeva, ahimè, però, di cacciare simbolicamente a bastonate dalla città un poveretto che, vestito di pelli, impersonava l’anno appena concluso (p. 143). Ma non è finita... Durante l’Impero bizantino, quando l’imperatore decideva di prendere moglie, le fanciulle più belle sfilavano dinnanzi al sovrano nella speranza di essere scelte. Vi pare tanto distante dall'attuale consuetudine di ingraziarsi il politico di turno (p. 89)?

E che dire poi dell’abitudine di coprire i propri cagnolini di fronzoli e fiocchetti (p. 49), dei giochi con i quali si trastullavano i bambini, dadi, bambole, altalene, aquiloni, testa o croce, mosca cieca ecc. (pp. 18 e 20), soppiantati dalla moderna tecnologia, ma non ancora del tutto persi, per fortuna. Per non parlare dell’usanza di inviare inviti per le feste di compleanno (p. 93), di mascherarsi durante il carnevale (p. 125) o di levare i calici per brindare (p. 48).

Naturalmente sono numerosi anche i costumi che nel tempo si sono persi, e meno male, oserei dire, a partire dalle abitudini alimentari. Nulla di strano nel fatto che i Romani mangiassero prevalentemente carne e pesce, curioso è però che usassero accompagnarli con salse di susine, albicocche e mele cotogne, o con miele, vino, uva passa, olio, menta, pepe, erbe varie, datteri e quant'altro (p. 43), ingredienti che noi useremmo con più parsimonia e senz'altro non tutti insieme... Due ricette più leggere, però, sono accostabili alle nostre: il semolino dolce, fatto cuocere nell’acqua o nel latte, e, una volta solidificato e raffreddato, tagliato a cubi e fritto nell’olio, infine coperto di miele e pepe (p. 45), e la “cheesecake”, realizzata, però, con il pecorino (p. 46).

I Romani, poi, quando avevano ospiti a cena, erano soliti iniziare il banchetto con una serie infinita di antipasti abbondantissimi, che potevano comprendere insalate, verdure, funghi, lumache, crostacei, pesci in salsa piccante, uova sode, formaggi, tonno essiccato ecc. Seguiva la portata principale, a base di minestre di cereali, carne, pesce e selvaggina e, infine, il dolce, frutta oppure olive, cetrioli e cipolle (p. 44). Simili luculliani conviti si sono preservati, per buona sorte, solo durante le grandi, grandissime occasioni, anche se è indubbio che, soprattutto in alcune nostre regioni, accogliere bene un ospite significhi anche rimpinzarlo con squisitezze. Quanto alla cucina vegetariana, se è vero che solo oggi si sta diffondendo, non è esatto affermare che sia nata di recente; già Pitagora, infatti, nel I secolo a.C., dichiarava che “La terra è generosa di cibi, offre banchetti che non richiedono stragi e spargimenti di sangue” (p. 52).

Scomparse, ma non del tutto, anche la scaramanzia e la superstizione. I Romani credevano nei sogni (p. 137), temevano i fantasmi (p. 141) ed erano particolarmente scaramantici a tavola; un esempio su tutti: non ci si poteva alzare durante il pasto altrimenti si rischiava di morire entro l'anno (p. 142)!

Per quanto attiene al diritto, poi, fortunatamente con il tempo si sono abbandonate certe leggi davvero poco civili, anche se alcune di esse talvolta ancora emergono in alcune culture. Ad esempio, pare che nell’antica Roma, per ovviare al problema della sovrappopolazione, si usasse eliminare fisicamente gli anziani che tardavano troppo a spirare (p. 22). Certo, invece, è che un marito avesse la facoltà di togliere la vita alla propria moglie, qualora venisse sorpresa a bere del vino (p. 103) e, naturalmente, sia per i Greci che per i Romani era lecito ucciderla insieme all’amante se colta in flagrante (pp.192 e 201). Padri e mariti, poi, avevano il diritto di imporre alla sposa o alla figlia di interrompere una gravidanza (p. 105). Le pene capitali, infine, di per sé già deplorevoli, venivano spesso inflitte con crudeltà inaudita (pp. 103, 179, 182, 193, fra le altre).

Ciò che, però, senza dubbio maggiormente ci differenzia dagli antichi è che, per dirla con le parole di Cantarella, “loro vivevano con gli dei”. Tutta la loro esistenza era scandita dalla presenza di questi esseri immortali: personificazioni di elementi della natura, venti (p. 159), fiumi (p. 161), costellazioni (pp. 162 e ss.); oppure creature per metà umane e metà bestiali, come le sirene (p. 165) o in tutto simili all’uomo (perfino nei difetti).

In conclusione, credo che se non possiamo che essere lieti di aver perso certe pratiche, ci sia da rammaricarsi, però, per la scomparsa di almeno alcuni degli antichi valori: in particolare, in tempi come quelli in cui ci troviamo a vivere oggi, non sarebbe utile se fosse ancora in piedi un po’ di quell'amor di patria, di quel senso di bene comune, che nei momenti di maggior difficoltà ha permesso a Roma di risollevarsi (p. 140)?

Eva Cantarella, con quest’opera, ha davvero reso un gran servizio a una cultura che, purtroppo, si sta perdendo sempre di più, riuscendo, peraltro, nell’impresa di accorciare, almeno in parte, la distanza da un mondo che in fondo non è poi così lontano dal nostro.

 

Sono tutti assassini

di Alberto Piccini

Sono tutti assassini

La polizia sul grande schermo. Vizi, effetti e virtù del cinema italiano alle prese con una delle sue istituzioni...

 

La difficoltà di fare un film realmente poliziesco ovvero “dentro” l’istituzione della polizia, è fenomeno tutto italiano. Che le bandoliere e le lucerne dei carabinieri facciano da personaggio fisso, severo e rassicurante al tempo stesso, nelle pellicole da strapaese è assodato, così come gli uffici austeri dei commissariati ospitino le scene catartiche di commedie confuse, con il solerte funzionario che fa da deus ex machina per una conclusione innocua per tutti, è dato di fatto. Raramente però gli uomini della legge, i poliziotti, assurgono a protagonisti, a personaggi indagati e catalogati. Non si scorda quella che è una sorta di parodia rivistaiola di “Pietà per i giusti” di William Wyler, ovvero il fortunato “Accadde al commissariato” del 1954, col personaggio centrale di Nino Taranto che funge quasi da presentatore di numerose star nazionalpopolari, qui inserite in veste di vittime e colpevoli. Più meditati e drammatici due altri film risalenti al biennio 1959 e 1960, entrambi con Pietro Germi nel ruolo del commissario. Il primo “Un maledetto imbroglio”, diretto dallo stesso Germi rivisita nel momento coevo il Pasticciaccio di Gadda, facendone un’opera di sconsolata malinconia, distante dalle intenzioni dell’autore letterario, tra l’altro con un’identificazione e un’umanizzazione dell’omicida. Il secondo, “Il rossetto” di Damiano Damiani, risente di tanti echi della cronaca giudiziaria e butta un occhio non del tutto convinto su di un’Italia urbanizzata in fretta e destinata a cambiare. In entrambi i casi le vittime sono donne sole, forse l’archetipo dell’oggetto di tanti delitti (frequentemente insoluti) nella Roma del dopoguerra. Non se ne discosta anche quest’opera di Elio Petri, forse più difficile e amara delle altre. Significativa è la musica che apre la narrazione: un pezzo di jazz che si accomuna alle colonne sonore di tanti polar francesi del periodo ed ancora più emblematico il nome del compositore, quel Piero Piccioni che appunto nelle paludi del caso Montesi si trovò ad affondare, ludibrio per l’opinione pubblica del paese. Il protagonista è un Mastroianni meno scanzonato e gentile dell’usuale, già confermato dai fasti felliniani e dalle glorie dell’incomunicabilità di Antonioni. Guida un’auto americana, vive in una casa decadente e arruffata, in pieno centro della capitale, come si conviene ad un antiquario giovane e “rampante” e dove i questurini in borghese, ma classificati da un marcato accento siciliano, fanno irruzione in massa, sul fare del mattino. Invitato o meglio condotto a forza in Questura, per una “formalità”, sfila tra le mormoranti e corrucciate donnette dello stabile. Già colpevole, di un fatto oscuro ma senza dubbio grave. L’attesa spasmodica, in un salottino dimesso, osservato attraverso un falso specchio dall’inquisitore dottor Palumbo, Salvo Randone impeccabile e premiato col Nastro d’Argento per questa interpretazione, si protrae per ore. L’inquisizione più feroce, per tutta la durata del film, non sarà condotta dal pur implacabile commissario, che insiste su pecche venali come protesti cambiari o una ricca fidanzata ufficiale che tale non risulta, ma dai continui flashback che illustrano le ambigue imprese dell’antiquario Martelli. I pezzi unici che offre alla sua scelta clientela sono frutto di ricettazione in combutta con la malavita più miserabile, il titolo di ragioniere che dichiara è fasullo, da adolescente si prendeva gioco del nonno vecchio anarchico e perseguitato dal fascismo. In un’occasione ha addirittura irriso un povero diavolo finito suicida sull’autostrada. Le immagini si susseguono nel ricordo del protagonista e finalmente si scopre il motivo della convocazione. Un omicidio di cui vittima è la sua matura ex amante, figura complessa e sua socia in commercio. La scena si sposta sul luogo del delitto, un hotel del litorale che la morta, dissoluta e egoista donna che vive di affari poco limpidi, stava ristrutturando e dove l’antiquario ha passato la notte. Indizi, sospetti e orari congiurano, pare ridicola e aleatoria l’autodifesa confusa del sospetto. Unica a credergli, una povera cameriera debole di mente già alle sue dipendenze, che lui aveva utilizzato tra l’altro per rendere favori sessuali ad amici. La stazione successiva è la fatiscente camera di sicurezza della questura, dove tra scrosci di tubature guaste e freddo pungente, riceve la visita di due figuri, confidenti della polizia che cercano di farlo confessare, anche con la violenza. Il gioco della narrazione obliqua prosegue, con vicini di casa, ex commilitoni, concorrenti che, intervistati dalla stampa, rispondono illustrando i suoi torbidi precedenti. Sulle prime pagine dei quotidiani della sera già compaiono le sue fotografie (assieme a quelle della fidanzata, rigorosamente in costume da bagno) e il cerchio pare stringersi sempre più forte. Una breve confessione la esprime: riconoscendo di avere pensato unicamente al proprio benessere ed a soddisfare il proprio egoismo. L’astuzia poliziesca lo metterà a confronto con il vero omicida e sarà lui ad incastrarlo, senza volontarietà. Una volta liberato, ascoltata la soluzione del caso, si incammina verso casa, in una Roma invernale e sciatta. Offre qualche soldo a un mendicante e scoppia finalmente in un pianto dirotto, che sa di autoaccusa. Non finisce così: il cambio di scena ci porta alla situazione dell’anno seguente. Ancora con la fidanzata, ma stavolta nell’intimità di un albergo a ore. Lei nel frattempo si è sposata con un altro, sono felicemente divenuti semplici e impuniti amanti clandestini. L’uomo, che si dice cambiato e maturato dall’esperienza, in realtà, nella telefonata ad un commerciante, ride e si vanta del proprio consolidato soprannome: l’Assassino. Il filo di speranza teso nel rilascio dalla cella si è spezzato, per sempre o fino al prossimo cataclisma morale.

Non c’è un buono, in tutta la storia. Spietata la polizia, prevaricatrici nella loro sensualità le donne, disonesti o meschini i personaggi di contorno, vittime i pochi che hanno meno forza e egoismo. Il vero assassino è quello che meno degli altri ne avrebbe le connotazioni. Ha agito in stato di confusione mentale, era stato pressoché espropriato dalla vittima di un suo bene immobile, parla dei principi morali che hanno caratterizzato la sua esistenza; è il vero debole, il paria poiché bisognoso di denaro. Film brulicante di situazioni, vede mescolarsi nei tanti giochi ambigui, tanto figure del sottobosco delinquenziale romano quanto gli assoluti dell’epoca facile e frenetica del boom economico. Il mobile antico, che il protagonista tratta senza avere in fondo eccessiva conoscenza per la materia, è uno dei miti dei grandi signori come dei nuovi ricchi, la matura amante, Micheline Presle dal fascino fané e tenebroso, nei flashback guida un’auto sportiva di alto livello e la sciocca e sfacciata fidanzata è figlia di industriali. Il protagonista è un consapevole concentrato di cinismo, un cattivo parvenu che utilizza il proprio aspetto e il proprio spirito mellifluo per circuire le anziane clienti ma verso gli inferiori è scostante e sprezzante. Moneta corrente e sovente nominata è la cambiale, segno ed emblema della classe commerciale del tempo. A parte ciò, è necessario ricordare come per il regista Elio Petri questa pellicola costituisca la prova generale per quello che rimarrà come il suo film più importante, “Indagine su un cittadino al disopra di ogni sospetto”, destinato a vincere l’Oscar. La vittima anche in questo sarà donna, egualmente ambigua e cinica, dalla situazione indefinibile. E soprattutto maggiore importanza e respiro avrà l’ambiente dell’istituzione di polizia, con le sue piccole grandi e figure. Dottori e questurini, unificati da un siciliano burocratico e greve, come a definire una casta che occupa un settore subalterno ma fondamentale dello stato. Le rivalità e le sovrapposizioni tra i funzionari, sanno di carriera di calcolo, l’indagine è pesante, i mezzi usati disinvoltamente. Il momento chiave dei poliziotti di Petri, quello in cui più chiaramente essi esercitano il proprio potere ed espletano la loro più alta funzione, è quello dell’interrogatorio. La stringente degnazione del commissario Palumbo de “L’assassino”, è cosa tenue rispetto alla distruzione della personalità che il repressivo “Dottore senza nome” di Volonté impone agli arrestati nel film più recente. Se il nemico mai nominato del film del 1961 è la dilagante immoralità di un paese in mutazione, nell’altro si deve reprimere la sovversione politica. Le esperienze degli anni Cinquanta, con i casi giudiziari oscuri che travalicano la aule giudiziarie e debordano in sede politica, sono altra cosa rispetto alle tempesta del Sessantotto ed il regista tiene conto di entrambe le situazioni. Il Mastroianni assassino solo di nome, ma dalla coscienza inquinata (in questo affiorano spiccate somiglianze con “Anima nera” di Patroni Griffi) non paga se non con un passeggero malumore; il Dottore dell’”Indagine” affronterà superiori e coscienza in un incubo kafkiano, premonitore di un reale e inconosciuto giudizio, prima dei titoli di coda.

Donne e Arte. Tu mi racconti il tuo vedere

di Anna Bertini

Allo Stadtmuseum di Monaco di Baviera è possibile visitare fino a febbraio 2015 una mostra dedicata all’arte delle donne nel passaggio dal secolo XIX al XX.

Questo, l'approfondimento...

http://www.muenchner-stadtmuseum.de/sonderausstellungen/ab-nach-muenchen-kuenstlerinnen-um-1900.html

Monaco sotto il principe reggente Leopoldo è una città d’arte aperta e produttiva. La sua Accademia delle Belle Arti è così rinomata, che persino Picasso si informa per mandare il figlio. Oltre alla formazione, anche il commercio d’arte e l’editoria fioriscono. La risonanza data agli avvenimenti artistici, le personalità dei maestri di arti figurative sono allettanti per moltissimi talenti.

Sebbene l’ingresso all’Accademia delle Belle Arti sia ancora chiuso per le donne, il Movimento Femminile già così attivo nella capitale bavarese e l’iniziativa di molte artiste radunatesi nell’associazione Münchner Künstlerinnenverein fanno sì che venga inaugurata già nel 1884 la prima Accademia d’Arte delle Donne, la Damen-Akademie.

L’associazione femminile oltre ad avere finalità sociali si propone di dare alle artiste opportunità adeguate di coltivare il proprio talento e di ampliare le proprie competenze, usufruendo dell’insegnamento di maestri di chiara fama.

Tra i fondatori e ideatori di questa Scuola di Formazione, che negli anni tra il diciannovesimo e ventesimo secolo conta la partecipazione di artiste del calibro di Gabriele Münter e Käthe Kollwitz (quest’ultima diventerà poi professoressa e primo membro femminile della Accademia Prussiana delle Arti), spiccano i nomi della pittrice austriaca Bertha von Tarnöczy e di Clementine von Braunmühl.

Le personalità di donne artiste che frequentano l’Accademia di Monaco sono tante e di grande interesse è la mostra a loro dedicata allo Stadtmuseum. Questa raccoglie numerose opere pittoriche ma anche di grafica, scultura, design; complementi di arredo, ceramica, fotografia…

Non sarebbe questa la sede per scrivere una guida alla mostra stessa. Sono andata a visitarla e colpita dalla bellezza di alcune opere, ancorché dalla personalità magnetica delle loro autrici, ho sentito il bisogno di dare corpo ad alcune voci e sensazioni che mi hanno “popolato” di fronte alle stesse. L’ho fatto nel modo che più mi si confà, lasciando scaturire narrazioni dall’osservazione intensa dei soggetti artistici.

Darò voce a sei artiste e alle loro opere in questo scritto dal titolo Tu mi racconti il tuo vedere…”

 

Troverete i link alle biografie delle artiste nell’ultima pagina

 

 

TU MI RACCONTI IL TUO VEDERE…"

 

 

Mia sorella Fani, di Ivana Kobilca

1889. Olio su tela

 

Fani, non guardarmi così. Io non ruberò la tua innocente sensualità. Voglio solo testimoniarla. Perché la sento forte, e la sento mia. Il colore di questa sottoveste parla della tua anima, intenso quanto impalpabile: non riesco a dirlo che mischiando le resine, i pigmenti, partendo dal carnato per arrivare più lontano, fermandomi prima che si arrivi al sangue, al carnale. Restituisco il pallore della pelle, lo illumino con lo scuro dei tuoi occhi, con la profondità serena dello sguardo. Sulle tue labbra si posa l’ombra della stanza. Quell’ombra increspa appena il tuo sorriso, che parla di pace interiore e di acume dell’intelletto. Fani, io so usare le mani, capisco con lo sguardo e col gesto; tu hai la bellezza delle menti forti e delicate. La stessa bellezza che esprimi nel corpo.

Ti ho ritratta con le mani nude, in un momento prezioso, vero. Mi hanno biasimato per questo. La società moralista degli uomini può trovare oscenità nella tue braccia coricate sul grembo innocente, nei tuoi capelli lunghi disfatti lungo il fianco, nell’incrocio delle gambe. No, Fani. Niente toglie purezza, niente può essere più rispettoso di questo mio ritrarti. Non ti curare di cosa penseranno, seduta in fronte a me mi hai affidato il messaggio del tuo essere. Lo voglio solo onorare, lo voglio rivelare perché è la somma delle bellezze che conosco, che mi ispirano. Tu emergi dal piano della tela e sembri animata di respiro. Sei la mia piccola musa, Fani.

 

 

duello all'osteria

Duello allOsteria, di Käthe Kollwitz

1888. Gessetto marrone, pennello seppia e spugna

 

Chissà come è stato che il mio maestro, insegnandomi le tecniche della pittura, ha abituato il mio sguardo a vedere. Non so se le mani siano state più abili dopo le lezioni all’aria aperta e quelle nello studio gelato, d’inverno. Mi sono molto applicata per scaltrirle, per diventare una pittrice. Ma no, non credo di esserlo diventata veramente. Io ho imparato a vedere e rappresentare la vita. A capirla. Ho imparato quindi, prima di tutto, a vivere. Mio padre voleva fare di me una pittrice di tavole storiche, io sono diventata una donna che voleva cambiarla la storia, da protagonista. E quando divenni il primo “Professor" donna dell’Accademia di Prussia, in certo senso, fui appagata. Ho voluto però che i più fortunati come me sapessero delle vite altrui, delle sofferenze di chi la storia solo la subisce, e non può ambire a scriverla.

Così fu nel grigiore delle vite tanto diverse dalla mia che spesso sentii più forte la voce di un’ispirazione, di un invito a dire. Lasciai il colore per i neri della china e del carboncino, per l’indefinito del gessetto, osai sfumare tutto, togliere definizione alle linee. Cancellai con la spugna i lineamenti, opacizzai le luci. Lasciai sguardi dietro a un sipario di capelli, soffocai le urla con una mano davanti alla bocca. Volli che un duello potesse sembrare un abbraccio, un abbraccio fosse simile a una lotta. Volli che la vita fosse quello che era. Una grande ambiguità.

 

 

Ragazza allacqua, di Emmi Walther

1910. Olio su tela

 

Come si può rappresentare la morbidezza con la decisione delle linee? È un insegnamento di questo tempo, un tempo in cui mi riconosco. Lo chiamiamo Jugendstil: è giovane, nuovo, osa abbandonare le forme arrotondate, osa divenire esplicito e allo stesso tempo perdere di definizione. Uso colori illuminati e saturi, drappeggio l’eleganza della forma: ho imparato a dare a quella il sentimento che sento dentro, il sentimento delle cose della vita. E’ stata la mia scuola, questo posto nella bassa Baviera: qui ho imparato a dipingere, già in su con gli anni, e ho imparato ad ascoltarmi dentro, prima di rappresentare. Così diceva il maestro: la pittura è l’espressione di pensieri e sensazioni. Ho appreso la modernità, l’ho fatta mia.

Un giorno ho visto una giovane china sull’acqua di uno stagno. Avvolta in un telo, leggiadra e assorta, tutta riflessa negli azzurri e nei crema che la luce le dispiegava intorno. Esile, stupita: semplicemente bella. Ho fermato l’istante in cui si rispecchiava in quell’acqua e rivedeva la sua immagine. E’ diventata il mio quadro più famoso.

Ancora oggi, che ho posato i pennelli e preferisco ricamare le tele con fili di seta e oro, quando la rivedo sono grata del messaggio di bellezza che sprigionava e che ha saputo guidare la mia mano nel ritrarla.

 

 

Sturm, di Katharine Schäffner

1908. Autotipia dal ciclo Una nuova lingua?

 

Mi hanno definito astratta. Forse addirittura potrei annoverarmi tra i fondatori dell’astrattismo in Europa. Ma sono una donna e come tale, nessuno mi ricorda tra i pionieri della nuova forma espressiva.

Astratta. Cerco di capire se in questa categoria, l’astratto, ho voluto operare. Ma poi penso a come concreto era il mio impulso a rendere visibile lo stato d’animo che mi muoveva, ad ascriverlo alla natura intorno, a personificarlo nell’albero stirato, ondulato come una chioma. A quanta persona, quante braccia c’erano in quei rami. A quanti volti, quante anime portava il vento in una sera colma di ombre e poesia. Astratta, cerco di capire l’astrazione nel mio segno, e vedo solo il polso che si muove deciso, consapevole, e genera le linee. Guardo la proporzione del mio lavoro, l’uso dello spazio, la coerenza dei tratti. E’ così difficile creare qualcosa di diverso da quello che l’urgenza interiore ti propone. Cosa c’è di meno astratto del dovere di esprimere?

 

 

Il danzatore Sacharoff, di Marianne von Verefkin

1909. Tempera su cartone

 

Amo le cose che non sono, o che sono solo in me. Che sono scure, blu, che osano. Che sono brutte e poi di nuovo belle, esagerate. Così fu la vita. Così deve restare.

Belletto, sul viso. Un fiore grande e grottesco a forma di farfalla, illuminato nel buio da un cono lontano di luce, che si spinge fin qua e fa la mia mano bianca come quella di un gesso. Qui sono io, il calco di una grande statua, la riproduzione di una forma. Io: me stessa o il ballerino? Il grande guitto, che plasma lo spazio con le sue movenze… Mi fondo a lui e divento energia, perdo peso, mi trasformo. La grande statua si sgretola, mi giro a guardarmi. Cosa è successo? Sono fuori dal dipinto. Resta lui in me, io sono fluida, dispersa. Amo le cose che erano in me, e che non sono più.

 

 

 

Wildenroth, di Elfriede Reichert

1907. Sviluppo su gelatina fotografica

 

Questa corona di impalpabili chiome, svettanti verso il cielo, rammenta la curvatura del globo, restituisce l’idea di stare in piedi su una sfera, in bilico tra aria e terra.

Questi snelli fusti accompagnano il passo, tra fragili fiori di campo, nel verde delle pasture. Sono stazioni incontrate viaggiando sul treno della vita. Non c’è fretta di raggiungere un orizzonte. Fermandolo in un’immagine, avrà smesso di allontanarsi.

 

 

Informazioni sulle artiste

 

su Ivana Kobilca:

http://en.wikipedia.org/wiki/Ivana_Kobilcasu Käthe Kollwitz:

http://it.wikipedia.org/wiki/Käthe_Kollwitz

 

 

su Emmi Walther:

http://www.artfinding.com/Biography/Walther-Emmi/99039.html?LANG=an

 

 

su Katharine Schäffner:

impossibile reperire un sito biografico in italiano o inglese. La Schäffner è considerata tra i primi artisti a fare uso della pittura astratta in Europa. Il lungimirante editore Callwey della Kunstwart Verlag di Monaco di Baviera da alle stampe nel 1908 un quaderno di sue grafiche dal titolo “Una nuova lingua?”. I titoli delle tavole richiamano sentimenti e sensazioni.

 

 

su Marianne von Werefkin:

http://it.wikipedia.org/wiki/Marianne_von_Werefkin

 

 

su Elfriede Reichert:

impossibile reperire un sito biografico in italiano o inglese.

La Reichert è stata forse la prima donna in assoluto ad aver studiato professionalmente fotografia agli inizi del 1900. Il padre, un ricco mercante di Breslau, la iscrive nel 1906 all’Istituto di Studi fotografici dell’Accademia di Belle Arti di Monaco, che solo l’anno prima ha aperto le porte a studenti di sesso femminile.

 

L’ingorgo. Una storia (im)possibile

di Alberto Piccini

l ingorgo

 

L'Italia di oggi è in crisi, decisamente. Ma com'era l'Italia negli anni Settanta? Terrorismo,violenza, disorientamento sociale... Ecco un ritratto appassionato, firmato da Comencini.

 

L’Italia degli anni di piombo si sveglia spesso male, al mattino. Terrorismo di varie tendenza e malavita scatenata nelle città del nord come del sud, la droga che intossica le periferie e le scuole, una crisi che parte dal petrolio e che chiude le fabbriche e spopola le strade e i cinema, una violenza che pervade anche angoli della vita sociale dov’era assente da sempre. L’autunno del 1975 sarà ricordato come una stagione di brutali delitti: i ragazzi bene del Circeo che stuprano e uccidono, il delitto Pasolini, la studentessa Doretta Graneris di Vercelli e la strage di via Caravaggio a Napoli. Una pista di sangue che attraversa tutta la penisola e che esplode in scenari ambigui come in ville sfitte o appartamenti borghesi, con tanti giovani per protagonisti, mostri da sbattere in prima pagina, come raccomandava un altro sulfureo film di alcuni anni prima.

L’Italia dei tardi anni ’70 si era incanaglita e il cinema non faceva finta di non accorgersi. Opere che solo per l’identificazione dei registi o degli attori si possono avvicinare alla cosiddetta commedia all’italiana, fanno da pietre miliari in un percorso che idealmente può segnare il doloroso guado tra il decennio dell’impegno e quello detto (allora) del riflusso. La feroce tribù di baraccati di Scola in “Brutti, sporchi e cattivi” o il modesto impiegato assassino senza rimorsi del “Borghese piccolo piccolo”, il suo omologo più irresoluto ma altrettanto tragico de “Il giocattolo” di Giuliano Montaldo, i coniugi borghesi e solo apparentemente trasgressivi di “Cattivi pensieri”, i grotteschi fratello e sorella de “Il gatto” di Comencini e la moltitudine laida che brulica in “I nuovi mostri”, sono altrettanti testimoni tratti realmente dalla vita di questo periodo.

L’opera più ingiustamente misconosciuta, forse perché anche la più imbarazzante e difficile di questo periodo è “L’ingorgo”. Incerto e mutevole anche nei titoli che, da un iniziale “L’ingorgo. Una storia impossibile” dovette passare a un forse più rassicurante “Blackout sull’autostrada” e che circolazione nelle sale e apparizioni TV penalizzarono fortemente. Il cast è eccezionale e internazionale, così come la produzione che oltre al nostro paese vede impegnate case spagnole, francesi e tedesche. L’aura di pessimismo e una certa violenza presente ed insita in ognuna delle scene, la mancanza di inserti farseschi o maliziosi, certo contribuirono alle esitazioni di tanto pubblico e ad una non dichiarata censura. I titoli di testa hanno lo sfondo di un cimitero d’auto, nella luce del tramonto. E forse già è questa l’inquadratura che ci dice tutto. Il boom è da tempo finito, i sogni di lamierino FIAT sono finiti tra i rottami, come l’ottimismo di un decennio.

Nel “Sorpasso” di Dino Risi sfilava in rassegna l’Italia fiammante del miracolo economico e dei soldi facili, svincolata dalle miserie del dopoguerra; l’Italia dell’“Ingorgo” è bloccata e congestionata su una strada di scorrimento che diventa trappola, incerta persino nel senso di marcia e nella direzione degli eterogenei veicoli male incolonnati. Il film è aperto dal trionfale atterraggio dell’executive che riporta un Alberto Sordi più cinico e spietato che mai, senza nemmeno la residua innocenza della pavidità e della usuale bonomia popolana. Un innominato “avvocato”, che è atteso da una Jaguar con frigo bar e radiotelefono e da un fidato segretario, vittima designata del plutocrate senza umorismo. Da questa inaugurale storia, il panorama si apre su altri microcosmi di vita domestico – automobilistica ritratte in questo paesaggio che, temporalmente una fine estate spazialmente una periferia romana, fatta di campagne degradate e cantieri lasciati a mezzo. Si potrebbe dire, citando il Pasolini on the road di “Uccellacci uccellini”, che “il cammino comincia e il viaggio è già finito”. Questo censire le vicende dei gruppi coinvolti nella apocalisse stradale, avvicina questo film alle tante pellicole, catastrofiche degli anni ’70, dalla serie di “Airport” a “L’inferno di cristallo” e testimonia un’attenzione per nulla provinciale del regista e degli sceneggiatori. La circolazione, già congestionata nel principio, ben presto si paralizza anche per le manovre selvagge di molti automobilisti e si incaglia nelle secche di un curvone posto tra uno sfasciacarrozze (luogo emblematico) e i piloni di uno svincolo autostradale forse mai ultimato.

L’occhio, quasi documentaristico, accorre sui personaggi qui ritratti, in primis su una numerosa famiglia napoletana, quasi gettata da una risacca virtuale, su una decrepita 1300 FIAT, da una commedia a canovaccio. Una figlia donna–bambina che non accetta l’imposizione paterna ad abortire (malgrado vi sia ormai “la legge”) è il fulcro del dramma familiare, le bandiere tricolori avviluppate nel bagagliaio, la merce da vendere in occasione di una partita della Nazionale, il perché del loro viaggio. Patria e famiglia sono sgualcite e malridotte, si razziano bottiglie d’acqua minerale dall’auto di un losco viaggiatore e si possono anche regalare per mostrarsi “poveri ed onorati”. Su di una Mercedes quattro attempati bulli cui sarebbe difficile dare un mestiere, sghignazzano per barzellette sceme e si mostrano l’uno con l’altro le armi nascoste sotto giacche sgargianti e camicie sbottonate, anticipando alcune grevi macchiette che apparterranno al mondo di Carlo Verdone. Un fotografo di moda, fin dalle prime battute, sfrutta la situazione per ritrarre due modelle tra il disordine della interminabile fila. L’astio è il primo elemento, persino nella coppia di coniugi di mezza età, che sognano di raggiungere il luogo della loro luna di miele e che decadono in litigi meschini, sotto l’occhio dell’improvvisato vicinato di automobilisti. Dalle prime ore, si registra il collasso delle “materie prime”: acqua potabile in primis, prima ottenuta dall’esaurimento delle scorte di un chiosco che frettolosamente e prudenzialmente chiude, poi attorno ad una fontana dove scoppiano liti e alterchi. L’indispensabile telefono, introvabile ed impensabile nell’era precedente il cellulare, con i gettoni e gli apparecchi che sono pura utopia. Le necessità fisiologiche, espletate in un clima grottesco e rabbioso come ogni altro atto, nel dedalo dello sfasciacarrozze.

Le incursioni dal surreale non sono poche: e si va dal taxista che, imbottigliato, estorce ugualmente l’esorbitante prezzo ad una passeggera che deve ad un certo punto scendere a forza e all’autostoppista che regge imperterrito il suo cartello, come il podista che svicola tra le auto, incurante di tutto. Elementi alternativi e rappresentativi di questi anni sono le viaggiatrici stipati su di un pulmino, mai inquadrate al punto d’essere rese riconoscibili e che segnalano la propria cantando in coro canzoni popolari o di protesta, ma i plumbei ’70 della violenza e del terrorismo sono in agguato in uno dei segmenti più congestionati della colonna. Da una Range Rover–status symbol di un certo giovanilismo abbiente – le attenzioni dei tre occupanti (che somigliano anche fisicamente ai giovanotti romani stupratori del Circeo) si fissano su una ragazza sola, fiera della sua 2 CV e della chitarra che pare l’unico bagaglio sul sedile posteriore. L’epilogo di questa vicenda tra giovani, che somiglia alla sceneggiatura di un fatto di cronaca, avrà come osceno protagonista non soltanto la violenza prevaricatrice dei tre, che indisturbati violentano la giovane, ma soprattutto l’indifferenza e la giustificazione dei presenti, che rintanati nelle vetture fingono di dormire, quando non si compiacciono di saziarsi gli occhi.

Un’Italia dove l’omertà può essere una comoda scelta, non disgiunta dal disprezzo per la vittima che ha il torto di essere donna e viaggiare sola. Non solo l’amore e il sesso si estorcono, in questa carovana di “homines hominibus lupi”, ma c’è l’operaio, disceso da una fatiscente baracca sopra lo stradone, che ha tempo di mercanteggiare la propria moglie, casalinga disfatta e incinta ma con l’avvenenza di Stefania Sandrelli, all’attore già sul viale del tramonto ma riconosciuto e acclamato dalla gente. Altri amari triangoli si disegnano nell’auto dove un professore logorroico (Tognazzi invecchiato e con un molesto accento toscano in bocca) pontifica tra una giovane coppia di amici, annunciando di essere presto “portato” senatore da un partito di sinistra. La realtà che il marito, qui Depardieu credibilissimo come goffo giovanotto italiano, scopre con fatica è la squallida relazione della donna con il professore ed anch’egli raccatta indifferenza gridando la propria disgrazia nel bivacco di automobili. Altre ombre inquietanti si stagliano sul panorama sempre più inquietante dell’ammasso di lamiere: la storia arcaica e disperata dei genitori che accompagnano un bambino malato, già portato a Lourdes, da un sedicente mago di Napoli, il moribondo su una traballante ambulanza, che cerca di calcolare con i cinici infermieri l’ammontare del risarcimento spettante per l’incidente. Proprio costui, Ciccio Ingrassia in uno dei suoi eccezionali ruoli non comici, innescherà la catarsi (provvisoria) del film. La sua morte, segnalata per la benedizione ad uno strano prete lì presente, sarà la causa per una predica rivoluzionaria e caustica di quest’ultimo, in cui il “libera nos domine” sarà indirizzato anche per “la plastica, le scorie radioattive, le multinazionali, le fanfare e le parate militari”. Tanta corrosiva omelia fa il paio con quella finale e pessimista dello sgradevole officiante che nel ”Borghese piccolo piccolo” celebra il funerale della moglie del protagonista, dove richiama le miserie fisiche e scatologiche dell’uomo e la sua distanza dalla salvezza.

Un miracolo vi sarà, ma dalla patina nera, come tutto è nel film. La giovanissima napoletana incinta, riceverà un assegno dal pescecane imprenditore Sordi (socialista dichiarato fra l’altro, che interpreta “ad ognuno secondo i suoi bisogni” come i soli bisogni suoi) perché udita cantare con una voce aspra e intonata, un motivo ispirato proprio all’ingorgo e alla modernità frustrata. Il miraggio del canto, della carriera artistica e delle scritture milionarie, le darà una ragione definitiva per decidere frettolosamente l’interruzione di gravidanza. L’ingorgo, dopo l’annuncio dato da un elicottero, si scioglierà, mentre una volta di più cala la notte; i veicoli si rimettono in marcia, forse fino alla fine del viaggio o solo al prossimo insidioso curvone.

Performance in città

di Francesca Girardi

Ogni osservazione è partecipazione e ogni partecipazione è creazione

(R. Schechner)

 

girardi

Questa volta non si tratta di un testo riguardante un argomento ben definito, è un gioco di immaginazione. Una città dei nostri giorni e un dialogo che avviene tra due personaggi la cui identità non viene esplicitata.

Così: è la fantasia a incontrare la realtà oppure è la realtà a incontrare la fantasia?  Può trattarsi di un dialogo per un palcoscenico oppure di un palcoscenico per la realtà?

 

 

Il rumore delle auto in coda al semaforo rosso, il cicaleccio delle persone che corrono di qua e di là. Alcuni si stanno dirigendo tranquillamente al lavoro, altri stanno ansimando nel tentativo di prendere l’autobus e arrivare in orario in ufficio. E poi le fermate della metro, oggi sembrano ancora più affollate di ieri. E chi ieri ha preso il primo treno, forse oggi dovrà prendere il secondo. E ancora ragazzi che si sbrigano ad attraversare una strada dopo l’altra perché la campanella della scuola tra poco suonerà. Vigili che cercano di dare armonia al caos che li circonda

 

A: “Sai, a vedere tutto questo, mi viene da credere che il mondo sia diventato bizzarro”

B: “E’ un eufemismo”

A: “Mi sembri così sicuro, allora dimmi cosa ne pensi se ti dicessi che il mondo assomiglia a una scatola di colori”

B: “Mi pare un po’ semplicistica come definizione ma potrebbe anche darsi. Tuttavia non sempre l’atmosfera che ci circonda ha tonalità luminose, non credi?”

A: “Già. Beh, anche le cupe tonalità se mescolate ad altre possono mutare e chissà, divenire magari luminose”

B: “Se io invece ti dicessi che il mondo è comunque meraviglioso?”

A: “Non credo si possa definire in senso assolutistico ma possiamo crederlo. E se io dovessi immaginare questa frase, ti mostro come la vedrei scritta, vieni”

I due personaggi si avvicinano a un murales dipinto sul muro del sottopassaggio

A: “Ecco, proprio così, guarda”

 

IL MONDO È MERAVIGLIOSO…

 

B: “Ma io non ho dubbi su questo! Però non capisco a cosa servano i tre puntini. Anche tu la immagini scritta con i tre puntini?”

A: “A differenza della tua sicurezza, la sospensione per me non ha un significato rigido e ben delineato, direi proprio di no”

B: “Spiegati meglio”

A: “Ognuno la può interpretare a suo modo”

B: “Spiegati meglio”

A: “Possono essere un prolungamento dell’enfasi che accompagna lo stato di meraviglia.

Sì, forse l’autore della scritta poteva provare proprio questo mentre dava vita alle singole lettere”

B: “Un’enfasi espressa in tre puntini? Proprio non riesco a comprenderla!”

A: “Certo che non puoi comprenderla, non ti appartiene. Ma il fatto che non ti appartenga non vuol dire che non esista”

B: “Ne sei sicuro? Cioè, pensi che possano esistere diverse interpretazioni di tre semplici e ben delineati puntini?”

A: “Io dico che potrebbero essere messi lì per svariati motivi. Magari sono una semplice espressione di un dubbio. Anzi ti dirò di più: tre puntini che potrebbero anticipare un punto interrogativo! In questo caso colui che ha scritto, potrebbe non essere stato proprio tanto sicuro di quanto fissato su questo muro”

B: “Forse…”

A: “Credo che le cose assumano diversi significati e sai perché? Glieli diamo noi!”

B: “Insomma che questi segni grafici siano tre puntini siamo tutti d’accordo!”

A: “Sull’espressione grafica sì, ma sulla valenza non direi. Le cose assumono il significato che noi diamo a loro”

B: “Tornando al punto interrogativo…Secondo tu, riguardo a cosa potremmo interrogarci?”

A: “Le possibilità possono essere varie e soggettive”

B: “Soggettive dici…”

A: “Proprio così”

B: “E non va bene? Io posso interrogarmi su quello che voglio!”

A: “La libertà non viene intaccata dal mio ragionare. Infatti anche io posso pormi domande su ciò che voglio”

B: “E allora se sei in accordo con me, perché hai voluto sottolineare l’aggettivo soggettive?

A: “Permettimi che ti dica che il verbo sottolineare altro non è se non l’immaginazione creata dalla tua mente alle mie parole.

Ognuno ha i suoi parametri, i propri pensieri. Voglio solo dire che la soggettività spesso guida nell’esplorazione di un orizzonte ben definito ma proprio perché lo si ritiene “definito”, ha un limite”

B: “Sarebbe meglio essere un po’ più oggettivi?”

A: “Paradossalmente l’oggettività non potrebbe esistere senza la soggettività. La differenza che vedo io sta nel poter vedere all’orizzonte  non solo una singola linea”

B: “Ma che te ne fai di così tante linee? Fanno solo confusione”

A: “Le esploro e nell’esplorarle...”

B: “Beh, io sceglierei la migliore”

A: “Io invece le guarderei tutte, proprio come sto guardando questa città e le descriverei tutte senza per questo dare loro un significato assoluto”

 

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