Sciolti

Nazim Hikmet, poeta dei sentimenti profondi

di Lorenzo Giacinto

Hikmet

Il talento assoluto del poeta turco, capace di trasmettere universi interi con la sola forza delle parole, non viene scalfito dal tempo che passa. La sua opera rimane immortale. Così come la forza dei suoi versi che raccontano delle sue navigazioni in mare aperto, attraverso l'oceano dell'esistenza...

 

Esistono poeti, nella letteratura di tutti i tempi e di tutte le latitudini, che suscitano un vero e proprio effetto di folgorazione, come se si toccasse con le mani un filo dell’alta tensione. Esistono pagine che sono un vero e proprio concentrato di vita, che sudano con la stessa febbre delle passioni umane, e che da quest’ultime traggono, inesauribili, il combustibile per bruciare.

Nazim Hikmet non è solo il più clamoroso successo editoriale di un poeta turco in Italia. E nemmeno, banalmente, la sua versione patinata riproposta puntuale ad ogni San Valentino. Quest’uomo, nato a Salonicco nel 1902, cresciuto all’ombra di un mondo destinato a sfaldarsi e di fronte al quale scelse la semplice fierezza delle genti anatoliche, è un magnifico esempio di attaccamento alla vita, mai infiacchitosi nonostante gli anni di prigione prima e di esilio poi, e le insidie di un cuore capriccioso.

Comunista, Hikmet, ma di un comunismo sempre di persone e mai di sterili proclami. Una fede politica vissuta con lo slancio, a volte ingenuo, di un giovane speranzoso,  che non cadde mai nella retorica di uno schema che privilegiasse le parole ai fatti, i programmi politici alle vicende individuali.

Innamorato, Hikmet, di una terra che gli era entrata fatalmente nel sangue, la stessa terra dalla quale, per uno dei tanti paradossi del destino, fu costretto a stare per tanto tempo lontano. Innamorato, Hikmet, delle donne, al punto di dedicarvi tanta parte della sua opera, forse la più preziosa, certo quella che giunge più netta e rapida all’emotività dei lettori.

Le donne, la donna, l’amore. Qui, il poeta turco pare essere vicino ai surrealisti, alla concezione bretoniana dell’amour fou: la passione amorosa diventa, tout court, l’esistenza stessa, e ne detta i ritmi e i respiri, ne suggerisce i colori e gli odori, ne illustra le fasi lunari e le maree. Nei versi d’amore di Hikmet, senti una compressione di vita che si dibatte inquieta, come se un flusso inesauribile di sensazioni, ricordi,oggetti e luoghi fosse catalizzato da un unico e potente centro gravitazionale che l’attrae a sé: la donna amata.

L’amore non fu mai vissuto serenamente da Hikmet. L’esilio, cui la sua attività politica lo condannava, si frapponeva tra lui e il suo oggetto del desiderio, irrevocabilmente. Ma è proprio da questo slittamento fra la passione e il suo compiersi nel mondo, che nascono le pagine più vibranti del poeta. L’amore è spesso cantato con forti accenni di nostalgia, a volte vi si sovrappone, in una luce di rimandi ed echi. E la misura del sentimento amoroso è la distanza geografica, o la solitudine di una stanza d’hotel, la stazione vuota del tram, l’ondulare calmo dei treni. Ma talvolta succede, quando Nazim riesce a specchiarsi negli occhi della sua donna: l’amore diventa un calmo ricomporsi dagli affanni, una forma mentis totalizzante, renitente agli schemi e ai referti cardiaci. Quell’attimo, quasi un lampo di inaspettata verità, prima di un altro commiato, prima di un’altra partenza, un altro treno.

Così, mai l’amore può definirsi cosa compiuta, ma è, piuttosto, parafrasando lo stesso Hikmet, «l’avventura della nave che va verso il Polo». Ed è proprio in quell’avventura, tra evocazione nostalgica e attesa del compiersi dell’incontro, di ritorno dal Polo, che si colloca Hikmet, in una tensione emotiva che è la stessa ragion d’essere dell’amore.

 

Avrei potuto accompagnarla

di Alessandra Marrone

a.marrone

Girò la testa verso il lato sinistro del letto e le sue labbra stanche incrociarono le mie, in un tenero bacio familiare. Fu l’ultima volta che gli fui vicina.
Avevamo scoperto la malattia due anni prima, la VES altissima delle analisi aveva allarmato il medico di famiglia, che gli aveva prescritto una serie di esami più approfonditi.
Prima di allora, era stato dal medico un paio di volte in vent’anni; ora, ahimé, aveva iniziato a frequentarlo più spesso anche se, come al solito, delegava sempre mia madre.
Nevicava, quel 9 di gennaio a Chieti; mia madre, incurante del tempo, prese l’autobus dalla stazione di Pescara e si recò all’ospedale per ritirare le risposte della biopsia.
Cancro. Cancro alla prostata, già diffuso nelle ossa.
Uscì fuori, il freddo era pungente. Nevicava, ma lei non se ne accorse, si sedette sulle scale esterne del pronto soccorso e si accese una sigaretta. Si mise ad osservare il fumo davanti ai suoi occhi. Il cervello era come fuori dal corpo, in quel momento sarebbe potuto crollare il mondo, lei di nulla si sarebbe accorta.
Gettò la cicca per strada, pestandola con un piede per spegnerla e a testa bassa, referto in mano, si recò alla fermata dell’autobus. Lì, con i pensieri affondati nella neve, restò in silenzio ad aspettare, curva sotto il peso del dolore e della paura, in attesa di una parola che si facesse strada nella mente, trascorrendo così, i minuti più brutti della sua vita.

Ero al lavoro. Avrei potuto accompagnarla, ma non lo feci. Però pensai a lei tutta la mattina.
Avevo lasciato che una donna, ormai sessantenne, andasse da sola con quel tempo da lupi e con quei pensieri. Non capii che in quel momento aveva bisogno di me, come non capii tante altre cose.
Chiusi gli occhi e girai la chiave nella serratura, la casa era sempre uguale – cosa sarebbe dovuto accadere, nel frattempo? –, spalancai la porta, il corridoio nella solita penombra era vuoto, mio padre in sala, pacificamente seduto sulla poltrona a guardare la televisione. Le braccia conserte, come sempre.
Indossava la sua abituale giacca da casa; era tranquillo, quasi rassegnato, come da quando erano iniziati i primi dolori.
Meno male – pensai.
Ciao pa’ – dissi – Ciao! – rispose lui con la sua solita serietà.
Appesi il cappotto all’entrata e diedi un’occhiata alla tv, in realtà prendevo tempo, non me la sentivo di affrontare mia madre.
Mi diressi in cucina velocemente, e rapidamente iniziai a mangiare il piatto di pasta caldo sul tavolo, senza alzare la testa.
Arrivò silenziosa, fece finta di rimettere a posto piatti e bicchieri; alla fine le domandai. Chiuse la porta per non farsi sentire e mi raccontò.
La guardavo parlare, quando ha paura ed è nervosa si passa il pollice e l’indice tra le sopracciglia e il naso in continuazione, dall’alto verso il basso e viceversa.
È incredibile la tranquillità che mi trasmette con quel gesto.
Il cielo era scuro e impacchettato dalle nuvole, non aiutava. Lo guardai alzando gli occhi dalla finestra. Guardo sempre il cielo, mi aiuta a pensare.
La cucina si affaccia su un cortile così piccolo che soffoca i sogni e l’unico modo per scappare dal cemento e dal grigiore è quello di alzare gli occhi in alto, alla ricerca di un infinito.
Mi ascolti? – disse. Sì, mamma. La sua voce mi riportò a terra, iniziammo a parlare del da farsi, divenni sempre più nervosa e in un paio di occasioni la aggredii, com’ero solita fare, smise di parlare e abbassò gli occhi, stetti zitta anch’io.
Bisogna dirlo alle tue sorelle e a tuo fratello - disse e andò via in camera da letto.
Dopo un po’ arrivò mio padre a chiamarla e tutti e due si allungarono sul letto, per il riposino pomeridiano.
Erano entrambi in pensione da circa tre anni, avevano lavorato tanto e ora si godevano il meritato riposo, andavano spesso a fare la spesa insieme. Non era mai successo prima, perché avevamo un negozio di alimentari.
Lei aveva anche imparato a fare le torte, ne faceva però di un tipo solo: il ciambellone al caffè, ma per noi che non eravamo abituati a nulla, era buonissimo; lo divoravamo io e papà, lui mi guardava mentre lo addentavo, sorrideva e diceva: «Uhm, la signora Marro’ s’è imparata a fa’ i dolci alla vecchiaia!». Ridevamo, e lei rideva sotto i baffi, orgogliosa.
Era un bel periodo quello, io avevo trovato un lavoro e loro, loro potevano godersi un po’ di tranquillità.
Avevamo una casa ad Alanno, un paesino di collina della val Pescara.
Mia nonna, la mamma di mio padre, era originaria di lì, così, qualche anno prima del pensionamento, papà ebbe l’occasione di comperare un pezzo di terra da quelle parti e costruirvi una casetta.
La costruzione occupò gran parte del suo tempo e delle sue forze; avvenne per gradi, in base ai soldi a disposizione, ma questo l’ha resa ancora più desiderabile; aveva una bella vista sulla Majella, la montagna-madre di noi abruzzesi; spesso, quando ero più ragazza, mi incantavo a guardarla nei pomeriggi, godendo dei tramonti fatati che regalava.
La casa, a tre piani, era diventata col tempo il rifugio estivo dei miei genitori; d’inverno invece, decisamente fredda, era meno frequentata, di tanto in tanto una visitina, giusto per accertarsi che tutto fosse a posto.
In estate, intorno a Ferragosto, ci riunivamo tutti lì, grandi pranzi, grandi risate, i bambini correvano in bici sotto il solleone e ogni tanto cadevano rovinosamente sulla ghiaia, e giù pianti e mamme che correvano a rassicurare i propri figli, «dai, che non è successo nulla, solo un po’ di sangue …».
Un’allegra brigata che amava trascorrere delle giornate indimenticabili insieme. Indimenticabili sono stati infatti tutti i Ferragosti e i Natali trascorsi insieme, li ricordo ancora perfettamente.

Dove sei?
Qui in camera, sto guardando la tv.
Papà è uscito.
Sì, l’ho sentito – risposi.
Adesso telefono alle tue sorelle, per dargli la notizia.
Ok, che bella notizia! – pensai.
Il pomeriggio vide mia mamma continuamente al telefono, tra le mie sorelle e mio fratello. Volevo andare fuori, respirare un po’; l’aria in casa era pesante, forse mio padre era uscito, pure con quel freddo, perché aveva capito tutto e non aveva voglia di vivere quei momenti. Sarebbero stati sufficienti quelli a venire!
Mentre mia madre parlava al telefono io, come un leone in gabbia, andavo su e giù per la casa, le tempie mi battevano forte, e alla fine delle telefonate ero stremata.
Per quella sera decidemmo di fare finta di nulla, ma bisognava organizzarsi per dirglielo, in modo che si lasciasse curare.
Andai a letto, ma ovviamente quella notte non dormii, era la prima volta nella mia vita che i pensieri non mi facevano prendere sonno.
«L’avevo capito! Ho sentito mentre in ospedale dicevano: «È pieno».

Restò in silenzio, deglutì più volte, ma mantenne un’espressione apparentemente serena. Queste parole mi rimbombano ancora nella mente. Perché io? Perché proprio io, che ero la più piccola, avevo dovuto dire a mio padre una cosa del genere? Mi aveva accompagnato Concetta, la sorella più grande, ma alla fine la frase: “Papà hai il cancro” l’ho dovuta pronunciare io!
Mi sono sentita come un boia che con la scure uccide il condannato. E il condannato eri tu, papà; tu, che con la tua intelligenza avevi già capito tutto da tempo, tu che accettasti la cosa, come hai accettato tante sconfitte in vita tua. Questa sarebbe stata l’ultima.


Fu il giorno più brutto della mia vita e, forse, della vita di tutti noi. Era un sabato pomeriggio, ero in sala, mentre gli altri sostavano lungo il corridoio ad origliare. La giornata era grigia, le nuvole nere, cariche di pioggia, le avevo viste nello spicchio di cielo che la finestra della stanza permette di intravvedere, tutto questo mentre prendevo il coraggio per dirti quello che ti dissi.
A poco a poco nel salone arrivarono anche gli altri e cominciammo a parlare delle cure possibili. Tu, com’era prevedibile, eri rimasto infastidito da quella pacifica invasione della tua famiglia, ma dopo un po’ ti eri arreso alle nostre proposte di aiuto: ci amavi, anche se sapevi già che sarebbe stato tutto inutile.
Il piano prevedeva una serie di incontri con dottori specializzati in oncologia, urologia, e non so più che altro.
Ognuno di noi diceva il nome di un dottore che un amico, un conoscente gli aveva citato come 'guaritore'; ognuno stava facendo una gran confusione. Annaspavamo nelle menti come cani in mezzo all’acqua, per tirar fuori un aiuto, una conclusione.
Tu stavi zitto, le braccia conserte. Abbassai la testa, “non è possibile, non è possibile, maledizione – pensai – è come se il sogno di vederti morire che avevo fatto qualche anno prima quando, poco più che sedicenne, ti avevo odiato per la tua rigidità, per la tua coerenza – proprio come oggi mi detesta mio figlio – si fosse avverato”.
Alzai la testa e i nostri occhi si incrociarono; i tuoi da “pesce lesso”, come ti dicevo sempre e i miei così profondi. In un secondo, mi facesti capire che tutto questo agitarsi non ti interessava affatto.
Non so come rimanemmo d’accordo sul da farsi, ma a un certo punto, fratelli e sorelle tornarono a casa loro, e rimanemmo soli io, tu e la mamma.
Cenammo, una minestrina. Io e mamma cercammo di riprendere il discorso ma tu non volevi saperne, «domani ne parliamo, ora voglio sentire il telegiornale».
Noi, zitte, facemmo finta di niente e continuammo a guardare la tv.
Ma l’indomani non ne parlammo, e neanche il giorno dopo e neppure il successivo.
Non ne parlammo mai.

Il Grande Luhrmann

di Eleonora Mammana

grande gatsbyClasse 1962, australiano, regista, sceneggiatore e produttore cinematografico. Sto parlando di Baz Luhrmann, creatore di Ballroom-Gara di ballo, Romeo+Giulietta, Moulin Rouge, Australia. Il suo ultimo successo è Il Grande Gatsby, trasposizione cinematografica dell’omonimo romanzo di Francis Scott Fitzgerald. Complice una divina moglie costumista, Catherine Martin, che ha scelto gli abiti dei Brooks Brothers (dai quali si vestiva Fitzgerald stesso all’epoca) e Miuccia Prada, e che ha collaborato con Tiffany & Co. nel disegnare fiumi di perle e diamanti, Luhrmann è riuscito nell’impresa di proiettare lo spettatore nella sfavillante atmosfera degli anni Venti.

Long Island, West Egg, un giovane agente di borsa, Nick Carraway, affitta una modesta casetta, circondata dalle sontuose ville dei nuovi ricchi. Fra tutte spicca quella del suo vicino Jay Gatsby, un miliardario dal passato oscuro che ogni venerdì, durante l’estate, è solito dare feste grandiose alle quali partecipa chiunque, per lo più senza invito. Esattamente di fronte, dall’altro lato della costa, nell’East Egg, vive con un marito fedifrago, l’ex giocatore di polo Tom Buchanan, e una figlia di tre anni, il suo grande amore Daisy, cugina di Nick. Questi, venuto a conoscenza della storia d’amore intercorsa fra loro cinque anni prima, si presta a farli incontrare a casa sua. La relazione precedentemente interrotta, perciò, riprende, ma, quando a Gatsby sembrerà di essere riuscito a realizzare il sogno di riprendersi la donna amata, Daisy sceglierà di rimanere con suo marito e lui morirà solo, convinto fino all’ultimo respiro della realizzabilità del suo destino.

Luhrmann riproduce fedelmente quasi ogni parola del libro, discostandovisi solo in alcuni particolari. In primo luogo, creando una cornice narrativa assente nel romanzo: Nick, il narratore, viene impietosamente inserito in una clinica psichiatrica, nella quale gli viene chiesto di mettere per iscritto i suoi ricordi. Il regista crea così un doppione del poeta squattrinato di Moulin Rouge, da cui riprende anche un’inquadratura, con il ragazzo seduto alla macchina da scrivere. In secondo luogo, non si sofferma sulla relazione, appena intuibile, fra lui e l’amica di Daisy, la golfista Jordan Baker, interpretata da un’altera Elisabeth Debicki. Altra differenza degna di nota è la scelta di far rivelare appena accaduto il fatto, senza un apparente motivo, da Tom a Wilson, marito della sua amante, che a investire e uccidere sua moglie è stato Gatsby; non, questo solo per salvarsi la vita, quando l’uomo si presenta a casa sua per ucciderlo, credendo sia stato lui. In questo modo la meschinità di Tom viene accentuata. Luhrmann, nel finale, non si dilunga sul funerale di Gatsby, tralasciando perfino la presenza di suo padre, ma si sofferma sulla scena precedente, in cui viene ucciso in piscina. A questo punto, è evidente un’altra sostanziale differenza rispetto al romanzo: quando Wilson spara a Gatsby il telefono squilla e il giovane, appena prima di morire, pronuncia il nome dell’amata. Luhrmann lascia al personaggio la speranza; l’amarezza e il disincanto restano allo spettatore, che sa che a effettuare la chiamata non è stata Daisy, ma Nick. Fitzgerald, invece, fa morire il protagonista senza che nessuno chiami, privandolo anche di quest’ultima illusione.

La critica si è divisa fra commenti entusiastici e nette stroncature. Personalmente ritengo che Luhrmann abbia offerto una buona interpretazione del romanzo. Innanzi tutto la scenografia e i costumi rendono ottimamente il lusso e lo sfarzo dei ceti più abbienti, dediti a feste piene di tabacco e alcol, che stridono, al confronto, con la povertà e la miseria di chi lavora duramente per poter condurre un’esistenza triste e grigia. Anche la colonna sonora, curata da Craig Armstrong (Romeo+Giulietta, Moulin Rouge), che spazia tra pezzi jazz e R’nB, rende la frenesia e gli eccessi di un’età che è sull’orlo del declino. Quanto ai personaggi, il regista esalta al massimo la figura di Gatsby, un magistrale Leonardo di Caprio: costruito e dai modi affettati quando “interpreta” il giovane, ambizioso gentiluomo; freddo e lucido quando si occupa dei suoi loschi affari; impulsivo e aggressivo quando lascia trasparire la sua vera natura, cedendo alle provocazioni di Tom.

Ma, sopra a ogni sua altra qualità, spicca il senso di solitudine che lo pervade, sempre.

Il suo desiderio di recuperare l’amore della donna della sua vita lo costringe a vivere proiettato nel passato: ogni azione che egli compie, dall’accumulare denaro attraverso il contrabbando, al trasformare la sua casa in una reggia, al dare feste, è in funzione del suo sogno, e ciò non gli permette di godere del presente. Non si fida di nessuno, cerca l’affetto e la comprensione di Nick, ma neppure con lui, all’inizio, riesce a essere completamente sincero, anzi, costruisce un’immagine impeccabile, ma fittizia, di sé, per ottenere il suo aiuto con Daisy. Per questo motivo è solo, perché a nessuno permette di sapere chi è realmente Gatsby. La sua figura è davvero immensa, ricca di sfaccettature, e di Caprio riesce a renderle tutte. Quasi insignificanti sono, invece, gli altri personaggi: Daisy, l’attrice Carey Mulligan, è frivola e priva di sostanza, incapace di prendere qualunque decisione; Tom, il muscoloso Joel Edgerton, è gretto e arrogante. Entrambi sono caratterizzati da una superficialità che non potrebbe essere meglio definita che dalle parole stesse di Nick: «Erano gente indifferente, Tom e Daisy – sfracellavano cose e persone e poi si ritiravano nel loro denaro o nella loro ampia indifferenza o in ciò che comunque li teneva uniti, e lasciavano che altri mettessero a posto il pasticcio che avevano fatto». Dalla parte opposta sta poi l’umanità sventurata, ma “vera”, di Wilson, un emaciato Jason Clarke, che prova un sincero affetto verso la moglie, Myrtle, l’esuberante Isla Fisher che, al contrario, è smaniosa di uscire da quell’esistenza livida. E poi troviamo Nick, l’alter ego di Fitzgerald, il timido e impacciato “supereroe” Tobey Maguire, spettatore impotente di un dramma che non può avere un lieto fine.

L’intera pellicola, come del resto il romanzo, è giocata sui contrasti: la vacuità e la profondità degli affetti, l’apparenza e la sostanza, il sogno e la realtà, le luci e le ombre.

Ciò, però, in cui davvero l’opera di Luhrmann si differenzia da quella di Fitzgerald, è la scelta di lasciare a Gatsby l’illusione. In quegli ultimi squilli del telefono sta tutta la drammaticità del film: lo spettatore sa che dall’altro capo dell’apparecchio non c’è Daisy, sa che il sogno si è spezzato, ma Gatsby no, Gatsby ci crede ancora, fino all’ultimo battito del suo cuore.

Ma in fondo, la morale è la stessa: il passato non si può replicare, mai.

 

“Così remiamo, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato.”

Francis Scott Fitzgerald

 

Ai miei figli - Memorie di giorni passati

di Francesca Girardi

Ai miei figli - Memorie di giorni passati, Pavel A. Florenskij, Mondadori.

 

16-07Chi si appresta ad affrontare la lettura di Pavel Florenskij, si appresta a conoscere uno dei maggiori pensatori del XX secolo. Spinto da una sete di conoscenza mai appagata a sufficienza, anzi alimentata sempre di più, Pavel si rivela nelle sue diverse personalità: matematico, ingegnere, filosofo, teologo... Altissimi livelli ha raggiunto la sua sapienza che non è stata limitata nemmeno dagli anni di prigionia nel gulag delle isole Solovki.

E proprio da qui sono arrivate le sue memorie.

Ai miei figli, memorie di giorni passati significa apprestarsi a evolvere, arricchendo il proprio spirito con concetti pratici quanto profondi.

Questo è il desiderio di Pavel che ci fa dono delle sue parole.

Leggere Florenskij non è solo conoscerne la vita con la sua storia e le sue esperienze. Non è starsene seduti comodi e sbirciare nella sfera privata di un illustre personaggio lasciando che gli occhi seguano riga dopo riga la sua biografia.

Non si può negare la presenza di ritratti paesaggistici, in particolare il Caucaso dove hanno sede i ricordi della quotidianità della famiglia Florenskij, memorie tramandate come da tradizione ai figli … Ma non è solo questo.

È molto di più.

Le lettere scritte alla famiglia nel periodo di prigionia sembrano essere state dettate dall’anima di Pavel e, attraverso la sua mano, sigillate dall’inchiostro per poi essere divulgate.

Traspare la volontà di tramandare ai posteri la sua sapienza e non conservarla gelosamente; la conoscenza è dettata dall’esperienza, dalla curiosità, oltre che dalla rielaborazione dei ricordi di quanto accadeva attorno a lui durante l’infanzia e l’adolescenza che ci dice “…trascorsi in una continua, insaziabile e mai paga contemplazione del mare. Era raro che passasse giorno senza che noi bambini, cioè Ljusja e io, andassimo due o anche tre volte sulla riva del mare. E mai il mare ci veniva a noia. Mai la sensazione che ci dava scivolare sull’anima, ma la penetrava ogni volta con tutto il suo essere” e continua “…Era attraverso il mare che da piccolo mi bevevo dei toni prossimi al verde, azzurognoli e giallastri”. Nulla è lasciato in disparte o al caso, Pavel non tralascia nulla, nemmeno le più semplici e naturali cose. Tutto viene descritto e ogni piccolo elemento non sfugge a momenti di riflessione.

“Ricordare” è un suggerimento che più volte compare nel testo.

I ricordi assumono un’importanza strabiliante e oltre ad essere momenti di un piacevole passato, talvolta diventano punto di partenza del viaggio della conoscenza.

Le lettere affrontano i temi più svariati alla stregua di capitoli di un sussidiario e con questa parola non voglio sminuirne il significato ma far comprendere con quanta sensibilità Pavel si ponga maestro verso tutti coloro che vogliono conoscerlo. Parla di se stesso, della moglie, dei figli e dialoga con loro ma contemporaneamente trasmette dei messaggi che possiamo definire “universali”, utili a tutti. E lo fa in un modo che non risulta distaccato, bensì coinvolgente con il suo pensiero.

Particolare attenzione nella lettura di Florenskij è doverosa proprio per comprendere in toto la moltitudine dei messaggi trasmessi. E quindi ci si può trovare a rileggere attentamente qualche riga per poi acquisirne il più profondo significato. Perché profonda e sensibile era sicuramente anche la sua anima.

Riflette Pavel e lo fa riguardo anche al più semplice e piccolo elemento della vita; per esempio i fiori, descritti nel minimo dettaglio tanto che sembra di avere tra le mani un trattato di botanica ma reso delicato da un non so che di poetico “…ero incantato dalla leggiadria di quei fiori con tre assi simmetrici, una doppia fila di petali di forma diversa e la coroncina sottile e verdognola che, unita al bianco del fiore a agli stami gialli, me li faceva sembrare belli oltre modo…” e poi ancora “…Dall’autunno inoltrato fino agli albori della primavera sulla strada per l’Adžarija trovavamo la rosa di Natale, l’elleboro…

Leggere Florenskij è essere esploratori meravigliandosi delle diverse facce che la vita ci mostra.

Nelle lettere raccolte in Ai miei figli, memorie di giorni passati, Pavel unisce magistralmente concretezza e spiritualità esprimendo tutto il suo essere geniale.

Un giorno, altrove

di Marina Brunetti

Un giorno, altrove di Federico Roncoroni, Mondadori.

 

Chi ti ama, ti inventa sempre come sei. (Fabrizio Morganti)

 

15-07Qualunque libro evoca in noi un sentimento, a volte ben più di uno. Non credo esista un libro capace di trasmettere abulica indifferenza, sarebbe un’implicita contraddizione. Nel caso di questo intenso libro, “Un giorno, altrove” di Federico Roncoroni (Mondadori, 2013) il sentimento, dirompente e coinvolgente, al punto da farci immedesimare nell’immagine umanissima di Filippo è dato, senza dubbio alcuno, dall’impatto empatico. Riporto fedelmente la descrizione espressiva ed appropriata che di questo sentimento ne fa Wikipedia: “L'empatia è la capacità di comprendere appieno lo stato d'animo altrui, sia che si tratti di gioia, che di dolore. Empatia significa sentire dentro ed è una capacità che fa parte dell’esperienza umana ed animale. Si tratta di un forte legame interpersonale e di un potente mezzo di cambiamento. Il concetto può prestarsi al facile riduttivismo mettersi nei panni dell’altro, mentre invece significa andare non solo verso l’altro, ma anche portare questi nel proprio mondo”.

Filippo Linati è parte di noi, lo portiamo nel nostro mondo, condividendone a volte il doloroso percorso di vita, a volte la vita stessa come attesa. “Un giorno, altrove” è il racconto epistolare in chiave digitale del sussulto amoroso e mai sopito di Filippo, appunto, per Isabella, giovane ancella del suo affollato palcoscenico femmineo, fuggevole cometa nel corpo senza esserlo mai nella sua testa. Isabella ha condiviso con Filippo molti anni, in un’armonica e perpetua corrispondenza d’amorosi sensi intellettuale, ma anche gioiosamente sessuale, sfumata alcuni anni prima in prossimità di una dura e ostinata malattia che accompagnerà il protagonista in una sorta di limbo medicale, fatto di altruistico accudimento  e pervicace desiderio di trattenere la vita ad ogni costo. In virtù del debolissimo filo che lo lega ancora all’esistenza, Filippo si vota, scampato alla morte, a un’ascetica vita ritirata e discreta, imbibita come sempre di cultura e semplici piaceri, apprezzati ora molto più che allora:

“Come dopo il linfoma avevo capito che, dal momento che non ero morto, potevo ricominciare a vivere perché non aveva senso avercela fatta e continuare ad aspettare di morire, cosi, Isa, di fronte al tuo silenzio, era opportuno che cercassi di tenermi su in qualche modo, con l’aiuto di qualcun’altra”.

A volte, nella vita si lasciano finestre sottilmente schiuse perché, come scrive Giulia Carcasi,

“… le finestre siamo noi a chiuderle male, le lasciamo mezze aperte quando aspettiamo il ritorno di qualcuno”

(Io sono di legno, p. 86).

Da quella finestra di splendida villa su “quel ramo del lago di Como”, che Filippo lascia inconsciamente dischiusa rientra, anni dopo, una scarna lettera moderna, una mail di Isabella, il suo perduto amore; una lettera inaspettata che suscita in lui sconcerto e sorpresa, ma che lo proietta in una dimensione più passata che presente, in cui ripercorre come “sbocciavano le viole” delle loro schermaglie verbali, la complicità acquiescente, la cannibalesca intesa sessuale, fino a giungere al timido accenno a un progetto di vita comune, da lui mai del tutto archiviato. Non leggiamo direttamente di lei, perché il libro è una sorta di diario unilaterale, sappiamo tutto di Filippo ma non di lei, se non per “relata refero” dell’antico amante, poiché neppure lui sa dove si trovi:

“Ma tu l’indirizzo non me lo mandi proprio. Meglio cosi. Vivi nella rete, e tanto basta. “C’è chi vive in rete” mi ribatteresti se fossi qui “e c’è chi vive nella sua tana”. È vero. Ognuno vive dove gli pare”.

Le repliche costanti, ma verbalmente anoressiche di Isabella non riescono a quietare una sete curiosa, interrogativa, talvolta inquisitoria che, al diniego di lei, dell’antico legame e degli scabrosi trascorsi oppone ricordi, lusinghe, un’anima nuda e finalmente denudata dell’orgoglio di chi è stato abbandonato. Le risposte saranno un’arrendevole presa di coscienza, spietata come un morbo. Un finale inatteso, tanto sorprendente quanto l’attimo iniziale che lo ha germinato.

La nostra parte emotivamente ed empaticamente solidale erompe in tutta la sua pietas umana a strizzare l’occhio lucido alla causa amorosa di Filippo, a sorridere con lui dei suoi vezzi intellettuali e delle sue colte citazioni, dei ludici appellativi alla sua amata, a cum patire l’uomo ridotto ai minimi termini umani, che l’autore ci sa trasmettere senza per questo ascriverlo a rango autocommiseratorio o vittimistico. Piuttosto ci rende giustizia di un amore per la vita che è un modello assai coerente per gli ancora immuni da linfomi, un Filippo vagamente libertino e affamato di attimi d’autore prima della malattia, che si aggrappa all’esistenza con le unghie e con le mani scarne e bianche di oncologico paziente:

“Non mi va di vederti e basta. Ho faticato tanto – sofferto tanto, posso dirlo? – per spegnere il reattore e bloccare il processo di fusione del nucleo che, nelle condizioni in cui ero, mi avrebbe ucciso; ho faticato tanto che non ho proprio intenzione di andare a guardare che cosa c’è sotto la cupola di venti tonnellate di cemento con cui ho sigillato tutto”.

Questo magnifico romanzo di esordio di Roncoroni evoca, a mio parere, alcune intense affinità con un altro celeberrimo desiderio, anch’esso vagheggiato, ma forse più malato, quello di David Kepesh in “L’animale morente” di Philip Roth:

“Il sesso è la nostra più grande àncora, la nostra più sofisticata illusione di salvezza, non solo perché perpetua la specie, ma perché quel momento esclude dal tempo, ha un altro ritmo […] il ritmo della carne, che non è il tic tac dell’orologio, ma il riconoscimento della morte ed al tempo stesso la sua sfida”

Forse proprio quella morte che Filippo cerca inconsapevolmente di esorcizzare, prima di divenire preda della malattia e che strenuamente mette in atto durante e dopo la sua regressione:

“ed ecco d’improvviso caduta quella che Kepesh chiama l’”illusione del metronomo”: “è crollata l’illusione, l’illusione del metronomo, il pensiero consolante che, tic tac, ogni cosa accadrà al momento giusto… la più bella favola infantile è che tutto si svolge ordinatamente. I nonni se ne vanno molto prima dei genitori, e i genitori se ne vanno molto prima di te. Se sei fortunato, la situazione può essere questa, con le persone che invecchiano e muoiono ordinatamente...”.

Un’illusione metronomica che rende la vita più accettabile, pur con la sua implicita certezza di estinzione, ma che non è appannaggio di tutti i viventi.

Una storia di sesso e di morte, ma soprattutto di amore, la storia cioè, che racconta ogni vero, grande romanzo.

 

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Francesca Pacini è giornalista, art director, docente. Sempre in moto, vive e lavora tra Roma e le...Read more >>
Chi sono? È sempre difficile descriversi, ogni volta che ci si prova si scopre di essere sempre altro...Read more >>
Valentina nasce a Lugano 32 anni fa. Sin dall’infanzia consuma ingenti quantità di libri, guidata da...Read more >>
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