Sciolti

In Viaggio

di Laura Caselli

Movimenti esterni ed esteriori, geografie che a volte ci corrispondono, altre volte, invece, ci risultano estranee. Ma l’importante è muoversi, dentro e fuori di sé….

 

 

17-07“Laura, chelovek mnonogramnyy, kak almaz!” mi disse una volta Vasilij, il tassista moldavo che mi accompagna a Sheremetyevo ogni volta che si presenta un viaggio di lavoro in una città della Federazione Russa. “Persona poliedrica come un diamante”… Spesso ripenso a quella definizione.

È da quando avevo tredici anni che viaggio. Iniziai con la “classica” Inghilterra, per un corso estivo di inglese. Ed è da quando avevo tredici anni che mi interrogo sui motivi di questa mia continua ed insaziabile voglia di studiare lingue, viaggiare, cercare, scoprire. Basta la prenotazione di un aereo per aprirmi il cuore, basta tornare da un viaggio, ovunque esso sia, lontano o vicino, lungo o corto, da sola o in compagnia, per lavoro, studio o svago, per sentirmi appagata. O per lo meno in parte…

Inizialmente pensavo che la motivazione alla base della mia voglia di viaggiare fosse di tipo meramente causale: amo le lingue, quindi devo andare nel paese dove si parlano le lingue che amo e studio per impararle meglio. Punto. Poi nel tempo ho capito che le lingue non sono, per me, il fine ultimo, bensì il mezzo: non viaggio per studiare le lingue, ma studio le lingue per viaggiare e vedere davanti a me nuovi orizzonti dischiudersi, scoprire punti di vista finora non considerati, non per mio volere, ma semplicemente perché da sola la mia mente non era stata in grado di “raggiungerli”. In ciascuno di noi esistono diverse sfaccettature, come in un diamante: in alcuni, esse si presentano in misura maggiore, in altri, in misura minore; alcune sono più sviluppate, altre appena accennate.

 

Sta a noi decidere come vogliamo diventare o essere, e il miglior modo per scoprirlo, a mio parere, è il confronto con gli altri. In quanto persona tremendamente razionale, procedo spesso (per non dire sempre) in maniera “scientifica”: se si fa un esperimento per provare un’ipotesi, non basta farlo soltanto una volta per avere risultati certi; allo stesso modo, non posso basarmi su opinioni di una cerchia ristretta di persone, magari sempre le stesse, per dire “Gli aspetti di me in cui mi identifico sono questi”. In tutta probabilità, se si ha un confronto sempre e solo con quelle determinate persone, rischiamo di illuderci di voler incarnare quelle sfaccettature che crediamo formino la nostra persona, semplicemente perché quel gruppo di persone non è sufficiente per farci conoscere o sviluppare le altre parti che vivono in noi.

In questo senso le lingue aprono nuove porte: più lingue sai, più è possibile comunicare con persone “diverse” da noi,  più si hanno opinioni e punti di vista che da soli non avremmo considerato, più ci rendiamo conto quali molteplicità vivono in noi, quali vogliamo rimpicciolire e quali vogliamo sviluppare e far prevalere. Anche solo parlando con qualcuno siamo in grado di dire “Vorrei avere il suo coraggio/entusiasmo/…” oppure “Mai vorrei essere come lui”. Credo che questo sia fondamentale soprattutto per le persone (io per prima) nelle quali convivono opposti.

Indubbiamente è più semplice non porsi problemi e illudersi che sia giusto diventare come la massa di persone che ci stanno intorno, una massa dove in ogni individuo prevalgono le stesse identiche sfaccettature di comodo. Già…è più semplice, perché analizzarci è faticoso, richiede impegno, sforzo e soprattutto sacrifici quotidiani. Non è stata certamente una passeggiata adattarsi alla burocrazia tedesca maledettamente rigida, che non ammette nessuna eccezione, quando andai a studiare all’università di Germersheim. Non mi sono affatto sentita rassicurata, le prime volte che presi i mezzi pubblici a San Pietroburgo, quando scoprii che la puntualità e il rispetto del codice della strada (dico solo che a volte mi sono vista passare davanti la vita…!) non sono priorità in Russia. E nonostante tutto preferisco fare sacrifici e mandar giù bocconi amari, perché sono proprio questi che mi hanno permesso di  scoprire la mia parte inquadrata, rigorosa e severa – identificandomi, in parte, con la Germania – e la mia parte esattamente opposta: caotica, che vive alla giornata e che ammette eccezioni in tutte le circostanze – ovvero ciò che mi permette di sopravvivere in Russia. Ancora mi resta da capire quale delle due parti vorrei prevalesse in me.

Viaggiare, e soprattutto lavorare e vivere la quotidianità di un altro Paese, non soltanto serve a conoscere più persone con le quali confrontarsi, come già detto, ma anche a farlo con se stessi, è utile per mettersi alla prova, per vedere come si reagisce di fronte a situazioni non calcolate e che in un altro ambiente non si sarebbero presentate.

Anche se essere paragonati a un diamante è certamente lusinghiero, mi auguro che i miei viaggi e le mie ricerche mi portino a trasformarmi in un cubo, dove non convivono più tantissime sfaccettature tutte egualmente sviluppate, come in un diamante, bensì che prevalgano quelle che fanno di me la Laura che voglio essere e che sono contenta di essere, senza rimpianti, rimorsi e frustrazioni. Chissà, magari invece scoprirò di voler rimanere un diamante e continuare a viaggiare e cercare…

 

Herskovitz e i condizionamenti

di Silvia Gaviglio

 

Quanto la nostra cultura ci influenza, ci condiziona? I diritti dell’uomo sono universali o legati a momenti geografici, e storici, particolari? C’è chi si è interrogato, e ha scavato…

 

 

10-07Con buona pace per Don Abbondio, che certamente non aveva wikipedia a portata di mano per cercare di ricordare chi fosse Carneade, noi non abbiamo pigre scusanti e quindi possiamo inoltrarci ed approfondire, più o meno, a seconda del nostro tempo, del nostro reale interesse, delle reali possibilità, un numero incredibilmente elevato d’intrighi che via via ci si palesano d’innanzi quasi a farci solletico. Anche oltre wikipedia…

 

I curiosi si distraggono difficilmente da questi guizzi incalzanti nell’aria così ci apprestiamo ad aggiungerne uno, per regalarci un pensiero nuovo. Nella nostra ricerca scopriamo che quest’individuo, Herskovitz, fu antropologo, attento osservatore di altri popoli, delle loro manie e dei loro segreti, della loro storia e delle loro relazioni, dei loro modi di organizzarsi e di vedere il mondo…insomma era un curioso attento, e un viaggiatore. Ce lo immaginiamo già, con un turbante in testa, nel deserto, vestito di lino chiaro , con un taccuino e il sole negli occhi. Ma inoltrandoci nella nostra ricerca scopriamo che quest’individuo che già cominciava a piacerci pose dei dubbi di stile, di profondità e di contenuti relativi alla dichiarazione dei diritti dell’uomo. La Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo!

 

Proprio lei, che studiamo a scuola da ragazzi e che ci accompagna nei nostri pensieri quando sentiamo che in qualche luogo nel mondo tali diritti sono ancora in cerca di applicazione. Ma come si può porsi contro la dichiarazione dei diritti dell’uomo? Perno centrale e di indiscussa importanza per l’umanità? Chi è questo pazzo? A questo punto della storia c’è chi si divide. Chi lo considera pazzo (perché l”invenzione” di tale dichiarazione è qualcosa di fondamentale e importantissimo, ed è difficile in effetti dire che così non è) e chi invece prova a seguire il discorso. Herskovitz aveva già ben in mente cosa sarebbe accaduto con quella dichiarazione, o meglio, data la sua grande esperienza ne comprendeva i limiti.

 

Proviamo a fare un esempio. Qualche anno fa, durante i mondiali in Corea qualche italiano rimase scandalizzato da uno dei piatti tipici del luogo: il cane. La cosa finì a macchiar di nero le pagine dei giornali dell’epoca. Italiani s’intende. Alcuni volevano protestare contro questa cosa impossibile a credersi. La contraddizione, a ben guardare, è enorme: non ci va che stranieri, immigrati inseriscano la loro cultura nella nostra ma siamo i primi a voler sbarcare in Corea con i nostri punti di vista incontestabili. Cos’è questa testarda tendenza comune a tutti a pensarci più “giusti” di altri? La cultura.

 

Ecco perché il lungimirante Herskovitz, che si stava occupando, è evidente, di qualcosa di estremamente profondo, nutriva dei dubbi a tal proposito. Perché la dichiarazione si faceva a Parigi ma per ogni individuo sulla terra. Si faceva nell’emisfero boreale, in Europa ma anche per i neozelandesi, per i giapponesi, per gli abitanti del Mali, per gli Inuit, per i cileni. Quindi dovremmo considerarci culturalmente condizionati? Sì. Sembra non esserci via d’uscita…

 

Il punto di vista è più importante della realtà  dunque. O meglio, della verità. Ma c’è una verità? Una oggettività? Anche qui tutti divisi. E’ come dire che un’opinione prevale sulla conoscenza, ma può essere davvero così? Potremmo buttare via il nostro studio, tutto ciò che sappiamo di noi, della nostra storia. No, diamine. Ma un tarlo ci attanaglia. Non è che la nostra cultura un po’ ci condiziona, ci mette limiti, non ci mostra altro? Beh…ma anche Herskovitz sarà pure cresciuto da qualche parte…avrà avuto anche lui una sua cultura in cui è nato e nella quale ha iniziato a studiare? Certo che è così. Siamo tutti culture, più o meno in viaggio. Ed è l’osservazione, l’incontro e la voglia di conoscere che consentono di arrivare alle posizioni di Herskovitz.

La cultura certamente ci suggestiona, ci inserisce e questo ci piace. Ma abbiamo bisogno solo di quella? O possiamo approfondire anche altro e porci ogni volta su punti di vista diversi, contrari? La vita è porsi di continuo domande o viverne una, già programmata, così tanto  ed esclusivamente “culturale”? Non sarà mai verità, in un senso o nell’altro, ma il mondo visto da zoom differenti e angoli di visuale diversi sembra più interessante, più ricco di stimoli, più nutriente, con meno nebbia attorno. Grandi spazi, ricchi di vento. Una bussola di cultura ci orienta ma diamo la libertà ai nostri sensi di portarci altrove.

Obsolescenza programmata

di Daniela Marras

 

Metti che una sera ordini una pizza da asporto e ti imbatti in un articolo di Focus sull’invecchiamento dei prodotti che consumiamo. L’ennesima trappola del consumismo. E noi, ci salviamo?

 

 

 

09-07Ho scoperto solo di recente (meglio tardi che mai!) cosa sia l'“obsolescenza programmata”, leggendo un articolo su “Focus” mentre aspettavo che le pizze da asporto fossero pronte. Certo, non è bello – chiunque sarebbe d'accordo, credo - scoprire che tutto ciò che acquistiamo sia programmato per essere sostituito, prima o poi: lampadine, calze di nylon, frigoriferi, cellulari, computer, stampanti etc. etc.

 

Si resta un po' perplessi e si riflette:

1° - Siamo ostaggi del consumismo!

2° - Anche noi siamo programmati per diventare obsoleti?

3° - C'è qualcosa che si salva dall'obsolescenza programmata?

 

- Quanto al primo punto, una veloce navigata su Internet ci apre gli occhi, almeno un po': siamo, più o meno inconsciamente, manipolati dal “sistema consumistico” che produce, produce, produce affinché si venda, venda, venda e quindi poi si consumi, consumi, consumi per poi riacquistare, riacquistare, riacquistare... dopo tempi più o meno brevi.

Tutto ciò è sicuramente inquietante!

Non solo la ricerca (dietro ogni prodotto che consumiamo, infatti, ci sono ingegneri, chimici, medici, tecnici e via dicendo, che studiano, sperimentano, programmano, testano) viene indirizzata dai finanziatori non affinché il prodotto ultimo sia the best ma affinché esso abbia una durata prefissata, o perché programmaticamente sarà soggetto a guasti difficili o addirittura impossibili da “curare” (generalmente dopo la scadenza della garanzia!) e quindi si renderà più “conveniente” l'acquisto di un nuovo prodotto o perché, anche se non irrimediabilmente guasto, il bene diventerà “vecchio”, “non più competitivo” e “obsoleto”, appunto, sul mercato, grazie ai messaggi pubblicitari più o meno espliciti o subliminali... neanche tanto.

E non finisce qui! Che fine fanno i beni di consumo “consumati”? Diventano spazzatura ovviamente! E dove vanno a finire, specie se rifiuti nocivi e tossici? Stando a ciò che ho letto, in Africa o in altri Paesi del Sud del Mondo... ça va sans dire!

La questione è stata ed è oggetto di riflessione, anche mediante la letteratura e il cinema, nonché a livello di progetti di legge in alcuni Paesi.

Merita quindi la dovuta attenzione non solo da parte di chi è più o meno attivo in politica ma anche di tutti i cittadini-consumatori che vogliano esserlo più consapevolmente.

 

- Quanto al secondo punto, esso porta a riflettere in un campo più “intimista”: anche noi, essere umani, siamo soggetti all'obsolescenza programmata? E, se sì, io, che sono over forty, a che punto sono nella via verso l'obsolescenza?!? Mi sembra di galoppare, galoppare, galoppare… verso l'obsolescenza appunto!

Ma forse no, un individuo non diventa “obsoleto”: il nostro hardware, è vero, si deteriora, si consuma col tempo e ne porta i segni; in certi casi, i meno fortunati, anche il software sembra deteriorarsi, si aliena dal mondo del senso comune e si perde nel mondo dell'incomunicabilità... Abbiamo quindi sicuramente una “durata” limitata (questa è forse l'unica certezza – o una delle poche - di questo mondo) ma basta questo per considerare un individuo, un essere umano, “obsoleto”, “non competitivo” nel “mercato” vale a dire nella nostra società?

Purtroppo, fermandosi a riflettere su questo nostro mondo, certe tendenze, certi modi di pensare, certe filosofie di vita lasciano balenare, più o meno esplicitamente, una, più o meno pressante, insofferenza proprio verso gli individui che non rispondono più a tutti i canoni del prodotto “nuovo” e “funzionante” al meglio.

Nessuna ricetta preconfezionata per porre rimedio a questa tendenza: solo un invito alla riflessione affinché, irretiti in un mondo consumista, non diventiamo noi stessi prodotti da consumare, beni “usa e getta”, articoli più o meno alla moda...

- Quanto al terzo punto, c'è qualcosa che si salva dall'obsolescenza programmata?

Se ci si pone questa domanda, forse è perché si sa già la risposta, forse è solo una domanda retorica, almeno si spera, nel mondo de “La stanza di Virginia” e nei mondi affini che pure esistono.

Che dire infatti del “manufatto stampato, rilegato e non riproducibile in streaming” (cit. da “Storia d'amore vera e supertriste” di Gary Shteyngart)?

Si mantiene vitale, più che vitale, anche nella nostra società: si leggerà pure poco, magari anche male, ci saranno anche gli e-book e gli e-book reader a fare concorrenza, ma sicuramente non verrà soppiantato del tutto.

Sì, il bene di consumo “libro” mal si presta a diventare oggetto di “obsolescenza programmata”: sì, potrà invecchiare, le pagine potranno ingiallire, potrà squinternarsi, ma non per questo diventerà “obsoleto”. Anzi i segni di vita potrebbero aumentarne il valore, come il vino buono. E questo, quanto al “substrato materiale”. Quanto poi al “contenuto”, allo spirito in esso racchiuso, sia che si tratti di un romanzo, come di un manuale di studio, di un saggio, una raccolta di poesie, un dizionario perfino, esso perdurerà ancora di più, o perché riprodotto con altri mezzi (che però credo non soppianteranno il “libro”), o perché vivo nelle menti degli autori e dei lettori.

E allora, per sottrarsi alle trappole del consumismo e dell'obsolescenza programmata, vale la pena “consumare” libri: ce ne sono tanti, tantissimi, per tutti i gusti, per tutti i tipi di consumatori-lettori che vogliano investire il loro tempo in un'attività senza tempo... o quasi!

 

Inseguendo Taia e Pasolini, appunti di viaggio da Salé

di Jacopo Granci

Un diario di viaggio in Marocco, sulle tracce di un’ispirazione. Due scrittori, due passaggi, due ricerche, sullo sfondo di una terra meravigliosa, potente, che non smette mai di incantare.

 

granciIl treno ha appena superato la stazione Rabat-ville. Mi affaccio al finestrino e vedo la torre Hassan spuntare imponente sui tetti delle case circostanti. Poco più in là c’è la casbah des Oudayas, che osserva dall’alto del suo promontorio l’incontro silenzioso tra il mare dell’Atlantico e il fiume Bouregreg. Questo piccolo corso d’acqua, poco più di un rigagnolo, nasce nelle lontane montagne dell’Atlas. Percorre centinaia di chilometri, scavando il suo letto tra le rocce aride dell’interno, prima di gettarsi sull’oceano proprio in questo punto, separando così Rabat da Salé. Due città vicine, “gemelle” a detta di alcuni, ma distanti in realtà dei secoli l’una dall’altra.

La prima governa la vita amministrativa e politica del paese, ed è rivestita di bei palazzi in stile coloniale e luci scintillanti. La seconda sembra aver fatto capolino nel ventesimo secolo soltanto da qualche decennio. A Rabat ci si sposta solo per lavorare, gli affitti sono alle stelle. Salé, Sla in arabo marocchino, è diventata invece una città dormitorio, un formicaio di cemento che si estende a perdita d'occhio dietro il prezioso centro storico.

Sono due le ragioni che mi hanno spinto fin qui, a Salé, un universo affascinante ma poco conosciuto. La prima si chiama Abdellah Taia. La seconda, Pier Paolo Pasolini. Il giovane scrittore marocchino, nato e cresciuto proprio a Salé (oggi vive a Parigi), descrive con parole cariche di affetto i ricordi che ancora lo legano alla sua terra. Nei suoi racconti dà voce alla miseria di Hay Salam, il quartiere popolare dove ha conosciuto la durezza della vita, e accenna ai misteri e alle leggende che ancora avvolgono la medina. E poi c’è Pasolini. Nel 1966 l’intellettuale friulano aveva trascorso alcuni mesi in Marocco, per cercare l’ambientazione adatta al suo Edipo re. Catturato dal sapore autentico profuso dalla città, Pasolini era tornato a Salé un anno prima di morire. Un vero colpo di fulmine. Lo stesso Taia, rapito dalla grandezza della sua opera, racconta che Pasolini aveva scelto questo posto come soggetto e ambientazione per un nuovo film, e che qui aveva deciso di convertirsi all’islam. Non so quanto ci sia di vero in tutto questo. Forse sono solo voci, solo fantasie, sufficienti tuttavia a stuzzicare la mia curiosità e convincermi ad inseguire le tracce dei due letterati.

Mi lascio la stazione alle spalle e mi dirigo verso le vecchie mura che ancora circondano il centro della città. Risalgono all’epoca della dinastia merinide, più o meno la seconda metà del XIII secolo, quando Salé acquisì importanza sul piano commerciale ed il suo porto, di cui oggi è rimasto ben poco, divenne uno scalo irrinunciabile per gli europei che si avventuravano nella costa atlantica. La calce che riveste i bastioni, un tempo bianca e lucente, è ormai gialla e sporca, deturpata dagli scarichi del traffico cittadino. Supero Bab Fes e muovo i primi passi all’interno della medina. Di colpo mi ritrovo immerso tra i vicoli stretti e chiassosi del mellah, il quartiere ebraico, almeno storicamente. Quasi tutti gli ebrei del paese (circa 60 mila), infatti, hanno lasciato il Marocco dopo la "guerra dei sei giorni".

Sono le undici del mattino e nel mellah è l’ora del mercato, dei traffici e degli affari. Un formicaio di volti, merci e colori a cui non sono preparato. Ho in testa le storie di Taia. I suoi racconti rievocano la presenza dei corsari, che resero celebre e temuta la città per oltre tre secoli, fino all’arrivo delle potenze del nord, che ha poi aperto la strada alla colonizzazione. Si soffermano sui “santi”, le confraternite sufi e i marabut, che vegliano numerosi a protezione degli abitanti del luogo, gli slaouis. E’ questo che mi interessa adesso. Non è ancora il momento di abbandonarsi all’allegria del suk e di perdersi in contrattazioni infinite. La ricerca è appena cominciata e, per quanto astratta e immaginaria, sono deciso ha proseguire nel mio intento senza concedermi distrazioni. Così, supero velocemente le strade affollate del mellah e punto dritto verso la Grande moschea, il cuore spirituale della città. E’ lì che troverò i miei tesori. O almeno credo. La Grande Moschea si trova dall’altra parte della medina e, per arrivarci, bisogna oltrepassare decine di strade e stradine, che al mio occhio inesperto sembrano tutte inesorabilmente identiche. Perdo ben presto l’orientamento. Provo ad imboccare qualche via a caso, nella speranza di imbattermi in un monumento noto che possa servirmi da riferimento, o di ritornare al punto di partenza. Senza successo.

Il sole comincia a farsi sentire. Intorno a me non c’è nessuno, nessuno a cui possa rivolgermi per chiedere informazioni. Solo pareti candide e vecchi portoni stuccati, alcuni intarsiati con precisione ed altri abbandonati al degrado del tempo. L’atmosfera che si respira ha il gusto antico del mito e il sapore amaro della miseria. Senza farci troppo caso, vengo lentamente risucchiato dall’incanto che ancora aleggia dentro la città. Un fascino privo di coordinate e dimensioni.

La mia mente si perde in riflessioni e congetture quando un ragazzo magro e mal vestito si avvicina proponendomi il suo aiuto. Si chiama Abdelillah e fa la “guida clandestina”. Ogni mattina va alla ricerca dei pochi turisti che transitano da queste parti per offrire loro i suoi servizi. Così si guadagna la giornata. Probabilmente mi stava seguendo fin da quando ho lasciato il mellah. Il suo volto scuro è segnato da cicatrici, ai piedi porta delle ciabatte di plastica logore.

In Abdelillah riconosco subito i tratti del “ragazzo di vita”. Del resto, come scoprirò più avanti, anche lui è il prodotto di un sottoproletariato povero e violento, come i personaggi dei romanzi di Pasolini. I suoi capelli crespi mi fanno pensare al “Riccetto”. Sono sulla strada giusta. L’idea di proseguire la ricerca in compagnia di un autentico slaoui, probabilmente a conoscenza delle storie e dei racconti che vado cercando, non mi sembra così insensata. Accetto la sua proposta e ci incamminiamo assieme verso la Grande moschea, nella zona ovest della medina, quella che confina con il cimitero e poi con il mare. Abdelillah è nato lì, ne conosce ogni dettaglio.

Proseguiamo veloci, cinque minuti di marcia e siamo di fronte alla zawiya Sidi Ahmed at-Tijani. E’ la sede della Tijaniyya, una confraternita sufi ben radicata nel tessuto sociale del paese. Il sufismo è una caratteristica dell’islam marocchino. Almeno di quello autentico e popolare, non  ufficiale. Con i suoi marabut (una sorta di santuari) e le sue confraternite, diffusi in tutto il territorio, si discosta dai canoni classici dell’ortodossia musulmana. La tariqa Tijaniyya è una organizzazione religiosa diffusa ormai a livello internazionale. L’accesso principale al misterioso luogo di culto è chiuso per lavori di ristrutturazione, ma dietro le impalcature si possono scorgere lo stesso alcune decorazioni in caratteri kufi (la calligrafia prende nome dalla città di Kufa, nell’attuale Iraq, altro importante centro legato alla confraternita). Abdelillah mi informa che i fedeli, i faqir (“poveri” in arabo), ogni giorno fanno il loro ingresso dalla porta secondaria sul retro, al termine della preghiera dell’alba, per compiere i rituali collettivi: è qui che si abbandonano alla danza e all’invocazione ripetuta del santo fondatore, per cadere in trance ed entrare in contatto diretto con il divino.

Superata la Tijaniyya, arriviamo alla Grande moschea. Il perimetro è vasto e, mentre lo percorriamo, Abdellilah va avanti con le spiegazioni: “la moschea ha sette ingressi. Sei porte più piccole, aperte a turno dal sabato al 02-07giovedì, ed una più grande, riservata al venerdì, giorno di preghiera comune”. Accanto all’immenso portale, rifinito in legno di cedro, c’è la medersa. E’ la più vecchia del Marocco, costruita all’inizio del XIV secolo dai berberi Merinidi, divenuti i sovrani di Fes. Anche la Grande moschea risale a quell’epoca. Le decorazioni a mosaico e gli stucchi raffinati che rivestono le colonne e le pareti dell’atrio permettono alla medersa di Salé, seppur di dimensioni modeste, di gareggiare in splendore con le altre scuole coraniche del Paese. “E’ perfino più bella della Youssufiyya di Marakkech”, commenta il mio "Riccetto".

Mi sto lentamente calando in quell’universo mistico che Taia lascia trapelare dalle sue opere. Gli abitanti di Salé dimostrano tuttora un vigoroso attaccamento al culto e alle pratiche religiose, tanto che la città, eclissata dai fasti della capitale, è considerata una delle roccaforti del tradizionalismo. Tuttavia, mentre la medina resta impregnata di una religiosità popolare, legata al sufismo, alla spiritualità e alla venerazione dei santi, i quartieri periferici hanno subito la penetrazione della predicazione salafita (“islamista”), più rigorosa e intransigente, ed in netto contrasto con la prima tendenza.

03-07Proseguendo il cammino che dalla moschea conduce all’esterno delle mura, verso la piccola spiaggia, ci imbattiamo nel marabut di Sidi Abdallah Ibn Hassoun, il “patrono” della città. Da quattrocento anni viaggiatori e marinai oltrepassano la soglia del santuario e depositano una piccola candela colorata sopra la tomba del sufi, nella speranza di ricevere la sua benedizione e la sua protezione, o meglio la sua baraka.

Poco più avanti, oltre il cimitero sconfinato e sobrio che si estende per tutto l’angolo nord-occidentale della città, c’è un altro marabut. Un cubo bianco, all'apparenza spoglio, con il tetto dipinto di verde e una mezzaluna che spunta timida sopra la cupola. Il santuario di Sidi Ahmed Ben Ashir riposa solitario tra il cimitero e la spiaggia, di fronte all’immensità dell’oceano. “Era un dottore di origine andalusa, che arrivò a Salé all’inizio dell’Ottocento. Con strani unguenti e una profonda dedizione si dedicò alla cura dei folli”, spiega Abdelillah. Sono in molti a rivolgersi ancora oggi al “santo” per invocare la sua baraka. Taia, durante la sua infanzia, si ritrovava spesso ad accompagnare la madre fin dentro al marabut, dove questa si prendeva cura dei malati che lì trovavano rifugio durante la giornata. “Non so per quale motivo gli volesse così bene – scrive Taia – gli portava da mangiare, latte e datteri, e rimaneva per ore a parlare con loro. Percepivo una intimità che allora non riuscivo a comprendere e che a tratti invidiavo”.

Il mio sguardo si perde tra le migliaia di tombe disseminate attorno a me, in ogni direzione. Piccole lapidi grigie, bianche, rossastre, con inciso nome e data. Niente altro. Niente fiori, niente foto, niente altari, come se i morti che qui riposano da secoli appartenessero tutti alla stessa umile classe sociale. Abdelillah richiama la mia attenzione, invitandomi a proseguire il cammino. Sono soddisfatto dei risultati ottenuti finora dalla mia ricerca. Adesso però è arrivato il momento di abbandonare i “santi” e di mettersi sulle tracce dei celebri corsari che resero grande e temuta la città.

“Il luogo che stai cercando si chiama Suk El-Ghazel, ma prima di raggiungerlo voglio farti conoscere il fornaio del mio quartiere”, butta lì “il Riccetto”. Nelle strade che stiamo percorrendo, di nuovo all’interno della città vecchia, Abdelillah ha trascorso gran parte della sua vita. Dopo il matrimonio si è trasferito con la moglie nei sobborghi di recente costruzione. Incuriosito, accetto volentieri questa breve deviazione. Pochi passi e siamo già arrivati. Rachid ha un piccolo forno, nascosto dietro una porticina socchiusa, in cui cuoce il pane che le famiglie della zona preparano in casa. Sopra tavole di legno giacciono pile e pile di impasti rotondi, che Rachid ha accumulato nel corso della mattinata. Nelle ceste, invece, ci sono le pagnotte già cotte, pronte per essere riconsegnate alle famiglie. Dopo una chiacchierata e qualche foto, saluto il fornaio e lo lascio al suo lavoro.

Suk El-Ghazel è una piccola piazza situata più o meno nel centro della medina. A prima vista non sembra evocare nulla di così straordinario. Anzi, la definirei anonima. Sono le due di pomeriggio e in giro non c’è quasi nessuno. In realtà molte storie, vecchie e nuove, si intrecciano proprio in questo punto della città. Ci mettiamo a sedere e, con molta calma, Abdelillah inizia il suo racconto.Suk El-Ghazel da decenni è il centro di riferimento di tutte le attività legate alla lavorazione della lana, una delle risorse principali di Salé. Un’antica tradizione che continua ancora oggi. E’ qui che al mattino arrivano i carri provenienti dalle regioni interne, dalle montagne del Medio Atlante”. Portano la lana grezza. Cumuli biancastri di tessuto vergine e maleodorante inondano il terreno, mentre i tessitori, proprietari degli atelier che si affacciano sul perimetro del mercato, analizzano la merce e danno il via alle contrattazioni. “I maestri artigiani poi la cedono ai laboratori di tintura. Una volta trattata, la lana ritorna ai tessitori che la trasformano al telaio in tappeti e coperte”. Gli chiedo dove siano finiti ora i carri, la lana e tutto il resto. “Il mercato finisce verso le undici, a volte alle dieci, se il carico di lana in arrivo è già venduto. Ma il pomeriggio, dopo la preghiera di al-Asr, il suk cambia volto. Le donne si siedono in cerchio all’ombra degli alberi e comincia l’asta per la vendita dei prodotti finiti, tappeti e coperte”, replica Abdelillah. Manca ancora un po’ alla terza preghiera della giornata, ma in effetti una ventina di donne, nascoste dietro i loro hijab, cominciano ad ammassarsi al centro della piazza.

Tuttavia, per spiegare l’importanza che Suk El Ghazel riveste nella storia della città occorre fare un passo indietro. Fino alla seconda metà dell’Ottocento, prima dell’interesse coloniale e della vittoria delle truppe federali nella Guerra di secessione americana, non erano i tappeti e le coperte che qui venivano messi all’asta, bensì gli schiavi. Gli Europei attraccavano le loro navi al porto di Salé o della vicina Rabat (un tempo chiamata Sla jdida, "Salé la nuova") per rifornirsi di manodopera destinata alle piantagioni del nuovo mondo. I mercanti del suk, a loro volta, acquistavano gli schiavi dai corsari, al rientro dalle spedizioni nell’Africa centrale. El Ghazel era uno degli anelli di congiunzione di quel “commercio triangolare” che caratterizzava la tratta degli uomini in catene. “Un perno vitale per i traffici che dal Seicento all’Ottocento legavano l’Europa all’Africa e all’America”, conferma Abdelillah, che continua a sorprendermi con le sue spiegazioni. Guardandolo in faccia non lo avrei mai creduto un così fine conoscitore della città.

Le attività dei corsari, però, non si limitavano alla compra-vendita degli schiavi. Per prima cosa, la “guerra di corsa” non deve essere confusa con la comune pirateria. Era una pratica regolata da codici ben precisi, da trattati che ne definivano zone e obiettivi. Questa attività dominò la scena mediterranea, almeno nella parte occidentale, dalla battaglia di Lepanto fino alla conquista di Algeri.

Era una guerra fatta di saccheggi, assalti e alleanze, a cui non si sottrassero nemmeno le flotte europee. I bottini, le mercanzie e i marinai appartenenti alle navi nemiche, servivano in parte a ripagare gli armatori e in parte venivano divisi tra l’equipaggio. “I corsari di Salé si lasciarono dietro prigionieri, vedove, orfani e bastardi. Si lasciarono dietro immensi tesori, nascosti da qualche parte nelle montagne dell’Atlante. Ma soprattutto, si lasciarono dietro, ben ancorati nella memoria popolare, dei racconti incredibili, storie favolose che non moriranno mai”, confessa Abdellah Taia in una delle sue prime opere, Le rouge du tarbouche.

Comincio ad essere stanco e il mio stomaco avanza proteste timide, ma inequivocabili. Così propongo una pausa pranzo. Entriamo in un ristorante alla buona, sporco al punto giusto e non lontano dalla piazza. Ci dividiamo un tajine di montone mezzo bruciacchiato e non troppo speziato. Inebriato dal forte odore di timo, cerco di saperne di più sul conto di Abdelillah. Siamo stati assieme quasi quattro ore, abbiamo percorso la medina in lungo e in largo, abbiamo inseguito assieme i “santi” e i fantasmi dei vecchi corsari, raccontandoci aneddoti sul passato della città e dei suoi abitanti. Ora vorrei conoscere un po’ meglio la storia della mia “guida clandestina”. I segreti che “il Riccetto” nasconde, dietro al suo volto assolutamente poco raccomandabile, mi incuriosiscono. Nel corpo porta i segni della violenza della miseria. Oltre alle cicatrici sulla faccia, ha il braccio sinistro inciso da decine di tagli.

“Ho trent’anni e faccio questo lavoro da quando ne avevo nove. A scuola ci sono andato poco e malvolentieri. Mia madre, allora, mi mandava a caccia dei rari stranieri che mettevano piede in città, per fargli fare il giro dei monumenti. Così portavo a casa qualche soldo”, mi confida tra un boccone e l’altro. “Ma all’inizio conoscevo a malapena i nomi delle strade. Poi ho capito che se mi fossi impegnato veramente, dai pochi spiccioli delle mance sarei potuto passare al guadagno vero. Mio fratello, prima di morire, aveva studiato parecchio e nella sua casa c’erano ancora un sacco di libri. Li ho presi ed ho iniziato a leggerli, per imparare più cose possibili sul passato di Salé e del Marocco in generale”.

Di nozioni, aneddoti, nomi e dinastie, Abdelillah ne sa tante, non c’è che dire. Ma essere una guida preparata non gli basta per assicurare una vita decente alla moglie e al figlio. Nel corso della chiacchierata, vengo a sapere che per arrotondare si dedica, di tanto in tanto, al commercio clandestino di hascisc. “Solo quando gli amici vanno a prenderlo direttamente nelle montagne del Rif”, tiene a precisare. E non è tutto. Dopo una breve parentesi in carcere, più o meno cinque anni fa, è diventato un informatore della polizia, al servizio del mokaddem (ministero dell'Interno) della città. Quelli come lui, da queste parti, si chiamano “orecchie del potere”. Così può portare avanti i suoi piccoli affari senza problemi, lo spaccio del fumo e il lavoro di faux guide, due reati per cui sono previste, da qualche anno, delle pene piuttosto severe.

Il tajine è finito e, mentre ci gustiamo quello che resta del digestivo (un rigoroso tè alla menta), Abdelillah mi fa capire che per lui è arrivato il momento di andare. Un sottile invito a mettere mano al portafoglio per dargli quel che gli spetta. All’inizio del giro, inebriato dall’entusiasmo e dalle aspettative della ricerca, non avevo pattuito alcuna cifra e solo adesso mi accorgo del grande errore commesso. Vuole 250 dirham, più o meno 25 euro, una tariffa da “americani”, secondo il gergo negoziale. Non ci siamo. Mi preparo ad una contrattazione serrata, come vuole il costume locale, e non ho alcuna intenzione di cedere. Le trattative vanno avanti per una mezz’ora, durante la quale il proprietario del locale ci offre un altro bicchiere di tè. Alla fine arriviamo ad un accordo: 100 dirham e mezzo pacchetto di Gauloises. L’altro mezzo lo conservo per il ritorno a piedi all'Océan, il simpatico quartiere di Rabat dove vivo ormai da alcuni anni. Lascerò perdere il treno e attraverserò il Bouregreg in una delle barchette a remi che fanno la spola tutto il giorno, per pochi spiccioli, da una riva all'altra.

Pago il conto, come stabilito. Lasciamo il ristorante e ci salutiamo con una calorosa stretta di mano, entrambi visibilmente soddisfatti. Abdelillah ha guadagnato ampiamente la sua giornata, ed io sono riuscito a penetrare parte dei misteri e delle leggende che avvolgono questa città in fondo ignota, soffocata dalla vicina Rabat e, proprio per questo, incredibilmente autentica.

Mi resta ancora un ultimo obiettivo prima di lasciare Salé. Raggiungere la spiaggia. Questa volta ho memorizzato bene le strade, percorse solo qualche ora prima assieme al “Riccetto”. Mi incammino lungo rue al Qashashin, una via stretta e invasa dall’immondizia, che taglia in due la medina come un perfetto asse perpendicolare al mare. Arrivo alla Grande moschea, poi ai marabut ed entro nel perimetro del cimitero. Superata l’ampia distesa di lapidi spoglie, avanzo a passi circospetti nella sottile lingua di sabbia che separa i bastioni della città dall’oceano. Il sole è già basso all’orizzonte. I suoi raggi rimbalzano sulla superficie liscia dell’Atlantico come saette, mentre alla mia sinistra la casbah, antichi bastioni a protezione del porto corsaro, risplende di una luce irreale. Il riflesso del sole ha velato le pareti gialle di una tinta rossastra. Nella piccola baia, una manciata di barche sta rientrando adagio verso la foce del fiume.

Pier Paolo Pasolini si rifugiava ogni sera di fronte a questo spettacolo, stregato dalla purezza di Salé e dalla semplicità genuina dei suoi abitanti. Qui aveva trovato dei nuovi “ragazzi di vita” e l’esaltazione di quel misticismo popolare descritto con passione nelle prime opere in dialetto friulano. Ora la mia ricerca è davvero finita. Mi siedo sulla sabbia ancora calda e aspetto il tramonto in silenzio, come era solito fare il nostro grande poeta.

Interview: The Gezi Park days

di Francesca Pacini

dogaInterview: The Gezi Park days

 

Doğa Kocagöz lives and works in Istanbul. His life is divided into english books translations and the work at Artist’s Kahvesi, a very nice bar in Taksim.  He took part in the protest that changed him forever. He tells us his experience….

di Francesca Pacini
We all know how the Gezi resistance started. But can you tell us some more?

Gezi resistance started for protecting the trees in Gezi park but then it turned into something anti government. Now it is an anti government movement.



Solidarity: the activists are very different one from the other…. Who is a "çapulcu"?

Çapulcu is a word that used by Erdoğan for everyone who attended to Gezi movement and everyone who does not support AKP.



Muslims and non muslims. many people think all this is also against the muslim religion, and not against Erdogan repression. Where is the truth?

AKP and Erdoğan tried to make people believe that it is anti religion movement but it is not we celebrated the kandil all together in Gezi and than people organized iftar meals in Gezi. That is the proof that it is not a anti religious movement. Maybe it is true that most of the attenders of Gezi are not religious people maybe they are atheist. But in Gezi, religion is not the main problem. Problem was the fascist government.



Çapulcular use a very ironic and romantic way to resist, from the standing man to pinguins up to the painted steps. This touched many people in many countries. it is really a fascinating revolution against the power and the police attacks. can you tell us more about it?

We use everything we can use  like penguins and the painting stairs. Because we believe that the city we are living belongs to us. By us i mean the public. Government should know that they are in the parliament for us. Without us they are nothing.



This brutal repression is impressing the whole world. But now there are so many conflicts spread all around  that we risk to miss some precious informations. what is going on right now? How can we help to share the news?

There are some twitter accounts which are trustable you can follow and support them spread them worldwide. This is the negative part of social media: everyone creates his own media and broadcast some videos or photos we know that not everything you can see or read on internet is true. Because it is impossible to control. But the general media is controllable and we realized that it is not something you rely on. It depends on who is controlling it. For example if it is like turkish media which is controlled by the fascist government. Definitely you cannot trust the tvs.


Your life before "Gezi" and your life "during and after". How this experience changed you?

Gezi experience definitely changed me. Now i know that AKP is afraid of people, they just pose like something who does not step back. And i also much more realized the government terror on minorities. I always was heard of that government terror on minorities but this time i was that part of minorities and i saw that government terror with my own eyes.


What will happen in Turkey? What is democracy in Turkey, since Atatürk and after?
I think no one knows what will happen next. There was no democracy in turkey. But as i mentioned before almost everyone who attended Gezi is aware of that.  There is no democracy. People realized that how government behave on minorities for years. Now people understand kurdish people.


How  this “revolution” might change the country?
I am not sure about that we can call that revolution. But revolution blinked to us . Now we understand other people who lived under government terror for years as minorities. We know that almost everything we saw on tvs was a lie. People who question authorities number is increasing and i believe that this is a good thing.

 

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