Sciolti
“Bevete cacao van Houten!”: frammenti di morte e bellezza
di Donatella Conte
La prima cosa che si pensa quando si osserva la copertina di un libro è l’immagine, oppure, per i maniaci delle lettere, il titolo. Così, quando ho individuato il volume “Bevete cacao van Houten!” sugli scaffali delle libreria universitaria, mi sono detta: ‘che razza di titolo è?’ Può sembrare un topos, una banalità, una riduzione del valore letterario dell’opera ma la cosa evidente era che quel libro era riuscito a rimanere impresso nella mia memoria, come una scheggia, come un melico dolore legato alla persona che amiamo. E tutto ciò grazie alla dissacratoria forza del titolo. Leggere questi quattordici racconti dallo stile fulmineo, tellurico, virgineo e ribelle, è stata la scelta libraria più sensata che io potessi compiere. Dall’analisi del titolo è iniziata la mia esperienza di lettura di Vorpsi, scrittrice nata a Tirana ed emigrata in Italia all’età di 22 anni. Oggi è considerata una dei 35 scrittori europei migliori, come riportato dall’antologia Best European Fiction. Ma non perdiamoci, torniamo al punto principale:
Ornela Vorpsi: Un’artista, un’anima rivoluzionaria e romantica al tempo stesso, legata alle tradizioni della propria terra, l’Albania, avida di novità, mai stanca di gridare il suo disappunto al mondo. Tutto questo si evince nei racconti di Cacao Van Houten. Ma non perdiamoci di vista, torniamo al dilemma titolo. La giovane Ornela rimane colpita all’età di sedici anni da una raccolta del poeta russo Vladimir Majakovskij, “La nuvola in calzoni”. Una raccolta di poesie che reca un aneddoto di rilievo: quello sulla storia di un uomo condannato a morte che sceglie di mercanteggiare gli ultimi minuti della propria esistenza,” vendendo” il momento estremo della terribile esecuzione, con una promessa: lui avrebbe declamato lo slogan del Cacao Houten e in cambio la sua famiglia avrebbe ricevuto come compenso una somma di denaro necessaria a vivere dignitosamente per almeno due anni. Ma qual è il nesso, il cavillo che intreccia questa scelta dello scrittore in riferimento ai racconti, di argomento eterogeneo e versatile? Basta sfogliare le pagine del libro e scegliere un racconto, uno a caso e tutto sarà chiaro: la chiave del nesso sta nella disperazione, in una vena estrema di solitudine, di eccesso d’amore, d’asfissia relazionale, di rapporti spesso malsani e di egoistica presenza.
Ma chi sono i personaggi? Sono tutti (o quasi) nati in al Albania, spesso materialisti e sciocchi, altri invece quasi rudimentali, semplici e gretti. Ci sono personaggi giovani, molto giovani. Quasi tutti hanno lasciato la terra d’origine per cercare lavoro, una vita diversa, la libertà, la certezza di diventare qualcuno. Così si sceglie di partire verso la terra delle speranze deluse, l’Italia, come Teuta, che Mauro ha sedotto e illuso, facendole credere che c’era un posticino per lei nella sua vita in una bella casa a Roma, in Via dei Gracchi. Peccato che quella casa, quella strada, quel numero civico non esistono. Quelle di Ornela non sono solo anime di emigranti: sono anime in pena, colme di speranza e vanagloria.
Ma c’è un altro elemento a turbare la giovinezza nei testi, come una nube tossica che uccide il brio della vita. E’ la morte. I giovani nel libro sono pazzi, come Arti, belli ma vuoti, tossicodipendenti, gente spiantata e infelice. Giovani esistenze che barcollano come nel buio di un paese che non può offrire che incertezza e disillusione; hanno perso tutto e devono reinventare un futuro che non esiste, se non in orizzonti vaghi ma fascinosi. Non c’è possibilità di vivere (se non in modi tormentati o estremi), in questo universo narrativo, per chi è giovane. E come dice Gazi: “A me non può succedere niente! Guardami bene, sono una roccia! E poi, a ventott’anni, cosa può capitarti di male?”. Gazi scompare nel nulla poco dopo, le sue parole sembrano sancire la certezza che la vita muove sull’evidente forza di una sentenza ingiusta: tutti possono morire, anche i giovani. La morte non fa sconti a nessuno.
Morte e bellezza sono legate indissolubilmente, avviluppate quasi in un’unione tragica e sensuale, perché di erotiche allusioni, o riferimenti velati al mondo dell’eros, della passione smodata, ne troviamo, eccome ma nascosti quasi sotto un sensuale velo di Maya. D’altronde, è la scrittura vorpsiana ad esserlo, sensuale. Uno stile fluido ma anche sferzante, seduce ma senza volgarità. Tornando ai temi dell’opera, anche quando ci si innamora, lo si fa troppo, con morbosità e gelosa attrazione verso l’altro. Come la ragazza di ‘Lui e i miei capelli biondi’. Lei si tinge i capelli, vuole diventare biondo platino, ma per quale motivo? Per nascondere la propria inferiorità dinnanzi all’oggetto del suo eccessivo, tutto mondano, amore. Come se solo chi è bello, fisicamente, voluttuosamente bello, possa amare in quel modo performante: un amore del genere può tutto anche uccidere. I personaggi vorpsiani amano infatti come sulla Terra si può fare, con tutto il loro corpo e l’anima, di seguito, rimane ingabbiata da questo attaccamento ai sentimenti ‘tutto-terra’. Non che non ci sia anima in questo libro, anzi! E’ un eccesso di animosità, tutte le emozioni sono estremizzate. Questo perché la ragazza dai capelli biondi, per esempio, si sente diversa e vuole essere altro, non vuole somigliare agli europei, tutti monotonamente castani. Vorrebbe alienare la propria diversità, ma è esattamente in quella sua presunta inferiorità che si specchia, riconoscendosi. In breve, è consapevole che quel biondo è un solo un artificio, una maschera per sentirsi più bella, accettata dall’uomo che ama.
Ornela Vorpsi ha scelto delle persone spoglie, che bramano rivestirsi di oggetti spesso superflui ma attraenti, effimere consolazioni ad un passato di soprusi o privazioni. Mi fa venire in mente, questa lotta tra sobrietà e sofisticatezza, tra un mondo quasi incontaminato come l’Albania ed il paese in cui le pochette vengono scelte perché di Vuitton, la lotta tra i felici pochi e gli infelici molti di Elsa Morante. Conta più essere o apparire? Meglio l’essenziale o il ricercato? Vorpsi a modo proprio cerca di rispondere. Emblematico, e con questa citazione concludo, l’Epilogo di Bevete cacao Van Houten: Quel dettaglio delle scarpe gialle, con lieve sapore kitsch si presenta sulla pagina, quasi le avessimo sotto i nostri occhi, perturbante ospite:
“Guardai le scarpe gialle, strettamente annodate attorno alle caviglie dell’uomo, e osservai con estrema attenzione le suole di gomma, di un beige traslucido, che sembravano due ramponi insensibili e possenti ancorati al suolo. L’insensibilità di queste scarpe, ecco cosa mi gettò in un terrore senza nome.”
Quel giallo di terrore è semplicemente lo shock di un osservatore che non è abituato ad assistere a tanta vanità, tanto colore, tanta preponderanza, come se le scarpe fossero “troppo” evidenti, quasi personificate, mentre, come riconosce l’autrice del libro, in Albania le scarpe erano utili ad un solo scopo, non erano né belle né eccentriche, mai. Il terrore di Ornela la spinge a porre questo racconto come conclusivo della raccolta, elemento sintetizzante di un percorso di andirivieni tra bellezza, vanità, esteriorità da una parte e integrità, semplicità dall’altra. E Ornela fa esattamente questo con i suoi racconti: ci introduce nell’inferno delle superficialità per poi riportarci verso l’alto, verso la luce, a toccare l’essenza delle cose.
Klimt – Alle origini di un mito
di Eleonora Mammana
“A ogni epoca la sua arte, all'arte la libertà”
Frontone del Palazzo della Secessione - Vienna
Domenica 13 luglio si è conclusa, a Milano, l'attesissima mostra su Gustav Klimt, organizzata in collaborazione con il Museo Belvedere di Vienna e curata dal suo vicedirettore, Alfred Weidinger.
Avevo già avuto modo di vedere, anni fa, ad Aosta, alcune opere di questo grande artista, ma si trattava solo di disegni (ne ha realizzati più di 3000!). Non vedevo l'ora, perciò, di trovarmi davanti ai suoi dipinti.
L'esposizione, che si proponeva di indagare i rapporti familiari e affettivi di Klimt, è stata suddivisa in sezioni, ciascuna riguardante un momento saliente della sua esistenza: la famiglia; la formazione presso la “Scuola di arti e mestieri” del Museo di Arti applicate, in cui il maestro apprende le tecniche più svariate, dal mosaico all'affresco, dalla pittura all'incisione; la “Compagnia delle arti applicate”, fondata con il fratello Ernst e il compagno di studi Franz Matsch; la Secessione e i dipinti per l'università di Vienna; i paesaggi; i ritratti e il nudo. Fra una sala e l'altra, poi, sono state strategicamente collocate le tele più rilevanti: Giuditta II (o Salomè, 1909) e Girasole (1906-1907), rappresentative del suo periodo aureo, e Adamo ed Eva (incompiuta, 1917-1918), uno dei suoi ultimi lavori. Da notare anche Ritratto femminile (1894), dove emerge la sua abilità ritrattistica, Dopo la pioggia (1898), Mucche nella stalla (1899) e Bosco di faggi (1902), esemplificativi del suo modo di dipingere i paesaggi, Acqua in movimento (1898) e Fuochi fatui (1903), nei quali si nota il suo interesse per la figura femminile, spesso ambigua e carica di erotismo.
Purtroppo nessun dipinto di quelli commissionati a lui e a Matsch dall'Università di Vienna per le sue sale ci è giunto, essendo bruciati in un incendio durante la seconda guerra mondiale. Sono rimasti, però, e qui sono stati esposti, alcuni disegni preparatori, che Klimt soleva realizzare prima di qualunque opera (a eccezione dei paesaggi), e qualche incisione. Il pittore doveva occuparsi delle allegorie della Filosofia, della Medicina e della Giurisprudenza, ma dopo un lavoro durato anni, decide di restituire il denaro ricevuto e di riprendersi i dipinti, per le accuse di immoralità ricevute. Infatti, invece di seguire le convenzioni dell'epoca e mostrare il trionfo della conoscenza sulle tenebre dell'ignoranza, esprime tutto il suo pessimismo cosmico, peraltro affrontando tematiche tabù come la malattia e la decadenza fisica. Nella Filosofia, infatti, gli esseri umani sembrano essere trascinati senza controllo su se stessi, persi, senza alcuna risposta esistenziale; nella Medicina, Igea, dea della salute, ieratica e indifferente, volta letteralmente le spalle a un'umanità dolente e impotente di fronte al fato; anche in Giurisprudenza, infine, il buio sembra avere la meglio sulla luce.
Un'intera stanza, invece, è stata dedicata alla ricostruzione del Fregio di Beethoven, un'imponente opera realizzata nel 1902 in occasione della XIV mostra della Secessione Viennese. Entrando, la sensazione è stata davvero quella di immergersi nell'opera d'arte totale, massimo ideale dei secessionisti; tre pannelli, infatti, riproducendo le pareti del padiglione Olbrich su cui Klimt aveva dipinto l'allegoria della “Nona Sinfonia” di Beethoven, avvolgevano lo spettatore, inondato dalle note del grande compositore tedesco. Obiettivo del movimento, ufficializzato nel 1897, di cui il maestro è stato tra i fondatori e il presidente, era restituire all'arte la sua libertà. Libertà dall'accademismo, dalla mercificazione, dalla rigida divisione fra arti maggiori e arti minori.
La mostra, nel complesso, perciò, ha offerto un piccolo assaggio del percorso artistico di Klimt, toccandone le tappe principali, ma, a mio parere, avrebbe potuto concedere un po' di più in termini di opere...
In primo luogo mi sarei aspettata qualche altro paesaggio, dato che questi costituiscono ben un quarto dell'intera produzione klimtiana. Quelli selezionati, poi, hanno mostrato alcune delle sue peculiarità, quali l'assenza della figura umana e, soprattutto, la scelta di focalizzare l'attenzione su un solo dettaglio, in primo piano, senza guardare lo sfondo nella sua ampiezza; i dipinti, infatti, sembrano “zoommati”: degli alberi del Bosco di faggi, ad esempio, non viene vista la cima, ma solo la parte centrale. Sono assenti, però, i caleidoscopici giardini di campagna che il maestro amava dipingere en plein air, di cui il Girasole fornisce solo un dettaglio.
In secondo luogo, attendevo alcuni dei ritratti più rappresentativi della pittura di Klimt, nei quali la plasticità dei volti e delle mani delle dame contrasta volutamente con la bidimensionalità dei decori ornamentali, come nel Ritratto di Emilie Flöge (1902), in quello di Fritza Riedler (1906), o nello spettacolare Ritratto di Adele Bloch-Bauer (1907). Magnifico sarebbe stato poter ammirare almeno uno dei dipinti successivi al 1909, caratterizzati dall'influsso delle xilografie e delle ceramiche giapponesi, come il secondo ritratto di Adele Bloch-Bauer (1912).
Posso dirmi soddisfatta, però, di aver potuto ammirare almeno Giuditta II, capolavoro del suo periodo d'oro e, soprattutto, massima espressione della sua “femme fatale” (insieme a Giuditta I, 1901). La figura femminile, altera e sprezzante, seminuda, con le labbra e gli occhi socchiusi, le mani contratte, impigliate fra i capelli di Oloferne, affascina lo spettatore, ma, insieme, gli trasmette un senso di inquietudine. Tutt'attorno si nota una profusione di oro e di decorazioni piane, geometriche, che paiono tessere di un mosaico; l'ispirazione proviene, infatti, proprio dai mosaici bizantini che Klimt ha visto a Ravenna nel 1903. Più che la pia vedova ebrea che ha sedotto e decapitato il capo degli Assiri per salvare la sua città, però, la donna raffigurata sembra Salomè, la bellissima figlia di Erodiade che ha chiesto la testa di Giovanni Battista solo perché questi non aveva ceduto al suo fascino. Talvolta, infatti, questa tela, come anche Giuditta I, compariva proprio con il titolo Salomè, protagonista, peraltro, dell'omonimo dramma scritto da Oscar Wilde e pubblicato nel 1893 con le illustrazioni di Aubrey Beardsley. Ad ogni modo, indipendentemente dal fatto che Klimt abbia voluto alludere all'uno o all'altro personaggio biblico, è indubbio che abbia inteso rappresentare la tipica “femme fatale” di fine secolo, la donna corrotta, irresistibile e distruttrice, in cui le tematiche di “eros e thanatos”, a lui tanto care, ben si fondono.
Sufficiente rilievo, poi, trovo che sia stato dato al tema principale delle opere di Klimt, la donna, se pure anche in questo caso sarebbe stato bello vederne qualche esempio in più. È, infatti, questa la protagonista indiscussa della sua produzione; sia essa raffigurata con le sembianze della “femme fatale”, come in Giuditta II (e I), o con quelle di una creatura magica e ambigua, dalla forte carica erotica, come in Fuochi fatui e Acqua in movimento (ma si vedano anche Bisce d'acqua I e II, 1904-1907, o Pesce rosso, 1901-1902, qua assenti) o sia essa colta nella sua intimità o nell'estasi del piacere, come nei diversi disegni di nudo (o in Danae, 1907-1908, purtroppo non presente nell'allestimento), o ancora sia dipinta accentuandone la sensualità e l'alterigia, come nei numerosi ritratti delle sue committenti. Non stupisce, perciò, che anche un soggetto paesaggistico come il Girasole, venga trattato come un ritratto femminile: il fiore, infatti, sembra un volto e le foglie che rivestono completamente il gambo, disegnando una sorta di piramide, fungono da abito. Quanto all'uomo, compare pochissimo nelle opere del maestro, e quando è presente, normalmente viene sovrastato dalla figura femminile, come in Adamo ed Eva, dove è il corpo abbondante di Eva a occupare gran parte della tela e della scena, lasciando la figura maschile in secondo piano.
Per concludere, credo che l'esposizione sia riuscita anche a fare emergere alcuni dei numerosi tratti che il maestro aveva in comune con l'Estetismo, il movimento sorto alla fine dell'800 all'interno del Decadentismo, il cui massimo rappresentante è stato Oscar Wilde. Non solo la predilezione per la “femme fatale”, tipico personaggio decadente (si pensi alla Salomè di Wilde, già citata prima), non solo il gusto per il piacere e la voluttà (si veda Il piacere, di D'Annunzio) non solo la tematica di “eros e thanatos”, ma anche il culto della bellezza e il concetto di “arte per l'arte”.
Se anche voi, pertanto, nel profondo, vi sentite, come me, un po' esteti, andate a vedere i capolavori di questo grande artista, e se non vi è possibile ammirarli dal vivo, potete pur sempre sfogliare alcuni dei magnifici libri che li raccolgono.
Klimt – Alle origini di un mito
di Eleonora Mammana
“A ogni epoca la sua arte, all'arte la libertà”
Frontone del Palazzo della Secessione - Vienna
Domenica 13 luglio si è conclusa, a Milano, l'attesissima mostra su Gustav Klimt, organizzata in collaborazione con il Museo Belvedere di Vienna e curata dal suo vicedirettore, Alfred Weidinger.
Avevo già avuto modo di vedere, anni fa, ad Aosta, alcune opere di questo grande artista, ma si trattava solo di disegni (ne ha realizzati più di 3000!). Non vedevo l'ora, perciò, di trovarmi davanti ai suoi dipinti.
L'esposizione, che si proponeva di indagare i rapporti familiari e affettivi di Klimt, è stata suddivisa in sezioni, ciascuna riguardante un momento saliente della sua esistenza: la famiglia; la formazione presso la “Scuola di arti e mestieri” del Museo di Arti applicate, in cui il maestro apprende le tecniche più svariate, dal mosaico all'affresco, dalla pittura all'incisione; la “Compagnia delle arti applicate”, fondata con il fratello Ernst e il compagno di studi Franz Matsch; la Secessione e i dipinti per l'università di Vienna; i paesaggi; i ritratti e il nudo. Fra una sala e l'altra, poi, sono state strategicamente collocate le tele più rilevanti: Giuditta II (o Salomè, 1909) e Girasole (1906-1907), rappresentative del suo periodo aureo, e Adamo ed Eva (incompiuta, 1917-1918), uno dei suoi ultimi lavori. Da notare anche Ritratto femminile (1894), dove emerge la sua abilità ritrattistica, Dopo la pioggia (1898), Mucche nella stalla (1899) e Bosco di faggi (1902), esemplificativi del suo modo di dipingere i paesaggi, Acqua in movimento (1898) e Fuochi fatui (1903), nei quali si nota il suo interesse per la figura femminile, spesso ambigua e carica di erotismo.
Purtroppo nessun dipinto di quelli commissionati a lui e a Matsch dall'Università di Vienna per le sue sale ci è giunto, essendo bruciati in un incendio durante la seconda guerra mondiale. Sono rimasti, però, e qui sono stati esposti, alcuni disegni preparatori, che Klimt soleva realizzare prima di qualunque opera (a eccezione dei paesaggi), e qualche incisione. Il pittore doveva occuparsi delle allegorie della Filosofia, della Medicina e della Giurisprudenza, ma dopo un lavoro durato anni, decide di restituire il denaro ricevuto e di riprendersi i dipinti, per le accuse di immoralità ricevute. Infatti, invece di seguire le convenzioni dell'epoca e mostrare il trionfo della conoscenza sulle tenebre dell'ignoranza, esprime tutto il suo pessimismo cosmico, peraltro affrontando tematiche tabù come la malattia e la decadenza fisica. Nella Filosofia, infatti, gli esseri umani sembrano essere trascinati senza controllo su se stessi, persi, senza alcuna risposta esistenziale; nella Medicina, Igea, dea della salute, ieratica e indifferente, volta letteralmente le spalle a un'umanità dolente e impotente di fronte al fato; anche in Giurisprudenza, infine, il buio sembra avere la meglio sulla luce.
Un'intera stanza, invece, è stata dedicata alla ricostruzione del Fregio di Beethoven, un'imponente opera realizzata nel 1902 in occasione della XIV mostra della Secessione Viennese. Entrando, la sensazione è stata davvero quella di immergersi nell'opera d'arte totale, massimo ideale dei secessionisti; tre pannelli, infatti, riproducendo le pareti del padiglione Olbrich su cui Klimt aveva dipinto l'allegoria della “Nona Sinfonia” di Beethoven, avvolgevano lo spettatore, inondato dalle note del grande compositore tedesco. Obiettivo del movimento, ufficializzato nel 1897, di cui il maestro è stato tra i fondatori e il presidente, era restituire all'arte la sua libertà. Libertà dall'accademismo, dalla mercificazione, dalla rigida divisione fra arti maggiori e arti minori.
La mostra, nel complesso, perciò, ha offerto un piccolo assaggio del percorso artistico di Klimt, toccandone le tappe principali, ma, a mio parere, avrebbe potuto concedere un po' di più in termini di opere...
In primo luogo mi sarei aspettata qualche altro paesaggio, dato che questi costituiscono ben un quarto dell'intera produzione klimtiana. Quelli selezionati, poi, hanno mostrato alcune delle sue peculiarità, quali l'assenza della figura umana e, soprattutto, la scelta di focalizzare l'attenzione su un solo dettaglio, in primo piano, senza guardare lo sfondo nella sua ampiezza; i dipinti, infatti, sembrano “zoommati”: degli alberi del Bosco di faggi, ad esempio, non viene vista la cima, ma solo la parte centrale. Sono assenti, però, i caleidoscopici giardini di campagna che il maestro amava dipingere en plein air, di cui il Girasole fornisce solo un dettaglio.
In secondo luogo, attendevo alcuni dei ritratti più rappresentativi della pittura di Klimt, nei quali la plasticità dei volti e delle mani delle dame contrasta volutamente con la bidimensionalità dei decori ornamentali, come nel Ritratto di Emilie Flöge (1902), in quello di Fritza Riedler (1906), o nello spettacolare Ritratto di Adele Bloch-Bauer (1907). Magnifico sarebbe stato poter ammirare almeno uno dei dipinti successivi al 1909, caratterizzati dall'influsso delle xilografie e delle ceramiche giapponesi, come il secondo ritratto di Adele Bloch-Bauer (1912).
Posso dirmi soddisfatta, però, di aver potuto ammirare almeno Giuditta II, capolavoro del suo periodo d'oro e, soprattutto, massima espressione della sua “femme fatale” (insieme a Giuditta I, 1901). La figura femminile, altera e sprezzante, seminuda, con le labbra e gli occhi socchiusi, le mani contratte, impigliate fra i capelli di Oloferne, affascina lo spettatore, ma, insieme, gli trasmette un senso di inquietudine. Tutt'attorno si nota una profusione di oro e di decorazioni piane, geometriche, che paiono tessere di un mosaico; l'ispirazione proviene, infatti, proprio dai mosaici bizantini che Klimt ha visto a Ravenna nel 1903. Più che la pia vedova ebrea che ha sedotto e decapitato il capo degli Assiri per salvare la sua città, però, la donna raffigurata sembra Salomè, la bellissima figlia di Erodiade che ha chiesto la testa di Giovanni Battista solo perché questi non aveva ceduto al suo fascino. Talvolta, infatti, questa tela, come anche Giuditta I, compariva proprio con il titolo Salomè, protagonista, peraltro, dell'omonimo dramma scritto da Oscar Wilde e pubblicato nel 1893 con le illustrazioni di Aubrey Beardsley. Ad ogni modo, indipendentemente dal fatto che Klimt abbia voluto alludere all'uno o all'altro personaggio biblico, è indubbio che abbia inteso rappresentare la tipica “femme fatale” di fine secolo, la donna corrotta, irresistibile e distruttrice, in cui le tematiche di “eros e thanatos”, a lui tanto care, ben si fondono.
Sufficiente rilievo, poi, trovo che sia stato dato al tema principale delle opere di Klimt, la donna, se pure anche in questo caso sarebbe stato bello vederne qualche esempio in più. È, infatti, questa la protagonista indiscussa della sua produzione; sia essa raffigurata con le sembianze della “femme fatale”, come in Giuditta II (e I), o con quelle di una creatura magica e ambigua, dalla forte carica erotica, come in Fuochi fatui e Acqua in movimento (ma si vedano anche Bisce d'acqua I e II, 1904-1907, o Pesce rosso, 1901-1902, qua assenti) o sia essa colta nella sua intimità o nell'estasi del piacere, come nei diversi disegni di nudo (o in Danae, 1907-1908, purtroppo non presente nell'allestimento), o ancora sia dipinta accentuandone la sensualità e l'alterigia, come nei numerosi ritratti delle sue committenti. Non stupisce, perciò, che anche un soggetto paesaggistico come il Girasole, venga trattato come un ritratto femminile: il fiore, infatti, sembra un volto e le foglie che rivestono completamente il gambo, disegnando una sorta di piramide, fungono da abito. Quanto all'uomo, compare pochissimo nelle opere del maestro, e quando è presente, normalmente viene sovrastato dalla figura femminile, come in Adamo ed Eva, dove è il corpo abbondante di Eva a occupare gran parte della tela e della scena, lasciando la figura maschile in secondo piano.
Per concludere, credo che l'esposizione sia riuscita anche a fare emergere alcuni dei numerosi tratti che il maestro aveva in comune con l'Estetismo, il movimento sorto alla fine dell'800 all'interno del Decadentismo, il cui massimo rappresentante è stato Oscar Wilde. Non solo la predilezione per la “femme fatale”, tipico personaggio decadente (si pensi alla Salomè di Wilde, già citata prima), non solo il gusto per il piacere e la voluttà (si veda Il piacere, di D'Annunzio) non solo la tematica di “eros e thanatos”, ma anche il culto della bellezza e il concetto di “arte per l'arte”.
Se anche voi, pertanto, nel profondo, vi sentite, come me, un po' esteti, andate a vedere i capolavori di questo grande artista, e se non vi è possibile ammirarli dal vivo, potete pur sempre sfogliare alcuni dei magnifici libri che li raccolgono.
I libri che mi hanno cambiato la vita
di Chiara Fadda
> Ho pensato a una “lista di libri che hanno cambiato la mia vita” per giorni... Suvvia! Ci abbiamo pensato tutti, almeno una volta! Chi non ha un libro preferito?... Be’ io! Sono giunta alla conclusione che voglio accantonare questa domanda insieme a quelle a cui non so dare una risposta certa: colore preferito, meta prediletta, sogno nel cassetto; non ne ho uno in particolare, ma prediligo il viola, vorrei viaggiare per il mondo, ma ho il richiamo dell’Africa, sogni ne ho molti, eppure nessuno prevale. Non ho un libro preferito e non penso di averne letti tanti da poter dire che mi abbiano cambiato la vita... Mi piace pensare che questo libro non esista, o meglio, che lo debba ancora leggere. In qualche modo è uno stimolo alla lettura.
> Il libro perfetto, a mio avviso, è quello che riesce a ispirare e calza a pennello in una situazione che riguarda da vicino o coincide con la propria realtà; è quello che ti fa compagnia e allo stesso tempo ti isola dallo stato della grigia quotidianità.
> Il libro coincide un po’ come la carta d’identità della persona, uno spioncino sul proprio essere!
> Dicevo, sono giunta a questa conclusione e ho stilato una lista di quei libri che magari non mi hanno cambiato la vita, ma che ho nel cuore e per me hanno un significato.
> Scusando la poca originalità, non posso non citare come primo su tutti “Il piccolo principe” di Antoine de Saint-Exupéry.
> Come si fa a non affezionarsi a questo libro? Scritto per piccoli eppure sempre così attuale e profondo. Non mi soffermo neanche a raccontar la trama, rischierei di essere banale e riduttiva. Ha appena compiuto settant’ anni ed è straordinario come riesca a risultare sempre così contemporaneo. È un piccolo capolavoro che dovrebbe sempre stare nella libreria a casa. Gli stessi motivi per leggerlo coincidono con i valori che insegna: godere della bellezza, fare ricerca in se stessi, prendersi cura dell’amore, coltivare l’amicizia e non perdere mai la speranza. Ecco cosa succede tra le parole di quelle pagine, contemporanee come solo i grandi libri sanno essere e con un messaggio perfetto per i lettori di ogni età: occuparsi degli altri. Certo, ci vuole molto, molto coraggio per attraversare intere galassie a caccia dei ferri del mestiere. Ma nel viaggio, si sa, si cresce. Anzi, senza quel viaggio, così lungo e ingarbugliato, il protagonista non avrebbe mai potuto incontrare la sua amata volpe.
> Perché, si sa “Si devono pur sopportare dei bruchi se si vogliono vedere le farfalle... Dicono siano così belle!”...
> - ll Signore degli Anelli. È un cult e piace a tutti, se poi penso a come lo leggeva la nonna prima di andare a dormire, nella sua versione datata 1966 non può che restarmi in quel cantuccio di cuore insieme agli elfi silvani, i grandi reami e la terra di mezzo.
> Anche “Il Signore degli Anelli” è stato concepito più di sessant’anni fa, ed è innanzitutto una sapiente costruzione letteraria che interseca tra loro temi fiabeschi, motivi ispirati alle saghe nordiche e celtiche e valori esemplari dell’epica classica. Il tutto ricamato con acribia filologica, geografica e storiografica tale da permettere all’autore di inventare e rappresentare con realistica precisione luoghi, ere e linguaggi. Questo è forse l’elemento meno interessante per il pubblico di massa, ma è tuttavia inconfutabile il fascino che emana nei lettori più attenti e bendisposti: mappe, alfabeti, pronunce, periodi storici ed alberi genealogici inesistenti, eppure documentati e ricostruiti in accurate cronologie in appendice ai tre (ovvero sei) libri di questa saga! Ha creato un mondo e ha sviluppato un’era, quella del fantasy misto alle antiche favole nordiche che andavano scomparendo. È grazie a questo libro e a “Le nebbie di Avalon” della Bradley se ho scoperto questo amore spropositato per il fantasy (troppe volte, alle ore di filosofia, il professore cercò di far volare il libro fuori dalla finestra, ohibò!)
> Date un’occhiata a letturecreative.blogspot.it.
> “Piccole donne” di Louisa May Alcott è stato uno dei primi libri che ho letto. Mi rivedevo tanto nella figura della protagonista Jo, schietta, determinata, ribelle e irrequieta. Il maschiaccio della famiglia, che col suo carattere scontroso e il temperamento impulsivo, che la porta ad arrabbiarsi spesso, sogna di diventare una scrittrice famosa. Si diletta a inventare storie da far leggere alle sorelle e si allontana dall’ideale del tempo di signorina in età da marito, in una delicatissima narrazione. Ma anche per lei verrà il tempo di scoprire l’amore e riuscirà a trovare qualcuno che riuscirà a far “vibrare quel delicato strumento che è il cuore di una donna”.
> Lo leggo spesso e torno indietro di tanti anni in un secondo. Mi emoziona sempre!
> Un altro libro che ho a cuore è “Il vecchio e il mare” di Hemingway. La mia professoressa di letteratura lo impose come lettura obbligatoria, mai compito fu più ben accetto. A ogni pagina letta ti ritrovi là sulla barca, col profumo del mare sulla pelle, il sole sul viso, la salsedine sulle labbra e vivi realmente quei quaranta giorni di pesca solitaria e infruttuosa. Tutto in Santiago era vecchio, ad eccezione dei suoi occhi, che erano rimasti del colore del mare... Non cerca solo un pesce ma QUEL pesce. Con tanta costanza e con tanta fatica, contro tutti i maldicenti del villaggio. Ognuno è libero di impersonificare quel pesce con l’oggetto dei propri desideri, soltanto col tempo il risultato arriverà. È stata una bellissima lezione di vita, imparata con tutta la saggezza e la genialità della penna di Hemingway.
> Se si vuole scrivere non si può non leggere Ernest Hemingway, io penso questo.
> Arrivo all’università e scopro il meraviglioso mondo della letteratura russa. Non ero convintissima del mio indirizzo di studi, ma mi sono ricreduta con le lezioni del corso di letterature comparate. All’analisi di Oblomov di Gončarov in classe, e nel vedere tutta la passione del professore nelle spiegazioni, nei suoi scritti e nelle letture fatte in piedi sul banco a mo’ di “attimo fuggente”, sono rimasta strabiliata. Beata la passione che esiste ancora in alcune persone e non si vergognano di mostrarla a pieno! Ogni maestro dovrebbe avere questa dote innata di credere in quello che dice e trasmetterlo con lo stesso zelo e fermezza.
> In una disordinata e triste casa (ebbene sì, ai russi piace proprio esagerare con la tristezza) di San Pietroburgo, viveva nel disordine e trascuratezza un piccolo proprietario terriero, per noi umili lettori uno dei più grandi esempi di “inetti” letterari, di nome Oblomov. Essendo un uomo di poche pretese, ben presto si abitua all’idea che gli altri lavorino per lui e si lascia vincere dall’infingardaggine che gli hanno inoculato nel sangue gli anni pacifici della fanciullezza trascorsa in “Oblomovka”. Viene destato da questo suo stato di inezia profonda da un caro amico: Stolz, il quale, mosso dalla grande stima per Oblomov, fa di tutto per ricordargli le qualità morali, intellettuali nonchè i comuni progetti giovanili idealistici. Riesce a distaccarsi dalla vacua e tediosa solitudine, ma con poco interesse ed entusiasmo, fin quando non incontra la giovane Ol’ga. Nasce l’amore e i due sembrano prossimi al matrimonio, ma...
> Eh no! Troppo facile svelare così i finali dei grandi libri! A voi il finale ... del tutto inaspettato... dimenticatevi il trionfo dell’amore e il cambiamento radicale del pigro Oblomov nell’iperattività fatta persona.
> Dopo Oblomov, mi sono appassionata e ho iniziato a leggere Gogol’, Derzhavin, Karamzin e mi si è aperto un nuovo mondo: una letteratura più cruda e tetra, misteriosa e per alcuni aspetti romantica, tanto quanto la nostra... eppure così diversa.
> Ora sto leggendo “Mangia, prega, ama” di Elizabeth Gilbert, giusto per tornare al discorso del libro che è perfetto quando si attaglia a ciò che ti succede in un periodo. Nessun libro come ora può descrivere la mia vita. Ha una venatura di Zen e rimane impresso.
> Una scrittrice di successo “perde la bussola”, decide di rimettere assieme i pezzi della sua vita e inizia a viaggiare per il mondo, cercando la pace interiore e risposte, fino a quando non scoprirà che, per raggiungere quest’ultima, basta solo mangiare (in Italia, dove starà un po’ di mesi), pregare (in India, per un ritiro spirituale) e amare (a Bali, dove troverà il nuovo amore).
> Riporto una bellissima frase: “Se sei abbastanza coraggioso da lasciarti dietro tutto ciò che è familiare e confortevole, e che può essere qualunque cosa, dalla tua casa ai vecchi rancori, e partire per un viaggio alla ricerca della verità, sia esteriore che interiore; se sei veramente intenzionato a considerare tutto quello che ti capita durante questo viaggio come un indizio; se accetti tutti quelli che incontri, strada facendo, come insegnanti; e se sei preparato soprattutto ad accettare alcune realtà di te stesso veramente scomode, allora la verità non ti sarà preclusa”.
> Spesso ho l’abitudine (brutto vizio?) di voler rileggere lo stesso libro anche a distanza di anni... il che da una parte, se ci pensate bene, è mortificante: la vita è troppo breve per andare a ripercorrere storie già lette, ci sono più libri di quanti ne potremmo leggere in un vita. Eppure, non posso negare di voler rileggere per intero libri già vissuti, in questi giorni “Metamorfosi” di Kafka, ad esempio.
> Di recente, mi sono imbattuta in una quarta di copertina che recitava :“Fai rumore nei sogni di qualcuno solo per farlo svegliare con il cuore felice. Altrimenti lascialo dormire”. Non ho avuto modo di leggere la trama o le recensioni, solo il commento dell’autore, di Massimo Bisotti: “La luna blu la vedi solo negli occhi di chi ami. È il senso del mio libro, è il senso del tuo libro, perché ogni vita è un libro e in ogni libro ci sono vite reali che si toccano. Non bisognerebbe mai lasciare che si toccassero invano”.
> Suppongo che questo questo sarà il mio prossimo libro: “La luna blu. Il percorso inverso dei sogni”: è stato un richiamo, un’elettricità che si è creata nell’aria, quella sola che si crea quando compri un libro che non vedi l’ora di sfogliare!
Recensione: “Il diavolo” di Lev N. Tolstoj
di Annalisa Cattolico
Il Sole 24 ore, I libri della domenica, basato sull’edizione Passigli Firenze, 2005
”Dove nasce la tentazione? È un errore assecondare il desiderio dei sensi e opporsi alle convenzioni sociali?”. Un ritratto magistrale dellʼanimo umano: di fronte alla minaccia del vizio, lʼindividuo mostra le sue fragilità e arretra, lasciando che il disastro prevarichi.
Inizia con questo interrogativo il racconto di Tolstoj, un racconto che vuole far riflettere su qualcosa che prima o poi, inevitabilmente, ognuno di noi prova nel corso della propria vita: la tentazione, e ci porta ad analizzare quando e perché inizia ad affiorare in noi. Perché di fronte al vizio la maggior parte delle volte diventiamo così fragili, così corruttibili?
Per il protagonista, Evgenij, la vita era esattamente come doveva essere: un brillante percorso universitario, un buon patrimonio. Dopo la morte del padre però la situazione precipita a causa dei debiti e si ritrova costretto a dover amministrare lʼazienda di famiglia in campagna per conservare lʼeredità.
Trascorso del tempo, Evgenij non riesce a trattenere i propri impulsi sessuali, che diventano sempre più insistenti, e che tende a giustificare indispensabili per motivi di salute: così inizia una relazione con Stepanida, una contadina.
La relazione con la contadina continua, ma un soggiorno in città cambia la vita di Evgenij: conosce Liza, decide di sposarsi e di troncare la relazione con Stepanida.
Liza è una buona moglie, devota ed amorevole nei confronti del marito. Quando però rimane incinta, le forze la abbandonano, e quindi decide di assumere una domestica: il caso volle che si trattasse proprio di Stepanida, ed a quel punto iniziò il tormento di Evgenij.
Evgenij tenta in tutti i modi di evitarla, di non pensare al turbine di emozioni e di tentazioni che annebbiavano la sua mente al solo pensiero di quella donna e, con il tempo, diventa schiavo della propria passione, lʼossessione per Stepanida è un tarlo che lo logora fin dentro lʼanima, fino a fargli perdere la dignità: la sua vita matrimoniale è solo un idillio, una facciata che rischia di crollare inesorabilmente per cedere al male e alla seduzione.
Il tormento e la vergogna logorano ogni giorno di più Evgenij, che arriva a designare Stepanida come il diavolo tentatore, un fardello che andava eliminato per mantenere integra la sua dignità e la sua coscienza.
Un aspetto molto interessante di questo racconto è che vi sono due finali, dove ad unirli vi è un comune stato di disperazione, persecuzione e di senso di colpa: l’autore però ci lascia intendere il finale più consono in base al carattere del personaggio, ma allo stesso tempo è come se, nonostante tutto, ci fossero ancora dei dubbi, un senso di incompiuto, come se la riflessione dovesse durare allʼinfinito, come se fino alla fine Evgenij non riuscisse a darsi pace. La cosa più apprezzabile che è riuscito a fare Tolstoj, il suo punto di forza, è che dalla prima all’ultima pagina lascia il lettore con il fiato sospeso, lo trascina nel vortice di ansia e di pena del protagonista, lo porta ad immedesimarsi e a rispecchiarsi nelle sue debolezze, e a chiedersi quale dei due finali avrebbe scelto se si fosse trovato nei panni di Evgenij.
Tolstoj, durante il racconto, ci porta a riflettere su vari punti: il male, visto sotto forma di tentazione che cerchiamo di reprimere a tutti i costi, la lotta tra il giusto e lʼingiusto ,una lotta che ha a che vedere con la nostra moralità ma non solo, un tentativo di conformarci ai voleri della società, ai costumi che ci vengono imposti e che ci spingono a condurre uno stile di vita impeccabile e rispettabile, a costruirci una gabbia dorata intorno che però prima o poi diventa troppo stretta. Ma se in realtà fosse questo il ‘’diavolo’’ che descrive Tolstoj? Se fosse la smania di apparire perfetti e la conseguenza di annullamento a far scaturire la tentazione e la voglia di trasgredire?. In poche pagine lʼautore disegna il profilo psicologico dellʼessere umano in tutte le sue fragilità, il terrore della perdita di controllo, le sue contraddizioni in modo critico, analizzando il diavolo, cioè quello che tutti noi cerchiamo disperatamente di allontanare, ma che involontariamente tentiamo di ottenere, perché è un inevitabile conseguenza di una vita che non scegliamo per nostro volere, ma per volere di altri: credo che il messaggio che vuole trasmetterci Tolstoj, ammonendo così palesemente Evgenij , è che forse se ci lasciassimo tentare senza chiederci se ciò che desideriamo ardentemente è giusto oppure sbagliato, forse allora incominceremo a vivere, a vivere sul serio.
Il domino narrativo
di Anna Bertini
(da un’ idea Di URS ARTHUR FUHRER)
ad Urs.
LA CITTÀ
Oggi porta un cappello sugli occhi troppo chiari. Non è ancora estate e il sole è mitigato da uno sbuffo di aria tiepida. Porta un cappello perché si sente in viaggio: è una paglietta che comprò tanti anni fa, quando era in giro per costruirsi un mestiere senza purtroppo aver deciso quale. Certo fu un errore, se l’avesse deciso allora, gli sarebbe rimasto cucito qualcosa addosso; adesso che ha fatto un po’ di tutto è difficile pronunciare la frase “Di professione sono…”. Lui dice sempre: “ricerco…”; è talmente ambiguo che i più lo credono uno scienziato.
Non si è mai chiesto perché sceglie quel punto della cerchia muraria al pomeriggio, mentre di mattina ne predilige un altro più ombroso. Sul far della sera il palazzo che ora gli sta in fronte è meno spettrale, lambito da giochi ombra e luce di colore ormai carico; gli pare sempre di scorgere sembianze sotto il portico o dietro i vetri opali delle serre, figure immaginarie che lanciano frasi e idee nella pozza del suo pensiero che lui trova “invecchiato”.
Crede che un giorno comprerà una soffitta tra i tetti, ci metterà una panchina e un piccolo tavolo per continuare a cercare le sembianze e trasformarle in macchie di colore su una tela. Poi a sera comincia un concerto di campane che un tempo lo stimolava e ora lo getta nell’inerzia e così rimane impietrito sulla cerchia muraria.
Pensa spesso che dovrebbe ripartire, poi è certo che non ci siano più luoghi da esplorare e la noia degli oggetti e delle mode lo coglierebbe anche altrove.
Ormai fa un mestiere convenzionale che più non gli si addice, non è più un gioco. Così spesso lo trascura. Il magazzino è ormai vuoto, alle mostre e ai mercati trova solo oggetti che compra per sfizio, oggetti senza stile e senza storia: lui li lega tra loro in una trama inventata creando nessi che somigliano a una vita.
Ha aperto una lista di oggetti che dovrebbe procurare questo mese: la legge più volte sicuro che gli si rivelerà quello da cui iniziare: la toeletta per una vecchia dal visto molto rugoso, o il quadro per un carpentiere che dovrebbe mostrare gli schizzi del mare, le onde... un frullatore anni ’50 piacerebbe tanto al suo amico Bruno che ha la carrozzeria sotto le mura.
Ieri è andato a un’esposizione, non ha trovato niente. I quadri gli sono sembrati insulsi; una biondina esangue con la quale ha parlato un po’ non era di questa opinione. Si è fatto regalare un pennello su cui si era diffusa una macchia di colore verde chiaro. Poi la sera buttato sul letto ha giocato ad indovinare come si era potuta formare. Domani parte per un mercato antiquario.
È scesa la guazza e anche le campane, senza dare nell’occhio si sono allontanate. Si è avviato lento salutando facce che vede ogni sera. Ha salito le scale fermandosi al mezzanino per osservare gli orti da una finestra bassa, infilandocisi dentro tra i fili e qualche panno che disturba la vista. Ci è rimasto a lungo. Ha consumato una cena parca e poi ha ceduto al sonno senza opporre alcuna resistenza.
È partito di buonʼora. Siede su un torpedone bollente che dondola tra i colli. Sulle piazze principali dei borghi scende a fumare una sigaretta. Tiene sottobraccio un giornale non letto, ha il vestito stropicciato e un sorriso accennato quando getta lo sguardo su persone veloci di gesti e impetuose di frasi: lui non sente alcuna fretta. Si muove torbidamente come chi ha già corso euforie inutili e rabbie sterili. Non ha da sprecare o elargire più niente.
È giunto a destinazione nella piena mattinata, gli avventori e i mercanti patteggiavano a voce alta. Ha osservato a lungo un guardaroba che assomiglia a quello che vuole la parrucchiera. Gli occhi sono caduti sul giornale che lui stesso aveva appoggiato sul banco. Un trafiletto breve, e diceva su per giù così: “Importante scoperta al paese di B. Ritrovato un padiglione antico: forse un antesignano centro sociale? Accolte tra le spoglie del locale centinaia di tessere dipinte in parte bisognose di restauro. Le maestranze rifiutano di consegnare i reperti agli organi competenti. Sembra il ritrovamento sia stato tenuto nascosto per un po’ di tempo. Un’iscrizione in lingua non nota e probabilmente dialettale conduce ad un gioco; il Domino Narrativo, dovrebbe chiamarsi così questo intrattenimento di antica tradizione, oppure, cos’altro rappresentano quelle tessere, di sicuro valore artistico?”
Si è accorto che un tipo rubizzo sta trasportando il guardaroba verso il parcheggio. Si è diretto alle colline e in un baretto ombroso ha bevuto una birra. In testa all’improvviso un sogno di molti anni prima e una frase, forse appartenuta ad un gioco d’infanzia, insieme a un trenino rosso fiammante che invece di correre su eleganti binari prendeva lo slancio e si gettava ciecamente giù per le scale, a disegni attaccati sul muro e oggetti ammucchiati in cantine segrete.
Ha pagato lasciando una mancia perché quella pergola gli aveva messo l’allegria. E’ tornato alla stazione dei pullman e ne ha ripreso uno verso la città. Intanto scendeva di nuovo la sera, una sera ventilata e vitale. E’ sceso nei pressi del Duomo e ha percorso il resto del tragitto a piedi. A casa, ha riempito una valigia. Poi ha avuto improvviso appetito e allora si è chiuso la porta alle spalle e ha infilato il vicolo dove un suo amico oste ha qualche tavolo davanti alla porta. Ha parlato con lui di una partita di calcio e il tempo è passato cordialmente fino all’ora in cui la città ormai silente ha spento le luci.
Quando prende un treno lo fa possibilmente di notte: sotto la pensilina poche persone non del tutto sveglie si lasciano avviluppare dal singhiozzo isterico della campanella che precede l’arrivo della motrice. Lei giunge con pochi vagoni proveniente dall’odore della notte e si ferma sotto le luci sporche della stazione. Allora lui sale in carrozza quasi senza consapevolezza, come se il viaggio fosse parte di un sogno che rivelerà alla fine dove sta andando. Poi tutto si muove in uno strappo brusco e la motrice si restituisce alla strada ferrata. Ha riconosciuto gli odori del viaggio e per un momento è stato sveglio ed ha capito di aver fatto una scelta: una subliminale euforia gli ha fatto provare ad immaginare il luogo in cui era diretto, sforzo necessario se si vuole poi confrontare l’immaginario col reale. Subito dopo il tragitto si è confuso col sonno, o forse, con la memoria.
Il rumore del treno per andare con mia madre dalla zia, solo due stazioncine svizzere e brillanti con le montagne intorno, solo due, e si arriva presto e senza stanchezza. L’aria pungente che si respira uscendo fuori dal treno mette fame di burro e marmellata, e le ragazze chiare e allegre della fattoria ti salutano mentre ti avvii giù per il viale: se non è la spensieratezza le somiglia molto. Peccato che allora non lo sai, e ti senti distante anni luce dalla vita. E prima di capire che quello che hai è già vita, hai voltato l’angolo e sei fuggito. Credi di correre incontro a tutto e ti allontani, non potrai poi, tornare indietro. I treni diventeranno lunghi, le stazioni scure di pianura non ti riconosceranno, l’aria fuori di dissenteria, ruggine, diffidente, malata, e le ragazze che non sorridono più. E tu vorresti pane e marmellata, ma la vita non ti viene incontro, devi fare fatica perché capiscano che non sei lì per rubare qualcosa a qualcuno. Eppure, quando te ne sei andato via, l’hai fatto perché ti sembrava spaventoso rimanere ad attendere che lei, la vita, ti travolgesse, ti ingabbiasse prima che tu avessi deciso dove volevi stare, o che più semplicemente ti ignorasse, lasciandoti indietro.
Ma lontano, pure, e’ più uguale di quello che credevi. I treni migliori restano quelli della gioventù: piccoli tragitti, capelli sudati da asciugare al vento del finestrino, soldati di piombo, erba, terrazze. E i giochi non tornano più, mentre un ennesimo treno sporco attraversa un’altra notte…
IL PAESE
L’aria è scomposta in punti gialli alla fine della salita. Un’auto ronza tra i silenzi del mezzogiorno. Lui si asciuga la fronte e chiede un passaggio.
“Il nostro e’ un paese in discesa, sa. L’unica cosa in pari è la piazza, per il resto si scende giù piuttosto all’improvviso non appena finisce il sagrato. I turisti, vengono per la pendenza”.
L’hanno lasciato di fronte a una torre campanaria. Sembra tutto deserto. Brevi voci dalle finestre aperte, toni ottusi di tv accese, rumore di ghiaia sotto le scarpe dalla suola liscia, e poi, scendendo scalini larghi e man mano più piacevoli per le ginocchia compaiono case allineate su una strada vuota. Un cane lungo e disteso sulla porta dell’unico bar spazza con la coda l’insegna dei gelati. Qualcuno soffoca un riso dietro un’anta socchiusa, nell’ombra di stanze già pomeridiane che lui immagina profumate di siesta e talco.
Sa dove cercare. Nei paesi i ruoli si ripartiscono automaticamente, le persone importanti si sanno prima di arrivare. Un sindaco, il bar, il prete, la ragazza di un giovane politico; parlando con loro si carpiscono i piccoli segreti di una comunità, quelli che ci sono sempre. Seduto nel bar tra le piccole discussioni di fine telegiornale con una tazzina di caffè, sguardi si posano sui suoi capelli brizzolati, a studiarli, e lui cerca la carta da giocare per farsi accogliere.
Il padiglione e’ vicino ad una antica cappella, non son servite che poche domande per saperlo. Ora restano poche altre da porre senza insospettire la gente. Certo vorranno scoprire perché lui sia lì, ma cosa può rispondere? La verità, Quale? Se nemmeno lui sa perché è lì.
“Sono un ricercatore” dirà. “No, no non mi manda nessuno, son qui di propria iniziativa. Sono molto interessato alle pratiche ludiche, in specie quelle collettive.”
Parla con una ragazza, vorrebbe tirare fuori quella sua frase sull’infanzia, ma deve tacere ed ascoltare. Una ragazza con una gran mole di capelli e grandi occhi fervidi, un maglione che avvolge forme morbide: ne ha avuto un’istantanea e impulsiva fiducia. E lei racconta proprio quella storia.
Lo chiamano il padiglione. Sta sotto la cappella, che prima era una pieve col cimitero nella cripta, poi e’ venuto il terremoto, poi la peste e allora nel 1330 hanno costruito la cappella. In autunno da tre anni a questa parte vengono le alluvioni; franano tetti, argini, si allagano i campi, le strade, le fabbriche. Sotto la cappella improvvisamente si e’ aperto un buco: c’è tanto spazio sotto da saltarci dentro.
Hanno scavato via fango, ossa della vecchia cripta, e ancora ossa più fresche, forse delle guerre mondiali. Hanno riportato alla luce grandi cantine rette su colonne di ardesia.
Tra i frammenti di solai e colonnati, tra sfoglie di affreschi le tessere, a terra, sbiadite, parvero all’inizio dei mosaici. Poi saltarono fuori due tavoli e contenitori pieni di altre tessere.
Incisioni con datazioni successive parlano, in un idioma non originario del luogo, di questa strana attività: il Domino Narrativo.
Le tessere sono tutte all’incirca di stesse dimensioni. Ogni scatola può contenerne più o meno trecento. Per ognuna delle due scatole, una di granito, l’altra di ferro, due serie cromatiche diverse: blu la prima, rosso la seconda.
In parte le tessere sembrano derivate dal taglio di lastre dipinte con un soggetto mai decisamente figurativo e uno stile pittorico più primitivo dell’epoca a cui vengono fatte risalire.
Il periodo di realizzazione non è stato lunghissimo, forse non più di una generazione. Però le regole per essere ammessi a giocare sembrano essersi modificate negli anni, come risulta dalle iscrizioni, e le tessere hanno già subito ritocchi,. Ciò significa che si è giocato a lungo, e chissà quando poi si è interrotto, chissà quali avvenimenti hanno portato il gioco lontano dalla memoria collettiva, quali segreti stanno nascosti tra le cantine e le tessere?
In paese hanno una loro ipotesi. Qualcuno venuto da lontano ad affrescare quei locali deve aver inventato il gioco, realizzato le tessere, poi altri si sono aggiunti, forse i giocatori stessi sotto la guida di lui. E’ un vero e proprio domino. Le tessere vengono associate alle precedenti. Ma non ci sono altre regole per l’associazione, nessuno le riporta, In compenso ci sono descrizioni, storie, disegni, ed anche elenchi di nomi. Certo era stato un gioco collettivo, lo dimostrano i tavoli. Poi tutto era rimasto seppellito anni e anni là sotto.
Le storie di un paese sono tante, bastano loro a fare le regole di un gioco, Basta sedersi ad un tavolino e giocare con colori e tratti che danno la traccia per raccontare la tua storia. C’era una volta una casa rossa in fondo alla china... e poi ci mescoli la tua vita, viene fuori un quadro, un gioco dei ricordi...
“Ah, questo mi piace dice il sarto, ci sono tanti bei verdi, sembra una stoffa con cui feci il vestito a...”
“Le dico la verità io qui ci vedo un volto, uno che mi ricordo di quando facevo il guardiano alle terre del Conte, era una ragazza malinconica che non alzava mai la faccia passandomi davanti...”
E poi storie più complicate, rivelazioni, tessere che svelano segreti, confidenze, forse qualcuno che pensa a magie, forse qualcuno che chiama quel gioco blasfemo, che crede all’arrivo di un maligno... Il Diavolo si è installato nella vecchia cripta e ci indovina i peccati... le storie, i colori dell’anima, posso fare paura, mandare all’inferno o far toccare il cielo, dire troppo dell’ uomo, far vegliare la notte... possono diventare scomode le storie e chi le inventa... dove sarà fuggito quel barbaro che dipinse le tessere e costrinse il contadino e la badessa a raccontare le proprie ossessioni? Tra queste ossa ci saranno ancora le sue? Qualcuno più di altri ebbe paura del suo gioco che da troppo ingenuo, si era trasformato in diabolico agli occhi della comunità?
Ha preso molte tessere tra le sue mani, e le pone una accanto all’altra, scegliendole. Sono belle quelle tessere, polverose di storie. La ragazza lo lascia fare.
Presto ci saranno delle ricerche, sapranno di più, ma forse, non sapranno mai la verità su quel loro misterioso antenato-gioco. Non resterà che metterlo in mostra e lasciarlo parlare. Per quanti elementi la moderna scienza possa rivelare, sono i nessi che restano difficili da concatenare.
“Comunque siete un paese fortunato”; gli è venuto di dirle. “Sì”, risponde lei.
Avrà capito proprio quello che voleva dirle? Chissà, diventa sempre più difficile capire i nessi altrui.
“Siamo un paese fortunato” aggiunge lei, “ma non so se tutti la pensano come me su questa fortuna. Qualcuno pensa di avere in mano un patrimonio culturale, speriamo non venga deluso; qualcuno pensa di avere in mano un patrimonio, a come trasformarlo in denaro. Qualcuno si riterrà fortunato quando sapremo di più. Io penso che resteremo fortunati se ci sfuggirà qualcosa, se ci sfuggirà sempre e potremo correre dietro a ciò che nemmeno la scienza ci può rivelare. Tentare di decifrare il passato è comunque meglio che sforzarsi di acchiappare il futuro; è così quasi sempre che quello ti frega...”
Allora ha capito, pensa lui. E’ troppo felice di questa coincidenza. Non aggiunge niente.
Da qualche giorno l’estate ha inteso che non è ancora il suo turno e la primavera si è rifatta avanti con la sua aria leggera e pungente. Lui occupa una casa a metà della discesa, piccola, con un frammento di prato canuto davanti e le ortensie lillà. Le proprietarie la abitano solo alla fine dell’estate.
Oggi è uscito di casa prima del solito. Ha in mente di comprare i giornali, di fare una passeggiata e poi visitare l’archivio comunale. Ieri è andato a trovare un antiquario in valle, e ha trovato molti oggetti della sua lista: deve riuscire a farli portare al suo magazzino.
Il mese sta per finire, e per dire la verità dovrebbe scendere in città a sbrigare i soliti affari: affitto, assicurazione, abbonamento alla stagione calcistica; ma il clima è mite e ha deciso di restare ancora una settimana, anche i paesani lo invitano a trattenersi, ne apprezzano la compagnia discreta.
Allora ha imbucato una lettera per il suo amico oste, con alcuni bollettini postali e un assegno. Ha fatto anche un paio di telefonate, di buon ora. Adesso siede davanti al bar e attende che il giorno prenda il suo corso.
“Caro amico, non me ne vorrai se ti chiedo un favore, al ritorno ti porterò un paio di ricette interessanti in contraccambio. Non sono poi così lontano da casa. Mi dispiace che la tua squadra abbia perso il campionato, ma ne giocherà uno prossimo, con più fortuna. Qui il gioco è da scoprire. Oppure scoprire è il gioco. Non prendermi per matto. A presto.”
Tutto qui dà la sensazione di qualcosa di archeologico, le facce, bar, il fatto che tutto conservi una propria necessità, anche ciò che altrove è scomparso. I colori delle tessere sono i colori delle colline, delle argille, delle fonti, dei selciati consunti, di campi che appaiono alla vista come una corsa per giungere al mare. Ci sono luoghi che si raccontano da soli, appena calpesti il loro suolo ti torna in mente la loro esistenza come se tu li portassi dentro da una memoria precedente, ma forse più perché hai desiderato fortemente di incontrarli, li hai forse raggiunti non per caso.
Il padiglione, le tessere, il Domino Narrativo; conservano un’infanzia di questo paese, sono rimasti sotto terra come un’anima che non può fuggire, un passato imbrigliato,incapace di correre incontro al futuro.
Insieme al mistero, la penombra, la brillanza, la stanchezza, la bella del paese per cui qualcuno perse la vita, allo storpio, un crudele, un muto, un lavoratore indomito, il pittore barbaro, la ricetta dei biscotti di Donna Matilda, alla notte che avanza sulle terre ormai nere. Prima che il nuovo giorno crei nuove storie.
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